“Una giustizia giusta, se vogliamo usare quest’espressione, è una giustizia che permette di guardare al futuro, che non si pietrifica su fatti passati che pure sono indelebili. La giustizia giusta è riconciliazione, non vendetta. Perché la giustizia vendicativa – ce lo insegna la tragedia greca, in particolare l’Orestea di Eschilo – distrugge insieme gli individui e la polis, mentre una giustizia riconciliativa realizza l’armonia sociale. Come insegna la storia di Liz, senza cancellare nulla, bisogna che sia possibile aprire una prospettiva nuova per la singola esistenza individuale e per l’intera comunità”
«A seguito della pubblicazione dell’articolo «Meloni la peronista dell’altra destra più amata di Salvini» ho dato mandato ai miei legali di sporgere querela per diffamazione nei confronti del giornalista Francesco Merlo e del direttore del quotidiano Repubblica, Carlo Verdelli. Di rado, nella mia vita, ho letto un articolo così violento, così lesivo della dignità di qualcuno, così palesemente volto a istigare odio verso quella persona e considero gravissimo che molte delle affermazioni a me attribuite per giustificare il disprezzo del giornalista siano totalmente inventate o volutamente manipolate. Il che, chiaramente, va ben oltre il diritto di critica e configura la piena diffamazione. Di questo Merlo e il direttore di Repubblica risponderanno in tribunale»
Mi dichiaro devoto e grato debitore del chiarissimo lettore Burgalassi Nedo che mi segnala questa perla da autentica antologia. Sul sito di Repubblica oggi è apparsa la notizia che in Australia è già il 2019 e c’è il lancio di una notizia da Auckland. Che però si dà il caso non sia in Australia ma in Nuova Zelanda. Immagino che Paolo Attivissimo per segnalare uno svarione del genere si sarebbe svenato e avrebbe gridato “allo scandalo” invocando il necessario e imprescindibile “crucifige”. Noi, invece, con la compostezza che ci contraddistingue, diamo la notizia con il commento consueto che trattasi di malastampa, informazione sbrigativa e pasticciata, nonché di disinformazione spicciola e gratuita venduta per pochi centesimi al chilo nella fretta di riempire il web di contenuti originali sì ma purtroppo sbagliati. Impietoso è stato il Burgalassi a tirare giù lo screenshot, impietoso sono io a ripubblicarlo perché impietosi soprattutto con loro stessi sono quelli di Repubblica. È solo l’ultimo svarione increscioso di un anno da dimenticare. Nel 2019 ce ne saranno molti di più.
Silvia Bencivelli è una (bravissima) giornalista scientifica. E’ anche scrittrice (non so se altrettanto brava perché non ho letto il suo romanzo pubblicato per Einaudi), conduce svariate trasmissioni radiofoniche e televisive e ha, come tutti, anche qualche difetto: se la tira un po’ ed è pisana (che per un livornese come me non è esattamente un buon viatico), ma non è ancora proibito tirarsela né, purtroppo, essere pisani.
Giorni fa ha raccontato la sua storia su “Repubblica”. Dopo aver scritto e pubblicato un suo articolo in cui in quattro e quattr’otto smonta la teoria delle scie chimiche (ripeto, la ragazza è veramente brava e c’è poco da mordere, fidatevi!). Da quel momento, la sua vita è stata dominata dalla paura perché ha cominciato a ricevere messaggi di insulti e di minacce sui social (spesso a sfondo sessuale). Di parla di decine, forse centinaia di comunicazioni di questo tipo. “Troietta in calore”. “Puttanella da quattro soldi”. Facili e scontati appellativi che fanno male. Molto male. Non si può essere trattati così per qualcosa che si è scritto. Non è normale, è fuori da ogni logica etica e morale. Soprattutto se si tiene in debita considerazione il fatto che ci sia stata una sorta di capobranco a dirigere l’orchestrazione delle minacce e degli insulti alla Bencivelli. Ma si sa, “i muri vanno giù al soffio di un’idea”, come dice una vecchia canzone, e a qualcuno dovranno pur girare le palle. Da qui la decisione di Silvia Bencivelli di portare in giudizio i suoi persecutori, il cui “capo” è stato condannato l’altro giorno per diffamazione, mentre il tribunale ha anche ravvisato il reato di minaccia da discutere in separato giudizio.
E’ stata coraggiosa Silvia Bencivelli a querelare i suoi persecutori (spero TUTTI, uno per uno)? Certamente sì. Ma il coraggio non è stato solo quello. Lì si trattava del coraggio che ti dà la paura di avere a che fare con gente che potrebbe presentarsi sotto il portone di casa tua e farti del male. Ma c’è un secondo coraggio, ben più grande, quello dell’affrontare la magistratura e pretendere l’accoglimento di una querela per diffamazione e il riconoscimento del danno (ovvero lo stabilirsi giuridicamente che quel fatto si è verificato e che sì, il signor Nomen Nescio ha offeso la reputazione della signorina Tal De’ Tali). Non può avere idea la Bencivelli di quante querele per diffamazione vengono archiviate dalle procure anche se nel frattempo ci si è costituiti con un atto di formale opposizione. Rischiava di vedersi ferita dai suoi persecutori fanatici delle scie chimiche e anche da un sistema giudiziario che avrebbe potuto risponderle picche. Perché il fatto è di tenue entità (col cavolo!), perché così fan tutti (col cavolo!), perché quelle espressioni sono ormai entrate nel linguaggio comune assumendo una connotazione certamente volgare e disdicevole, ma non tanto da ledere l’onore (col cavolo!). Insomma, non è che le procure siano poi quei luoghi così accoglienti e confortevoli dove ti dicono “Ma sì, venga, venga, Lei ritiene di essere stato diffamato? Adesso ci pensiamo noi, non si preoccupi.” Tutt’al più prendono la tua querela, la sbattono in un cassetto e quando si avvicinano i tempi della prescrizione chiedono l’archiviazione. E allora sarebbe stata ferita doppiamente, triplamente, sarebbe stato un dolore immenso, ancora più grande della paura, del senso di non poter respirare, del terrore che si può provare ogni volta che si aprono i social per farsi gli affari propri e ritrovarsi sommersi di insulti.
La Bencivelli, nel citato articolo di “Repubblica”, tra le altre cose, osserva “qualcuno penserà che il mio processo è un femminile privilegio.” Sì, lo è stato. So di espressioni come “pompinara” tranquillamente derubricate a entità poco più che bagatellari, ma sempre e comunque niente per cui valga la pena di imbastire un procedimento. E non si sa più che cosa debba fare un cristiano per vedersi riconosciuta la ragione e lo status di vittima di un reato, probabilmente essere ucciso.
Ha vinto, Silvia Bencivelli, ha vinto due volte. Gli altri rimangono al palo.
AGGIORNAMENTI DEL 27/04
Silvia Bencivelli, a poche ore dalla pubblicazione del post mi ha lasciato un “like” su Twitter. La ringrazio per avere trovato il tempo di farlo.
Paolo Attivissimo, dal canto suo, da brava persona attenta ai complottisti, sempre impegnato a smascherare le scie chimiche, sensibile a gongolare quando arriva loro qualche condanna, non ha scritto una sola riga sul caso Bencivelli. C’è giornalismo e giornalismo, quello che senza urlare va a chiedere di avere giustizia nelle sedi competenti e quello che pretende di rivelare la verità a tutti i costi. Noi scegliamo il primo.
Questo blog ha molto a cuore il tema della diffamazione.
Sarà anche perché anni addietro qualcuno ha avuto il ghiribizzo di chiederne il sequestro integrale a fronte di alcuni contenuti suppostamente diffamatori (nel senso che erano loro che lo supponevano), il cui contenuto offensivo non è mai stato dimostrato e mai lo sarà.
Al di là di questo anche la diffamazione è un tema scottante, perché rappresenta il limite entro il quale contenere quella libertà di espressione di cui vi sciacquate la bocca (sì, proprio voi) quasi fosse acqua benedetta.
Fatto sta che ieri, mentre stavo leggendo la stampa on line, ho trovato un rimando di “Repubblica” a un articolo de “L’Espresso” intitolato “A processo per un commento su Facebook. Ora il giudice deve decidere se è diffamazione.”
Poi il sottotitolo: “Il caso della giornalista Marina Morpurgo, che ha criticato sul suo profilo una campagna pubblicitaria con protagonista una bambina, arriva in tribunale. E a rischio è la libertà di espressione”.
Lì per lì ho pensato anch’io che mentre in Francia si muore di matita, qualcuno in Italia continua a friggere inutilmente nelle padelle dei pubblici ministeri ma poi ho cambiato rapidamente idea.
Andiamo per ordine:
– Marina Morpurgo ha ricevuto un avviso di chiusura delle indagini preliminari (almeno così si evince dall’articolo) per violazione del comma 3 dell‘art. 595 del Codice Penale: diffamazione aggravata dal mezzo di diffusione.
– L’accusa è quella di aver “offeso l’onore” della Scuola di Formazione Professionale Siri, “denigrandone su un social network la campagna pubblicitaria”.
Bene. Anzi, male. Andiamo a vedere di quale campagna pubblicitaria si tratta: è quella che vi ho messo in evidenza. Fa vedere una bambina intenta a truccarsi come se fosse un’adulta, sormontata dalla scritta “Farò l’estetista, ho sempre avuto le idee chiare”. La soluzione grafica non mi piace, ma quali cosa avrà detto di così penalmente rilevante la Morpurgo da far scattare l’intervento del P.M.?
Ecco qui: “Anche io ho sempre avuto le idee chiare: chi concepisce un manifesto simile andrebbe impeciato ed impiumato… I vostri manifesti e i vostri banner sono semplicemente raggelanti… Complimenti per la rappresentazione della donna che offrite… Negli anni Cinquanta vi hanno ibernato e poi risvegliati?”
E qui, se all’inizio, come vi dicevo, mi è venuta la voglia di difendere la Morpurgo, come stanno facendo in molti in rete, mi è passata.
A prescindere dalla citazione disneyana che indubbiamente alleggerisce il supposto intento diffamatorio (“impeciato e impiumato” ricorda Paperon de’ Paperoni, per chi abbia dimestichezza con Carl Barx), quello che salta agli occhi è che si riferisce non già al discutibile manifesto ma alle persone che quel manifesto hanno ideato. E’ sul “voi” che punta il dito, non sul “esso”. In breve, in Italia si può dire che il politico Tale ha detto o fatto una michiata, ma non si può dire che è una testa di minchia. Una stupidaggine può farla anche una persona intelligentissima, ma questo non significa che sia uno stupido.
L’articolo de L’Espresso riporta, poi, alcuni brani dalla memoria difensiva dei legali della giornalista: ora ve ne riporto alcuni stralci con un breve commento (che ganzo che sono!)
“Con riferimento a Facebook o a social network analoghi, per il reato di diffamazione a mezzo stampa, la Cassazione non si è ancora pronunciata.”
E che c’entra? Non c’è bisogno che esista un precedente in Cassazione per procedere (se no nessuno verrebbe più processato, o verrebbero processati solo coloro che hanno un precedente giurisprudenziale). Il comma 3 dell’art. 595 dice che “Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516”. Parla di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. E Facebook è un mezzo di pubblicità.
“Le espressioni incriminate sono state riportate sulla pagina personale della Morpurgo, frequentata esclusivamente da suoi amici. Le comunicazioni lì pubblicate non sono visibili a tutti, ma solo al gruppo di amici del titolare della bacheca. Difetterebbe, quindi, il requisito strutturale richiesto dal comma 3 dell’articolo 595 del codice penale”
L’obiezione appare debolissima, perché si ha diffamazione quando “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”
“Comunicando con più persone” immagino voglia dire almeno due oltre a chi sta diffamando. E quindi l’accusa cadrebbe se la giornalista avesse un solo amico su Facebook.
Insomma, io non la vedo poi tanto l’espressione di un libero diritto di critica, certamente non c’era la volontà espressa di diffamare, anche se le espressioni non sono esattamente gentili, ma che c’entrano le persone con lo scopo della giornalista che in un’intervista dichiara di essersi “limitata a rappresentare la mia indignazione per la maniera in cui veniva ancora considerata la donna, a dispetto di tutte le battaglie di emancipazione degli ultimi decenni”?
Per farla breve, io ritengo che l’accusa della Procura possa reggere in giudizio. Vorrei tanto che non reggesse, ma purtroppo sono convinto dell’esatto contrario. Il che è una bella gatta da pelare in questi giorni in cui la gente si ammazza o muore per il diritto a dire cosa le pare e a non essere neanche criticata.
Diceva sempre la mi’ nonna Angiolina che “le gente ènno cattive e ‘nfame!”
Io, invece, un po’ come Anna Frank, da bambino pensavo che la gente non fosse poi così cattiva, in fondo. Poi sono cresciuto e mi sono liberato ben presto della presenza ingombrante di Anna Frank e del suo giudizio sul mondo degli umani. Perc hé la gente è cattiva davvero, solo che lo scopri sempre dopo.
Diciamo che a volte la gente fa cose di cui non si capisce l’intima essenza. Scopo, utilità, quid, nòcciolo.
Come Lorsignori di “Repubblica”, che alle 12:57 di oggi hanno lanciato un tweet con su scritto: “Siete a bordo della Norman Atlantic? Avete informazioni?? Scrivete a…”.
Ora, ce lo vedete voi uno a bordo della Norman Atlantic che proprio mentre la nave sta andando a fuoco e mentre rischia di rimetterci le penne si collega col suo telefonino al suo provider e-mail per raccontare di come gli si stanno squagliano le suole delle scarpe sul pavimento incandescente dell’imbarcazione?
Siamo arrivati a un personificazione (per carità, maldestra e squalliduccia) di quello che nel cinema è il racconto dello scoop per eccellenza, quello della fine del mondo, della propria vita o, comunque, della fine di qualcosa. Come, che so, “La guerra dei mondi”, per esempio, in cui uno dei conduttori radiofonici coinvolti finiva per raccontare in diretta la propria morte.
Se la tua vita non vale un tweet, forse non è neanche vita.
Dopo che il boss è stato assolto in secondo grado nel processo per il caso Ruby, l’estate trascorre solitamente più noiosa e i condizionatori possono di nuovo andare a palla mentre le località di mare si riempono di bambini vocianti, di mamme strillanti e di metalli urlanti (questa la riconoscono in due o tre, ma mi è venuta così, estemporanea).
Dunque pare che non fosse vero un beneamato ciùfolo il castello accusatorio di primo grado, e i giudici, quelli veri, non quelli comunisti, hanno riconosciuto l’estraneità ai fatti di Berlusconi. O meglio, per un capo di accusa hanno riconosciuto che Berlusconi non è estraneo a quel fatto, ma che quel fatto non costituisce reato.
Ah, bene, come ci si sente rilassati! Ora finalmente qualcuno (Brunetta) può chiedere pubblicamente la grazia e dimenticarsi che, trattandosi di una sentenza di secondo grado, manca ancora la Cassazione prima di pronunciare definitivamente la parola “fine” sull’affaire Ruby, che se è vero come è vero che il principale imputato dell’affaire è stato assolto, c’è da metterci la mano sul fuoco che sia VERAMENTE la nipotina di Mubarak.
Lui, del resto, sapendo di non poterci più nemmen sperare sulla grazia, ha chiesto una legge che gli permetta di ricandidarsi alle elezioni e che aggiri tanto la Legge Severino quanto l’odiosa sentenza (quella sì, passata in Cassazione) che lo dichiara interdetto dai pubblici uffici per tre anni.
Fuochi di ferragosto, li chiamerebbe Battiato.
Il PD, vedendo allontanarsi per il suo principale alleato lo spettro di ben altro tipo di interdizione dai pubblici uffici, quella perpetua, facendo anche lui i conti senza l’oste rappresentato dalla Cassazione, è sicuro che ci sia la serenità necessaria per portare avanti lo sfascio istituzionale determinato dalla svendita del Senato della Repubblica con lo sconto del 75% stile remainders.
Ancnhe Wikipedia è contenta. Alla voce “Procedimenti giudiziari a carico di Silvio Berlusconi” (perché ci vuole una voce a parte) mette il caso Ruby tra i procedimenti conclusi, mentre tra i procedimenti ancora a carico del Nostro, una “diffamazione aggravata nei confronti di Antonio Di Pietro, accusato di avere ottenuto la laurea grazie ai servizi segreti” (robettina, via…) la corruzione del senatore De Gregorio (stai a guardare il capello!) e, colmo dell’ilarità, un procedimento per “corruzione in atti giudiziari in riferimento alle testimonianze rese nel procedimento “Ruby” principale”. Ci sarebbe anche il deposito, da parte della Procura della Repubblica di Napoli, di “nuovi documenti nei quali Berlusconi è indagato per il reato di finanziamento illecito ai partiti a causa di finanziamenti che sarebbero stati erogati negli anni scorsi al Movimento Italiani nel Mondo.”
Sono grato alla sensibilità e all’indubbio buon gusto di Rosellina La Commare che su Facebook mi ha segnalato questa pregevolissima perla.
A proposito dei filmati suppostamente girati da Lavitola ai danni di Berlusconi (cinema sperimentale, notoriamente), il quotidiano “Repubblica”, sul suo account Facebook sostiene che “Un’imprenditore confessa: “#Lavitola filmò #Berlusconi con prostitute a Panama”. E tutto questo piace a 1404576 persone!!
Ieri sera, in un’Italia sonnacchiosa e disattenta, è stata approvata
alla Camera la proposta di Legge Costa che modifica le disposizioni di
legge in tema di diffamazione (trovate il testo della proposta qui).
Lo scarno comunicato del sito istituzionale recitava:
Ora, cosa ci sarà scritto nella proposta approvata? Come cambieranno le disposizioni del Codice Penale e delle leggi dello Stato in tema di diffamazione? Andiamo un po’ a vedere cosa dice e che cosa succederebbe se questo testo venisse confermato nella sua approvazione anche al Senato e entrasse in vigore.
Guardiamo i cambiamenti all’articolo 595, che attualmente disciplina la diffamazione semplice e quella aggravata:
“All’articolo 595 del codice penale, i commi primo, secondo e terzo sono sostituiti dai seguenti:
« Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo 594, comunicando con piu persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la multa da euro 1.500 a euro 6.000.
La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato.
Se l’offesa è arrecata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, si applica la pena della multa da euro 3.000 a euro 8.000.
Si applicano le disposizioni di cui al comma 3 dell’articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, e successive modificazioni, nel caso in cui l’autore dell’offesa pubblichi una completa rettifica del giudizio o del contenuto lesivo dell’altrui reputazione.
Alla condanna consegue la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da un mese a sei mesi, nelle ipotesi di cui all’articolo 99, secondo comma»”.
Il primo elemento che salta agli occhi è che sparisce la possibilità per il giudice di comminare la reclusione. Si parla solo di multa.
Tuttavia la diffamazione non è stata depenalizzata. Si finisce pur sempre davanti a un giudice (di pace, magari) e si subisce un processo al termine del quale si può essere assolti o condannati.
Non c’è una soluzione al problema della congestione dei processi per diffamazione nei tribunali e nelle aule di giustizia italiani. C’è solo un passaggio di carte dal giudice monocratico (che finora si occupa della diffamazione aggravata) al giudice di pace.
Il passacartismo è uno sport molto praticato nella giustizia italiana.
Ma c’è una cosa nuova che dice che “nel caso in cui l’autore dell’offesa pubblichi una completa rettifica del giudizio o del contenuto lesivo dell’altrui reputazione” si applicano le disposizioni di cui al comma 3 dell’articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.
Che cosa dice? (O andiamo un po’ a vedere, eh??): “L’autore
dell’offesa non e punibile se provvede, ai sensi dell’articolo 8, alla pubblicazione di dichiarazioni o di rettifiche.”
Oh, bene, dice uno, se mi accorgo di aver scritto qualcosa di offensivo posso rettificarlo (e se possibile eliminarlo), pubblicare delle dichiarazioni della controparte, insomma, modificare e integrare la notizia dal contenuto suppostamente diffamatorio e non essere punito (se dimostro di averlo fatto prima dell’apertura del dibattimento).
E invece no. O, meglio, non è così semplice. Anzi, funziona proprio in modo terribile. Perché per capire bene dobbiamo andare a vedere come viene disciplinato, secondo il nuovo testo, l’istituto della rettifica.
Intanto la nuova proposta di legge prevede che la rettifica venga fatta «senza commento». In breve, si pubblica la rettifica secondo il testo stabilito dalla controparte richiedente, ma non ci si può aggiungere nulla di proprio. Niente.
Neanche un “mi dispiace”, un “pubblico la rettifica ma ribadisco il mio pensiero”, una integrazione, qualcosa che faccia pensare a un contraddittorio nel merito.
Ma quello che fa spavento è quanto segue:
«Per la stampa non periodica l’autore dello scritto, ovvero i soggetti di cui all’articolo 57-bis del codice penale, provvedono, su richiesta della persona offesa, alla pubblicazione, a propria cura e spese, su non piu di due quotidiani a tiratura nazionale indicati dalla stessa, delle dichiarazioni o delle rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro reputazione o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale.
La pubblicazione in rettifica deve essere effettuata entro sette giorni
dalla richiesta con idonea collocazione e caratteristica grafica e deve
inoltre fare chiaro riferimento allo scritto che l’ha determinata»
Quindi:
a) la rettifica deve essere pubblicata “a richiesta della persona offesa” (non vale, dunque, rettificare qualcosa di propria iniziativa);
b) la rettifica deve essere pubblicata a spese del presunto diffamatore su due quotidiani a tiratura nazionale. Per intenderci, se avete offeso qualcuno su un blog o su Facebook, non vale che pubblichiate la rettifica sul blog o su Facebook, cioè nello stesso luogo in cui la presunta offesa avrebbe avuto origine. No, dovete pubblicarla a vostre spese sui quotidiani che la controparte vi indicherà. Per cui se date dello scemo a qualcuno potreste ritrovarvi una richiesta di rettifica da pubblicare su
“Repubblica” e “Corriere della Sera”. E potrebbe costarvi molto, ma molto di più che affrontare un processo;
c) rientrano tra gli elementi costituenti il reato di diffamazione anche le immagini: quindi occhio con l’uso disinvolto di immagini “photoshoppate”;
d) per richiedere una rettifica non importa che i pensieri e le azioni attribuiti a un soggetto siano effettivamente diffamatòri nei loro confronti (cosa che viene stabilita da un giudice e non da un sentimento individuale), basta che
siano “ritenuti lesivi” di “reputazione” o “contrari a verità”.
Splendido, vero? Non ne parla nessuno.
Un giorno la rete si sveglierà e si ritroverà a parlare del solito blogger che farà da capro espiatorio riempendo i social network di espressioni di solidarietà di cui il giorno dopo nessuno si ricorderà più.
da www.wikipedia.org - Foto di Piero Tasso - Questo file è licenziato in base ai termini della licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported
Roberto Saviano è stato condannato dalla Corte d’Appello di Napoli al risarcimento di 60.000 euro (che non sono nemmeno tanti, voglio dire), assieme alla Arnoldo Mondadori Editore, a favore della Libra scarl e di varie testate giornalistiche, per aver illecitamente riprodotto tre aricoli tratti da “Cronache di Napoli” e “Corriere di Caserta” nel suo celebre romanzo “Gomorra”.
In primo grado il procedimento si era concluso con l’assoluzione di Roberto Saviano che ha sempre invocato il pubblico dominio delle informazioni contenute in quegli articoli, e che “riduce” il danno parlando di “autonoma attività creativa dell’autore” e che “I giudici hanno (…) ritenuto che due passaggi del mio libro avrebbero come fonte due articoli dei quotidiani di Libra. Neanche due pagine su un totale di 331. Ricorrerò in Cassazione. Anche se si tratta dello 0,6% del mio libro – conclude – non voglio che nulla mi leghi a questi giornali.”
Alla prima obiezione c’è solo da rispondere che in Germania il Ministro della difesa Karl-Theodor zu Guttenberg si dimise per aver copiato una parte della sua tesi di laurea. Saviano non riveste alcuna carica pubblica e non può certo dimettersi da niente. Ma è un personaggio pubblico, è uno scrittore stimato dalla gente (non tutta, a dire il vero), appare in TV, vende milioni di copie in tutto il mondo, parla, ma soprattutto è considerato autorevole. Lo 0,6% è anche troppo.
Se voleva che nulla lo legasse ai giornali che gli hanno fatto causa (vincendola!) avrebbe potuto evitare di copiarli o, quanto meno, di prenderli come fonti. O avrebbe potuto citarli. Non è il ragazzino che va dall’insegnante con una ricerca copiata da Wikipedia.
Ricorrerà in Cassazione? Benissimo, è un suo preciso e fondamentale diritto. Ma la Cassazione civile, come quella penale, non interviene più nel merito dei fatti (che con il processo di appello rimangono accertati), ma sulle procedure.
Saviano afferma che, anzi, sarebbe stata la Controparte a plagiare qualche suo scritto originariamente pubblicato su “Repubblica” e “il Manifesto”. Bene, agisca in giudizio e potrà avere ragione delle sue lamentele in un giudizio separato, qui non si tratta di vedere se qualcuno ha copiato Saviano, ma del contrario, ovvero del fatto che Saviano abbia copiato qualcuno.
Una cosa che non ha ancora detto nessuno è che sia Saviano che la Mondadori sono stati anche condannati al ripristino dello “stato di fatto” ovvero alla modifica del testo di “Gomorra” in modo che contenga il riferimento ai brani copiati. Le spese di giudizio ammontano a quasi 20000 euro.
Grillo scrive sul suo blog che “La scatola di tonno è vuota” e che “Il Parlamento, luogo centrale della nostra democrazia, è stato spossessato dal suo ruolo di voce dei cittadini” che “Il Parlamento è incostituzionale in quanto il Porcellum è incostituzionale e ora pretende di cambiare la Costituzione su dettatura del PDL e del PDmenoelle”. E ancora “E’ un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica”.
Cose che, voglio dire, ricondotte al linguaggio di Grillo, ed estrapolate dai suoi stilemi linguistici (Grillo ormai ci ha assuefatti col “PDL e il PDmenoelle”) sono anche vere. Peccato che con la legge del Porcellum anche il Movimento 5 Stelle abbia nominato i suoi specifici candidati in parlamento.
Ma quelle di Grillo sono opinioni. La metafora del Parlamento come sepolcro imbiancato di una politica che non trova più il dialogo con i cittadini ne è un esempio chiarissimo.
Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati ha definito il discorso di Grillo “offensivo, un attacco alla democrazia e all’immagine dell’Italia”.
Ma il vero attacco alla democrazia non è tanto il discorso di Grillo, quanto l’etichetta di “offesa”.
Se la Boldrini pensa che il Parlamento sia stato offeso, visto che è il presidente di uno dei due rami che lo compongono, può tranquillamente querelare Grillo.
Viceversa, se taccia di “offesa” il discorso di Grillo, senza che questo lo sia, genera nella persona comune in sospetto che in quel linguaggio, in quelle parole, in quegli accostamenti, in quella intenzione comunicativa, siano insiti tutti gli elementi che costituiscono un reato propriamente detto.
Il Parlamento, i suoi presidenti, lo stesso residente della Repubblica non sono esenti da critiche al loro operato.
Se quello che Grillo dice è reato, la Boldrini ce lo dica subito.
Se non lo è, che glielo si lasci dire.
Francesco Guccini, in un suo intervento-analisi piuttosto famoso, corregge Umberto Eco che scambia la rima con l’assonanza e dice che è bello correggere Umberto Eco su queste piccole cose.
Ieri “Repubblica” ha diffuso un racconto-memoria di Umberto Eco intitolato “Questa mia povera città sturm und ‘ndrangheta”, dedicato alla sua esperienza milanese e alla su evidente contaminazione da parte della criminalità organizzata, la stessa contaminazione che sta facendo saltare Formigoni che, però, detto tra parentesi, è ancora lì.
Hanno scritto “sturm” minuscolo. Non so se questo errore sia contenuto nell’originale di Umberto Eco o se nella trascrizione (piuttosto improbabile, considerato l’ormai diffusissimo ricorso al “copia-incolla”, ma comunque possibile) da parte della Redazione, fatto sta che si legge “sturm”. All’interno del testo visibile gratuitamente (per leggerlo per intero bisogna pagare, e io non ho nessuna voglia di dare soldi a “Repubblica”) non c’è nessuna ulteriore occorrenza di “sturm”, così che non mi è dato di sapere altro. E il dubbio sull’origine dello svarione resta.
Al Liceo ci bacchettavano se scrivevamo “sturm und drang” (da cui deriva il delizioso gioco di parole di Umberto Eco che dà il titolo al pezzo) con la minuscola. Perché in tedesco i sostantivi si scrivono con la maiuscola (quindi rigorosamente “Sturm und Drang”), perché fa riferimento a un movimento letterario (ed è tradizione invalsa scrivere “il Romanticismo”, “il Decadentismo”, “il Verismo”) e perché è così.
Sì, è bello correggere Umberto Eco su queste piccolissime cose.
Il diritto di critica è espressione diretta di quel diritto alla libertà di parola sancito dalla Costituzione.
Nessuno può essere esente dal diritto di esprimere una posizione critica, così come nessuno può essere esentato dall’essere oggetto (reale o potenziale) della critica stessa.
Diritto di critica non è diritto di diffamazione, anche se troppo spesso “critica” e “diffamazione” vengono confuse in un mix pericolosissimo.
E il diritto di critica non può, a maggior ragione, non riguardare atti, discorsi, pronunciamenti, dichiarazioni alla stampa e aspetti contenutistici di quello che fa il Quirinale, sia nella dimensione della Presidenza della Repubblica come istituzione, sia in quella del Presidente della Repubblica come persona.
Per il semplice fatto che non possono esistere nulla e nessuno, che non siano di un qualche pubblico interesse, su cui non si possa parlare. Esiste, questo è certo, il reato di vilipendio al Capo dello Stato. Ma stiamo parlando di diritti, non di reati (e di reati di opinione si tratterebbe).
Sulla rete c’è stato un rigurgito di neo-forlanesimo assai imbarazzante, che, come molte cose della rete, vivono solo un giorno, come le rose, ma pungono ugualmente e fanno dànno.
Forlani per 29 voti non divenne Presidente della Repubblica. Fu poi condannato definitivamente per illecito finanziamento ai partiti. Ora, per carità ha espiato completamente la sua pena e per quello che riguarda me (e anche per quello che riguarda la società intera) è pienamente riabilitato, reinserito e può fare quel che vuole.
Ma rimpiangerlo addirittura e farne un vessillo mi sembra decisamente fuori luogo.
Io, quando mi càpita di leggere che Benigni e Saviano, tanto per fare un esempio, hanno firmato una mozione, un manifesto, una petizione, una protesta, così, sempre tanto per fare un esempio, mi viene una sorta di subitaneo sussulto e m’invade un prudente distacco.
Non perché Benigni e Saviano non siano, beninteso, padroni di firmare quel che a loro maggiormente aggrada, ma perché sento sempre come un qualcosa che mi fa scappare via anni luce dal punto (anche solo ideologico) in cui mi trovo in quel momento.
E vorrei veramente scappare lontano dalla logica del “Dipende da noi”, da queste modalità con cui “Repubblica” è solita presentare le sue raccolte di firme, dal sensazionalismo con cui qualcuno ti dice o ti fa credere che questa è veramente l’ultima occasione per essere in gara, l’ultimo treno disponibile, come se uno che lo perde o non ci sale, sia automaticamente catapultato nella landa degli esclusi a vita (esclusi da che cosa, poi, non si sa).
L’ennesimo manifesto (stavolta il primo firmatario è Gustavo Zagrebelski) sottoscritto dall’attore che entrò a cavallo a Sanremo per filologizzare l’inno di Mameli e dell’autore antiberlusconiano che ha pubblicato svariati titoli per la Mondadori si chiama, appunto “Dipende da noi”. Sulla home page di “Repubblica” qualche giorno fa leggevo: “Non possiamo fermarci a Monti, rinunciare alla politica è un pericolo.”
Ah, e questo dipenderebbe da noi. Interessante, sì. La politica dipenderebbe da noi. Sarebbe tanto bello se fosse VERAMENTE così, ma, ahimé, non è vero.
La politica, quella che si fa in parlamento, dipende dai partiti che attualmente si guardano bene dal mettere in atto una riforma della legge elettorale, i quali NOMINANO chi vogliono loro. Fine.
E poi non si capisce bene perché tutta questa fretta di tornare alla fase partitica della politica (perché di questo si tratta) e sguazzare nel prefigurare quel ritorno alle cose come stavano prima, quando ai ministeri mica ci andavano i tecnici, sapete, no, ci andava gente che non aveva, con ogni probabilità, mai sentito parlare dei problemi di quel settore. La politica non esiste, esiste la gente che va alle elezioni e poi fanno tutto gli altri. E il bello è che “Dipende da noi”. Non dicono, nossignori, no, che dipende da loro. Non dicono che l’ultimo treno, l’ultima opportunità per cambiare il paese, nel bene o nel male che sia, è già partito, e che poi ripiomberemo nella viabilità zero.
Tutti a dire “sbrigàtevi che si parte!!”, ma si parte per dove? Per il ritorno alle origini? Benigni e Saviano hanno firmato per questo?? Loro diritto, per carità, ma propriop per questo non lo sento un mio dovere. O forse dovrei sentirlo come tale e non me ne sono accorto. E allora me lo spieghino. Non importa che abbiano già firmato in 25000 o in 30000 o in 100000. Firmino pure. Ma ci dicano anche perché dovremmo riportare, a titolo di esempio, Fassino, piuttosto che Castelli, Alfano piuttosto che Mastella, Diliberto piuttosto che Palma al Ministero della Giustizia invece di Paola Severino. Ci spieghino perché la politica deve sempre e comunque avere un primato. Così magari firmo anch’io. Ma anche no.
In un articolo di Arturo Di Corinto su “Repubblica” leggo che un giovane iscritto a Facebook, Marco Pusceddu, ha pubblicato in una pagina a carattere antirazzista una foto di una donna nera che allatta al seno un bambino bianco (probabilmente albino).
Secondo quanto riportato dall’articolista, in una dichiarazione Marco Pusceddu avrebbe chiarito che qualla immagine “serviva da veicolo per parlare di determinate questioni. A distanza di qualche giorno, esattamente il 28 gennario, Facebook rimuove tale immagine e mi blocca l’account per 24 ore”.
Sinceramente non mi pare una cosa così grave. Certo, può destare (ed effettivamente le desta) qualche perplessità il fatto che possa essere classificata come sconveniente, pornografica o, comunque, contraria alle regole di Facebook la immagine di una donna che allatta un bambino al seno, ma il punto è proprio questo, Facebook ha le SUE regole (certo, non chiare, e questo va riconosciuto) e se ti vanno bene ci stai dentro, se non ti piacciono vai fuori.
Internet è piena di luoghi in cui il padrone di casa fa quello che gli pare. Mailing-list, newsgroup, forum, siti web, blog. Io stesso ho censurato l’intervento di un lettore, una volta. Una volta sola ma l’ho fatto. Avevo le mie ragioni. Giuste? Sbagliate?? Non scritte??? Erano le mie.
Pusceddu ha aggiunto: “Il fatto di essere loro ospite come utente non significa che si debba accettare passivamente la loro posizione od andarsene via se non ci piacciono le loro regole.”
No? E perché mai? Non esiste un diritto a stare su Facebook. Non esiste nemmeno un diritto ad avere Facebook. Se, per assurdo, domattina quelli di Facebook si decidessero a staccare la spina ai server e a fare fagotto nessuno potrebbe reclamare alcunché.
E, in fondo, cosa è successo? Che hanno sospeso l’account di un utente per 24 ore. Nulla di irrimediabile, esistono ancora le e-mail, i telefoni cellulari, Twitter, ti puoi aprire un blog…
E invece no, niente, Facebook, Facebook e ancora Facebook. Come se il NON essere su Facebook corrispondesse all’esclusione dalla vita sociale e telematica. Ma non è così.
Pusceddu conclude con: “Ritengo che l’atteggiamento di Facebook sia un’umiliazione per tutte le donne e le mamme, per la società civile in sé stessa. Allattare al seno non è osceno. Una madre che allatta non è pornografia!”
Indubbiamente per la nostra cultura una madre che allatta non è pornografia, ma non esiste soltanto la nostra cultura su Facebook, ne esistono altre che potrebbero restarne turbate (come quella musulmana, ad esempio -e non rispondetemi “Io non credo che un musulmano si scandalizzerebbe per l’immagine di una madre che allatta al seno, prima andate a chiederlo a lui!!-) e, magari, Facebook ha inserito questa tipologia di immagini tra quelle da evitare PROPRIO sulla base di un “eccesso di scrupolo”. E, comunque, sono affari suoi. A meno che non vogliamo negare a Facebook il sacrosanto diritto di stabilire quali sono le regole in casa sua.
Pusceddu proclama una iniziativa di protesta: astenersi dal collegamento a Facebook per tre giorni. Auguri.
"…è una storia un po’ complicata è una storia sbagliata. Cominciò con la luna sul posto e finì con un fiume d’inchiostro"
I fatti sono men che interssanti. E’ una storia imbarazzante, magari nemmeno da home page di un quotidiano locale. E’ una di quelle storie un po’ torbide, "una storia per parrucchieri", come l’avrebbero definita Fabrizio De André e Massimo Bubbola. Tanto che per questo post scelgo di non utilizzare nessun tipo di materiale iconografico, a parte quello che serve a documentare le affermazioni, e che metterò in nota.
Una ragazza di 16 anni è rimasta incinta di un ragazzo albanese appena maggiorenne. Il ragazzo non dimostra di essere affidabile, in ogni caso non piace ai genitori della ragazza. Che in un primo tempo, anche contrariamente al parere dei suoi genitori, sceglie di tenere il bambino, ma, dopo un colloquio con un magistrato, cui gli stessi genitori si erano rivolti, cambia idea. E abortisce.
Fatti nudi e crudi, questi, per i quali ci vorrebbe un po’ di pudore, un po’ di quel "rispetto" che piace tanto ai luoghi comuni di certa gente perbene che si trincera dietro la lettura del "Corriere della Sera" o di "Repubblica". Quel rispetto che non c’è più neanche fra di noi, come canta Zucchero, quel rispetto che ci fa vedere in una ragazza di 16 anni una minorenne che vive una serie incredibile di drammi, e che come tutte le minorenni che vivono dei drammi (affrontare una scelta la cui responsabilità ricade unicamente su se stessa dvanti a un magistrato, sia pure con tutte le cautele del caso è un dramma grandissimo) deve essere lasciata in pace.
Non è una notizia.
Ci sono centinaia di ragazzine minorenni che restano incinte. E i drammi familiari che ne conseguono sono tutto men che da sbattere sui giornali.
Il "Corriere della Sera" [1] fornisce la notizia in modo abbastanza sobrio. Si limita ad aggiungere che il ragazzo albanese, partner della sedicenne, l’avrebbe picchiata spesso. Non è una bella cosa. Né picchiare una sedicenne, dico, né, tanto meno, fornire questo dato "accessorio" che comincia ad aggiungere dramma al dramma. Ma fin qui la notizia risulta equilibrata, quanto meno non trascende troppo. "Repubblica" [2] [3], invece, comincia a sciorinare tutta una serie di dati imbarazzanti perfino per il lettore finale (che dovrebbe essere, nel crudele gioco delle parti, il destinatario a cui si danno in pasto questi resoconti poco edificanti, utente finale di una strategia di scelta delle notizie che, tra l’altro, non dipende nemmeno da lui.
Intanto, oltre al luogo in cui il fatto è avvenuto (riportato anche dal Corriere), Repubblica riporta il nome della ragazza. Che sia il nome vero o sia completamente inventato non ha importanza. Quello che importa è che alla ragazza qualcuno ha voluto procurare una identità agli occhi di chi legge. Vera o fittizia che sia. Non conta che si chiami Lilly, Milly, Fuffy, Baby, Trilly o Deborah, piuttosto che Samatha, piuttosto che Valentina, o qualche altro nome da canzone di Antonello Venditti o da romanzo di Federico Moccia. Conta che per "Repubblica" la ragazza sia uscita dal suo diritto all’anonimato (quello che interessa, sempre ammesso e non concesso che interessi, in questo caso, è la notizia, non chi sia lei).
Poi sappiamo che la ragazza "portava sul corpo i lividi" (delle percosse, immagino). Carini. Gentili a scriverlo. E’ un atto di politesse notevole da parte di un giornale a diffusione nazionale affondare il pennino non già nell’inchiostro della libertà d’informazione, ma nelle carni già abbastanza lacerate di una ragazzina minorenne, e oltretutto picchiata.
Ma quello che stupisce, se possibile, ancora di più, a parte il riportare le parole del direttore del settimanale diocesano "Vita", che non si sa bene cosa c’entrino con la scelta-non-scelta di una ragazzina di sedici anni, è che "un anno fa (…) aspettava un altro bambino e aveva fatto ricorso alla pillola abortiva."
Ma come si permettono? Una interruzione di gravidanza è un’esperienza strettamente personale, cosa importa se la ragazza, un anno fa, abbia fatto ricorso alla pillola abortiva o a un intrevento ospedaliero o ambulatoriale? E quanto dolore deve ancora sopportare una ragazzina (certamente poco avveduta, poco accorta, magari anche poco responsabile e/o responsabilizzata nelle proprie scelte) oltre al non vedersi riconosciuto il sacrosanto diritto all’oblio rispetto a un’esperienza passata, che spunta di nuovo fuori dalla melma del disagio per assurgere il ruolo di carico da undici nei fiumi di inchiostro e di b
yte che ci invadono quotidianamente? Non voleva abortire, lei. Nel bene o nel male che fosse quella era la sua volontà. Perché io, lettore, io che non conto un cazzo, devo conoscerla? E, soprattutto, perché devo conoscere i suoi precedenti abortivi? Non sono un giudice, non ho nemmeno l’intenzione né tanto meno l’obbligo di dare dei giudizi morali su tutto questo, e la ragazza è carne viva, sì, ma nel senso che è persona presente e senziente.
E invece di lei, del suo volere, di quello che avrebbe voluto per sé, non si sa niente, tanto c’è chi si occupa di accompagnarla nelle sue decisioni e le chiosa con il proprio metro personale di valutazione, sia esso giornalista, direttore di testata diocesana, magistrato, assistente sociale o genitore.
Decenni or sono Guccini avrebbe parlato di una "piccola storia ignobile" che "non vale due colonne su un giornale".
"Emanuela Arcuri che dice no a Berlusconi e rinunzia all’ambito cadeau di presentare Sanremo è la nostra piccola Anna Magnani, la Mamma Roma, sgrammaticata e generosa anche nelle forme, di questa Italia in sottana."
Sì, certo, come no, è l’extrama ratio, la mossa che nessuno si aspetterebbe mai e che nessuno vorrebbe mai debba essere portata avanti, ma gli inquirenti che indagano sull’ennesimo pistolotto-telenovela interminabile, potrebbero anche battere la pista dell’audizione della figlia della vittima, una bambina di 18 mesi che chissà quali elementi fattivi potrà dare all’inchiesta, probabilmente qualche ciuccio sbavato, qualche bavaglio impataccato, un pannolino da cambiare e il contenitore vuoto in cui potrebbe venire perfino inserita questa ingiustizia per arrivare alla Giustizia, per giungere a un quadro accusatorio prima e probatorio poi che, finalmente, metta via l’unica realtà finora conclamata: non è stato cavato un ragno dal buco. Solo che qui c’è di mezzo una bambina. Di diciotto mesi. E, con il dovuto rispetto (che si traduce spesso e volentieri nell’inevitabile dubbio), che si evitino completamente traumi a quell’età, è tutto da dimostrare, così come è da dimostrare che l’esito dell’audizione potrebbe dare una svolta decisiva verso l’individuazione del responsabile, perché c’è una bambina che ha perso la madre e già questo è un trauma, se poi andiamo a rischiare una situazione psicologica peggiore per scoprire che è stato il maggiordomo nel vestibolo con il candelabro siamo arrivati al capolinea.
Sono meravigliosi (quando sono meravigliosi e non sono, semplicemente, tragici) i lapsus e gli strafalcioni cui certa stampa riesce ad arrivare nella fretta di confezionare qualcosa di originale da dare in pasto a lettori sempre meno critici e sempre più assuefatti a un linguaggio che scade via via di livello senza che noi ce ne accorgiamo minimamente.
L’occasione per queste brevi riflessioni me la dà "Repubblica" che nel commentare la notizia dell’apertura del processo a carico degli imputati per il caso di Stefano Cucchi, presenta protagonisti di accusa e difesa. Poi scrive "Sul palco degli imputati…".
No, dico, il palco? Cos’è, il Festival di Sanremo? C’è di mezzo la morte di un ragazzo. O la vita di una dozzina di persone che potrebbero uscire a pezzi da una vicenda giudiziaria come questa se solo uno di loro risultasse non colpevole. Il palco è roba da spettacolo, qui ci sono tragedie e drammi personali contrapposti.
O forse, a parte i lapsus, si comincia davvero a vedere la vita come un immenso, irresistibile show.
Un altro esempio di logica di pensiero da rifiutare è costituito, a mio parere, dalla cosiddetta “lettera aperta” ai dimostranti di Roma che Roberto Saviano ha pubblicato su “Repubblica”.
C’è da rimanere a bocca aperta se uno strenuo difensore della legalità e dei diritti, così come viene percepito Roberto Saviano dall’opinione pubblica, scrive “Poliziotti che si accaniscono in manipolo, sfogando su chi è inciampato rabbia, frustrazione e paura: è una scena che non deve più accadere. Poliziotti isolati sbattuti a terra e pestati da manipoli di violenti: è una scena che non deve più accadere.”
Si badi bene, Saviano condanna la violenza, gli incendi delle auto, dei blindati, il lancio indiscriminato di sampietrini, il sabotaggio dei bancomat, e vorrei vedere chi è che non è d’accordo con lui.
Dove Saviano sbaglia (e sbaglia di brutto), la prospettiva della sua analisi è l’equiparazione tra la condanna degli atti compiuti dai privati cittadini e quelli compiuti dai poliziotti.
Il punto è che il privato cittadino che lancia un sasso contro la polizia e ferisce un agente deve essere sì fermato e successivamente identificato e processato, ma non gli deve essere torto un capello perché in quel momento è nelle mani dello Stato, rappresentato dalle forze dell’ordine. Se, invece, le forze dell’ordine manganellano ed esercitano violenza sul cittadino che delinque non siamo uno a uno e palla al centro, come Saviano ingenuamente vuol farci credere, ma siamo due a zero a favore del delinquente perché lo Stato non può comportarsi come chi delinque. Viviamo in un ordinamento giuridico per cui chi uccide non può e non deve essere ucciso a sua volta. E questo è quanto.
E’ inutile che Saviano scriva, con evidente eccesso di buonismo egualitario, “non deve più accadere” per gli uni e per gli altri, perché per il cittadino deve mettere in conto che possa anche accadere (triste, grave, esecrabile ma possibile), mentre per lo Stato non deve MAI accadere, perché se accade lo Stato è perdente e sconfitto.
Non siamo nel ’68, quando Pier Paolo Pasolini si schierava apertamente dalla parte dei poliziotti perché erano figli di povera gente mentre gli studenti erano figli di papà abituati ad avere il culo caldo, siamo nel 2010, quando gli studenti, l’istruzione, l’università, la ricerca e il lavoro non hanno un futuro e c’è bisogni di reclamare cultura perché c’è chi dice che con la cultura non si mangia. Gli studenti sono il frutto della rabbia, della voglia di conoscenza, urlano una disperazione che è viva e tangibile, chiedono spiegazioni allo stato e lo stato è rappresentato dai poliziotti che li menano. I video di YouTube sono sotto gli occhi di tutti, e la vecchia poesia di Pasolini è diventata un ritornello caro solo alla destra, e poi non vogliono che si parli di trasformismi.
Saviano la rabbia degli studenti la conosce bene: “Mi si dirà: e la rabbia dove la metti? La rabbia di tutti i giorni dei precari, la rabbia di chi non arriva a fine mese e aspetta da vent’anni che qualcosa nella propria vita cambi, la rabbia di chi non vede un futuro. Beh quella rabbia, quella vera, è una caldaia piena che ti fa andare avanti, che ti tiene desto, che non ti fa fare stupidaggini ma ti spinge a fare cose serie, scelte importanti.”
Già, ma quali scelte importanti può spingere a fare la disperazione della gente che non arriva a fine mese? Contro chi se la devono prendere queste persone se non contro quello stesso Stato che ha tolto loro la speranza e che oggi, nemmeno tanto metaforicamente, le calpesta e le prende a calci?
Quali sarebbero le “scelte importanti” secondo Saviano, campare coi diritti d’autore delle opere pubblicate per la casa editrice del Cavaliere? Prendere un cachet a serata per condurre un programma come “Vieni via con me” per la Endemol che è di proprietà di Mediaset?
"Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città.[…] Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. […] Nel senso che le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano." (Francesco Cossiga, 2008)
Un’efficace politica dell’ordine pubblico deve basarsi su un vasto consenso popolare, e il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti […] l’ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio un vecchio, una donna o un bambino, rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita[…]io aspetterei ancora un po’ e solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di Bella ciao, devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, anche uccidendolo, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell’ordine contro i manifestanti.
Sono in piazza, dunque, quelli che si mettono un post-it sulla bocca.
"Repubblica" ha pubblicato la foto che vi (ri)propongo a corredo di un articolo di stefano Rodotà (che è una brava persona e mi riprometto di leggere il suo intervento più tardi…).
Questi qui mi fanno paura. Sono ragazzini. Li guardo bene e mi paiono implumi, manifestanti indignati a fianco della casta dei giornalisti, connivente fino a ieri con il governo. Li vedo indifesi, ragazzi sbaragliati a manifestare contro una legge ingiusta a fianco di gente ingiusta. Perché:
– i giornalisti che scendono in piazza oggi sono per la maggior parte dipendenti da testate e quotidiani che ricevono il finanziamento pubblico a getto continuo; – i giornalisti che scendono in piazza oggi sono per la maggior parte a servizio di testate ed editori il cui controllo, direttamente o indirettamente, è afferibile al Presidente del Consiglio; – i giornalisti che scendono in piazza oggi sono per la maggior parte gli stessi che non disdegnano di pubblicare particolari morbosi degli eventi di cronaca giudiziaria, di spellarsi sullo zoccolo indossato dalla Franzoni nel delitto di Cogne, di scannarsi sull’orecchino di Elisa Claps pubblicando perfino le foto del cadavere e dimostrando di non avere pietà per nessuno; – i giornalisti che scendono in piazza oggi sono per la maggior parte favorevoli alla clausola "riproduzione riservata" posta in calce agli articoli on line delle maggiori testate e che impedisce, di fatto, a norma della legge sul diritto d’autore, la realizzazione di rassegne stampa su eventi di attualità; – i giornalisti che scendono in piazza oggi sono per la maggior parte favorevoli all’obiezione di coscienza e, quindi, al carcere per la pubblicazione delle intercettazioni contenute negli atti di indagine (vedere l’AD di SKY) perché hanno dalla loro gruppi editoriali che possono permettersi il lusso di assumere difensori di grido e affrontare un processo penale e un provvedimento disciplinare, cosa che non può fare un free-lance o un blogger.
Il bavaglio colpisce anche la rete, lo sappiamo bene, con l’odiosa norma sull’obbligo di rettifica previsto per qualunque sito web. Chi non si adegua va in carcere.
E, quindi, "scusate, non mi lego a questa schiera", come disse il poeta, sto in trincea, loro possono permetterselo di scendere in piazza e proclamare, indignati, lo sciopero dell’informazione.
Ma se l’informazione fa sciopero, le idee non si astengono. Mai. Non le mie.
Margherita Hack ha compiuto 88 anni. E ha la lucidità, l’intelligenza, la cultura e la voglia di combattere di una ragazzina.
Dunque anche il blog di valeriodistefanopuntocò si unisce agli auguri per questa voce limpida, grazie a Dio atea, e inguaribilmente (per fortuna) toscana.
Non riesco più a leggere i giornali, a volte neanche on line.
Spesso giusto il tempo per vedere una notizia, ma non la approfondisco più. Al mattino c’è Radio Tre che le prime pagine dei quotidiani italiani me li legge mentre sono intento a cercare di passare dal sonno alla veglia nel minor numero possibile di secondi (senza, peraltro, riuscirci mai), e poi non penso sia neanche tanto importante leggere i quotidiani "di stato". Continuo a riceve "Il Fatto quotidiano" che, tra un errore di ortografia e l’altro, riesce ad essere quanto di più vicino ci sia alla leggibilità.
Però l’altro giorno ho fatto un viaggio a ritroso nel tempo, e avevo voglia di salvarmi qualcuna delle immagini della sciagura del terremoto di Haiti. Giusto per far vedere come una notizia vada a finire direttamente nel dimenticatoio nel momento in cui non se ne parla più. La gente ad Haiti continua a vivere in situazioni di emergenza mentre "Repubblica" parla della visita di Stato di Berlusconi in Israele (evento, come è d’uopo, largamente ignorato dai quotidiani israeliani).
Ràvana tu che ràvano io, ho ritrovato le foto di Haiti (sembra che uno entri in una biblioteca per consultare un rarissimo manoscritto, ormai la velocità di archivazione dei fatti e dei documenti che li attestano è impressionante) e c’è una specie di "Warning!", di messaggio preventivo, di avviso-mezza salvezza per l’uomo:
C’è scritto che alcune di quelle imagini potrebbero "urtare la mia sensibilità". Notare la subdola falsa raffinatezza del linguaggio: prima di tutto mi dicono che io sono una persona sensibile, e che tale sensibilità potrebbe venire "urtata", in qualche modo "offesa". "Urtare" è un verbo da assicurazioni e da contratto bonus-malus. Due veicoli si urtano, la mia sensibilità no.
E pare che a desensibilizzarmi siano esattamente le scene di sofferenza scattate e immortalate da fotografi andati apposta ad Haiti per testimoniare, anche e soprattutto con lauti compensi, la sofferenza degli altri, sulla quale, si sa, è sempre possibile speculare a proprio bell’agio.
Il terremoto di Haiti urta la mia sensibilità? Mi urta la sensibilità "Repubblica" che prende i soldi pubblici di finanziamento per scrivere queste stronzate. Ecco cosa urta la mia sensibilità.
Perché non so come mai, ma quando si parla della disinformazione di "Repubblica" divento subito sensibile.
Sul sito di "Repubblica" oggi è apparsa la notizia di un giovane teramano di 27 anni, impiegato, che, durante un periodo di malattia, si è esibito in un locale come "Drag Queen" (ovviamente in orari al di fuori della normale reperibilità per malattia) ed è stato licenziato.
L’avvocato è uno dei miei (due) avvocati di fiducia, oggi ho dato una lettura al sito di "Repubblica" e me lo sono ritrovato in Home Page, con una bòtta di fama nazionale che mi sa che mi conviene non avviare nessuna causa legale o lavorativa perché le sue quotazioni stanno salendo a vista d’occhio, e anche le sue parcelle, mi sa…
E allora parliamo di Rosy Bindi, che ne vale la pena.
Parliamo della "pasionaria" cattolica, una di quelle cresciute a refettori di collegio o di monastero, a Azioni Cattoliche, biciclette sgangherate, ora et labora, una di quelle che amano la politica e, da cattoliche, riescono anche a stilare una legge per la regolamentazione delle unioni di fatto, tanto valida che il suo capo, la buonanima politica di Prodi, una volta guardatala, ha deciso di non farne di nulla perché si sa, va bene dare qualche diritto a chi convive "more uxorio", ma qui, cara Rosy, abbiamo il Vaticano quello vero, su via…
Rosy Bindi ha il grave torto, agli occhi della politica italiana, di fare della propria vita privata un evento che non interessa affatto alla politica.
Se torna a dormire dalle suore la sera, o se si compra un appartamentino da single Non-so-dove, sono affari suoi.
E in un momento in cui gli affari propri, la vita privata, quella sessuale, quella che uno svolge al di fuori delle aule parlamentari, sono informazione becera e salottiera (ma, proprio per questo, estremamente appetibile dal popolino dei fansi di "papi"), Rosy Bindi, che ha il torto di non chiedere nulla a nessuno, vine tacciata da "più bella che intelligente".
Logica dissennata da giochi infantili, quelli per cui se non sei della mia stessa squadra sei brutto, storpio, antipatico, ti puzzano i piedi e ciai anche la mamma maiala.
E così Rosy Bindi, offesa in TV, risponde al Premier di non essere una delle donne a sua disposizione. Che è vero. Non solo nella fattualità personale, ma anche e soprattutto in quella della politica. Rosy Bindi è una di quelle personalità forti e granitiche che Berlusconi non riesce a manipolare. Non ce l’ha materialmente "a disposizione", e allora s’incazza e le dice, in soldoni, che è brutta e stupida.
E allora sono tutte Rosy Bindi. Soprattutto su "Repubblica" che ha invitato le sue lettrici a mandare una fotografia al giornale con su scritto "Io non sono a disposizione del Premier", in solidarietà al Vice Presidente della Camera.
Naturalmente le lettrici di "Repubblica" hanno dato il via a una danza di protagonismi assortiti di ritorno, per cui il sito web del giornale è stato invaso da centinaia di fotografie di lettrici che non sentendosi in sintonia con le varie noemiletizie e patriziedaddario del Cavaliere, hanno pensato bene di fare la loro passerella mediatica in altro modo, certamente più radical-chic di sinistra, perché noblesse oblige.
A queste lettrici pronte a immortalarsi con i loro telefonini, bisognerebbe davvero dare un po’ di quella vita monastica e di preghiera fatta di mele avanzate, minestrine di semini in brodo e un pezzo di formaggio per cena, che Rosy Bindi consuma senza chiedere nulla a nessuno, perché le scelte di vita personali non fanno parte della politica. E’ nella condivisione delle scelte che si dimostra la solidarietà, non con una foto digitale paciugata col Fotosciòp.
E’ facile sentirsi Rosy Bindi, quando Rosy Bindi sono sempre gli altri.
Il nostro lettore Busdragi Adelio, di professione Kauterio, segno zodiacale degli zerri sotto il pesto, mi scrive, di domenica mattina, riferendomi di aver scritto una lettera alla redazione di Repubblica.it.
Dato che, probabilmente, teme, o, meglio, presente che non gliela pubblicheranno, a causa del contenuto fortemente critico della lettera essa stessa medesima, mi prega di pubblicarla sul blog, cosa che faccio immediatamente, anche se nel leggerne il contenuto ho avuto io stesso un bel po’ di perplessità e anche qualche contrazione dei muscoli dello stomaco.
Al buon Busdraghi Adelio di cui sopra, mi preme assai far notare un paio di cose:
a) fonti di informazione come "TGcom" e "Il Giornale" (diretto da Feltri, con rispetto parlando) non mi sembrano di particolare pregio o autorevolezza, considerate anche le stercofigure del suddetto Feltri, e quelle non meno fecalomacee del padrone del siccitato "TGcom"; b) l’essersi rivolto a un quotidiano come Repubblica, sia pure nella versione on line, è un gesto che nobilita il suo vieppiù spregevole animo, perché ha cercato di porsi su un piano di parità interlocutoria e di scambio di opinioni, cosa che in altri paesi verrebbe chiamata "Democrazia" ma, si sa, noi siamo in leggera controtendenza. Non pretenderà mica che solo per questo la sua lettera venga pubblicata da "Repubblica", vero?? Voglio dire, "Repubblica" è un giornale DAVVERO di regime, vicino al Partito Democratico che è AUTENTICAMENTE il partito che appoggia delicatamente Berlusconi. Ora va bene essere falsamente democratici, ma te, caro Busdraghi Adelio, pretendi un po’ troppo, caro il nostro gagarone; c) E poi le lettere ai giornali si firmano con nome e cognome, cazzo, cosa vuol dire "un lettore di repubblica.it"? C’è gente che nell’esprimere le proprie opinioni ci mette la faccia tutti i giorni, mi sembra una cosa buona e giusta; d) "sì" affermativo si scrive con l’accento, ma tanto quelli di "Repubblica" non lo sanno nemmeno loro.
Io, comunque, caro Busdraghi Adelio, la lettera te la pubblico, poi dinne male…
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Gentilissima redazione di repubblica.it,
vogliate recepire la presente come protesta verso la vostra linea editoriale e l’"oscuramento selettivo" delle notizie e dei personaggi che non cantano intonati col coro.
Sono rimasto già molto perplesso dal fatto che le critiche pesanti rivolte dal "Capitano Ultimo" (l’ufficiale dei Carabinieri che arrestò Totò Riina) alla trasmissione "Annozero" di Santoro siano state completamente glissate da voi e all’atto pratico oscurate e non riportate. E’ un fatto di cronaca gravissimo, ed altrettanto grave ea mio avviso inaccettabile è la vostra omissione nel riportare la notizia. Per quanto capisca che Santoro e la sua linea editoriale e politica si sposino perfettamente con la vostra, sarebbe stato un omaggio alla libertà di parola e di espressione che tanto vi vantate di tutelare (a parole) riportare le pesante critiche di un PROFESSIONISTA della lotta alla mafia.
Resto ancora più sconcertato dal fatto che la notizia che ad Ultimo è stata revocata la scorta sia stata da voi completamente IGNORATA. La riporta tgcom
Il messaggio è chiaro: "si, sarai anche un bersaglio della mafia, un servo dello Stato, ma provati a toccare Santoro e noi ti lasciamo morire nel silenzio". E’ un messaggio vergognoso. E’ un messaggio che ha del fazioso, ed è un messaggio tipico del modo di pensare che Ultimo ha combattuto fino a quando gli è stato permesso di farlo.
Sono scandalizzato e amareggiato dal vostro comportamento. Da chi si proclama a gran voce paladino della libertà di stampa e di espressione, da chi dovrebbe difenderci dallo strapotere mediatico di Berlusconi, magari nel frattempo accusandolo perfino di collusione con la mafia, mi aspetterei un comportamento più corretto, trasparente, professionale, etico e DEGNO. Mi aspetterei che fatti e notizie non venissero oscurati solo perchè "toccano" Santoro e Travaglio e si permettono di criticarli. La stampa del Ventennio oscurava le notizie di chi criticava i paladini del regime: da voi mi sarei aspettato un comportamento ben diverso.
Spero in una vostra risposta, ma soprattutto in una rettifica di quella che è una situazione veramente incresciosa.
Le iniziative strampalate ed estemporanee in rete pullulano di idee vecchie come il cucco e sempre più ripetitive.
Il 3 ottobre qualcuno si è inventato la protesta dei blogger. Vorrebbero che ciascuno si unisse alla protesta della stampa italiana di regime per il bavaglio alla libertà di informazione. Pretenderebbero o auspicherebbero, in altre parole, poveri illusi, che i blogger scendessero vitualmente in piazza per protestare contro le leggi che stanno per chiudere loro la bocca in Internet, appoggiandosi al baillàme dei vari “Repubblica”, “Corriere”, “L’Unità” e compagnia cantante.
Avranno pensato che se il baraccone mediatico trascina i grandi, qualche pesce piccolo si può sempre unire alla fanfara e fasri suonare il suo pezzetto di musica dal tamburo principal della banda d’Affori dell’editoria, che comanda da solo centocinquanta pìfferi.
I blogger scendono in piazza assieme agli organi di stampa che godono delle sovvenzioni e dei contributi pubblici che lo Stato elargisce a piene mani da Giuliano Ferrara a Concita Di Gregorio, passando anche per “Liberazione”. Un blog non riceve sovvenzioni da nessuno. E c’è una differenza sostanziale.
Dicono che il 3 ottobre tutti dovremo uscire con un post contro la repressione della libertà di opinione e di divulgazione del pensiero. Ma è quello che sto facendo da sempre. Perché mai questa attenzione al 3 ottobre? Il 4 forse le cose miglioreranno? Cambieranno? No di certo.
E che dire del fatto che il tre ottobre prossimo la manifestazione dei precari della scuola sarà oscurata dal tam tam dei blogger e dei giornalisti di regime che si sono accorti solo ora che c’è qualcuno che li sta trattando con il bastone. Ma è lo stesso padrone dalla cui mano hanno mangiato volentieri le carote.
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Questa registrazione è tratta dall’archivio di Radio Radicale (link originale: http://tinyurl.com/ydmnodx) ed è diffusa secondo la licenza Creative Commons: http://creativecommons.org/licenses/by/2.5/it/)
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