Mi ci sono messo di buzzo buono e ho cominciato a spulciare Wikipedia alla ricerca di svarioni, errori di ortografia, sintassi, grammatica, morfologia, logica e quant’altro faccia spettacolo. A dire il vero non ho intenzione di rompervi le scatole più di tanto con queste cose (mi sono un po’ stufato di scrivere su questi argomenti che alla lunga vengono a noja in primo luogo a chi scrive e per traslato a chi legge), però questa ve la racconto: alla voce riguardante la cucina siracusana (cui si deve il massimo rispetto, anche ortografico, evidentemente) si legge:
lo squalo palombo, che è innoquo per l’uomo, detto pisci palummu in dialetto siracusano
e devo dire che “innoquo” con la q da Wikipedia proprio non me lo aspettavo. Però c’è. Qui sotto la voce intera (errore compreso) così come rilasciata oggi dall’enciclopedia libera più malandata che ci sia:
Oh, ecco, l’ho detto, sono riuscito a fare outing davanti a migliaia di persone senza minimamente vergognarmene. Credo che sia la stessa sensazione che provano a raccontare la propria condizione gli omosessuali. O i cattolici.
Mi piace lei, mi piacciono i suoi programmi di cucina e il modo che ha di condurli. E’ sempre stata (ingiustamente!) trattata da divulgatrice di una cucina da supermercato (come se i suoi detrattori la spesa la facessero dall’ortolano tutti i giorni a chilometri zero, o se la pasta andassero a comprarla allo spaccio del pastificio sotto casa!), da metropoli del nord (ma perché, a Torino, Milano e Venezia non si mangia?? E in quelle del sud si sta a stecchetto???), una cucina prete-à-manger, con spreco di padelle antiaderenti, surgelati (qualcosa contro i surgelati?) e idee quattrosaltimpadellistiche. Nulla di più falso. La Parodi è brava, ma, soprattutto, come dice mia moglie, è imperfetta. Si brucia le dita mentre scola l’acqua della pasta, dice “Oh, santa polenta!”, quando va a “impiattare” (termine orribile ma glielo perdoniamo) impiastriccia la presentazione, scivola, intràmpola, méstola e buca letteralmente lo schermo.
Soprattutto, la Parodi riesce a non farti sentire in colpa. In colpa di aver fatto un brodo con il granulare alle verdure solo perché non ti sei alzato all’alba per andare a cercare un bouquet garni per preparare il court bouillon. In colpa di esserti andato a prendere il Misto Benessere della Orogel anziché aver passato il pomeriggio a storzolare i cavolini di Bruxelles (eh, son già pronti…). In colpa per non aver comprato il pollo ruspante del contadino e riuscire a sostituirlo con un petto di pollo di quelli impacchettati nel cellophàn (con l’accento sull’ultima, come lo direbbe Paolo Conte) e nel polistirolo, che tagliato a bocconcini va bene lo stesso per fare una ricetta di nove minuti, chè la gente ha anche da vivere e di tempo ne ha sempre meno. Ecco, la Parodi ti aiuta a vedere il prodotto industriale (che so, il miele Ambrosoli anziché quello dell’apicoltore, che sarà migliore ma non ce l’ho sottomano un apicoltore, che faccio, mi ammazzo? La passata di pomodoro della De Rica, che va beh che son più buoni i San Marzano maturati al sole cocente delle Puglie, ma intanto ho questa e si fa prima, e poi chissà se esiste ancora la De Rica e viandare) come una cosa assolutamente normale nella tua vita culinaria. E a sentirti bene.
Qualcuno dice che i suoi piatti non sono alta cucina. Ma alla Parodi gliene frega un baffo dell’alta cucina (fermo restando che ci ho visto anche Vissani da lei, segno evidente che il cucinismo spicciolo televisivo tira), la Parodi è lì che frulla, mixa, affetta, taglia, assaggia col dito portato alla bocca e poco male se nel contempo vi maneggia cucchiai, forchette e coltelli, non spiega le ricette, le incontra, le fa sue, ci parla quasi, in un colloquio intenso fra la pietanza e il pubblico, insomma, è dimolto brava e a me mi garba parecchio, e se non siete d’accordo cazzi vostri (oh, sarò padrone a casa mia…).
Nei dopopasto, durante il mio viaggio a Lisbona (perché mi pare di avervi già raccontato di essere stato a Lisbona, non ve l’ho ancora detto? Beh, ora lo sapete…), amavo andare alla Stazione del Rossío, e raggiungere, poco lungi, un antico spaccio del liquore di ciliegia portoghese, la famosa Ginginha.
Ginginha è il diminutivo di Ginja, ciliegia, appunto, e il paradiso degli ubriaconi si chiama "A Espinheira".
E’ uno di quei posti monotematici che mi piacciono tanto. Si vende Ginginha e solo Ginginha. In bottiglie da un litro, da 750 ml. o in bicchierini di vetro, da bere lì sul posto.
Niente tavoli, solo un bancone. E uno stuolo di avvinazzati.
I tipi che vi servono ("tristi come un militare di Brindisi", direbbe Stefano Benni), se sceglierete (come vi consiglio) di gustarvela lì, vi chiederanno "com fruto o sem fruto?" Vogliono sapere se la volete con tre ciliegine o no. Chiedete le ciliegine e ammirate l’abilità prestidigitatoria di versare le tre cliegie dal collo della bottiglia.
Poi compratevi un litro di Ginginha come souvenir, e una volta a casa provate a versarla nei bicchierini con tre ciliegine di numero… è peggio che fare il cubo di Rubik!
Ma la Ginginha è proprio deliziosa. Appena appena un po’ troppo dolce, forse, ma mandorlata al punto giusto (ché io non ho mai capito come fa la gente a sentire la mandorla nei liquori, nel vino rosso, perfino nell’olio extravergine d’oliva, mi sembrabo tutte delle gran coglionature, ma questa volta è vero…)
Le spaccavi in due o le prendevi a morsi, rosse e sugose, oppure verdi e asprigne, quelle gialle non ho mai capito come definirle.
La mela è quella di Biancaneve, di Eva, simbolo del peccato, e, quindi, buona per definizione. Del resto chi Vespa mangia le mele.
Ora, se togliete lo zucchero a una mela, dove va a finire il gusto della trasgressione?
Eppure le vendono nella boutique della frutta e della verdura vicina a casa mia. E costano anche 1,80 euro al chilo. E secondo me fanno anche parecchio schifo.