Coraggio, Gabo

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No te preocupes, Gabo, non è niente. E’ poco più di un annuncio. E’ la morte che arriva, annunciata, come per Santiago Nasar che si alzò alle 5,30 del mattino per aspettare il battello con cui sarebbe arrivato il vescovo.

E’ l’ora di rendersi conto che non si riuscirà ad arrivare alla fine del romanzo che stiamo leggendo, e sorridere -solo una smorfia, per carità- del fatto che è il romanzo che ci sta leggendo e che noi ci lasciamo trasportare dall’odor di guayaba, che i funerali della Mamá Grande sono in realtà i nostri, ma chissà se saremo davvero noi quelli nella bara (l'”ataúd” di conio castigliano) o se saremo tornati a Macondo a perdere trentatré sollevazioni armate e a conoscere i ghiaccio.

Stiamo perdendo, Gabo, sì. Non basta vivere per raccontarla. Non basta neanche morire perché qualche rete televisiva ti rinomini “Gabriel Maria Marquez”, così, senza accenti, senza sapere che l’accento in spagnolo è molto più che ortografia.

E’ la traccia del tuo scrivere, dico, del tuo sangue, nella neve. Non ne resterà traccia se non nella memoria di qualche scheda di biblioteca, e qualcuno si chiederà come mai “Márquez” non si trova alla lettera M.

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