Non pensavo che il Gazpacho potesse arrivare a piacermi tanto.
La prima volta che lo assaggiai lo trovai pessimo. Penso sia perché era stato fatto veramente male (il cocinero della mensa dell’Università, capirai…).
Comunque mi piace, e prima no. O sto invecchiando o sto rincoglionendo. O, molto più probabilmente, tutte e due le cose.
La ricetta ve la faccio ricordare da Carmen Maura, interprete di "Donne sull’orlo di una crisi di nervi" di Pedro Almodóvar.
Trovare un vino che si chiama "Blecua" è ben più di una coincidenza, è una necessità, un obbligo, un "ça va sans dire".
Di José Manuel Blecua, indimenticato e indimenticabile maestro, con cui ho avuto la fortuna e il privilegio di studiare nei mesi che passai a Jaca come studente, vi ho già parlato in questo post:
Certo, non basta a esaurire la grandezza della persona, ma è comunque curioso vedere come in un locale di degustazione vini e specialità locali esista un vino denominato "Blecua".
Mi piace pensare che sia in onore di questo grande luminare della letteratura spagnola, un uomo che aveva convertito la sua casa in un paradiso di libri, che aveva fatto del sorriso e dell’ironia un modo di essere. Lui, un vino col suo nome, lo avrebbe apprezzato molto, moltissimo.
La foto di José Manuel Blecua che amo di più è quella in cui lui (a sinistra) aggiusta la cravatta a Ernest Lluch, docente di economia a Valencia, Rettore dell’Università Menéndez y Pelayo a Santander, Ministro della Sanità Pubblica per quattro anni, sotto la presidenza di Felipe González e assassinato dall’ETA con due colpi di pistola in testa.
…un vino joven y tinto, vale la pena di essere assaporato in un bellissimo locale (ahimé, pieno di mosche), in cui fanno bella mostra di sé botti di vino di Málaga, della Rioja, formaggi, conserve, salumi, prosciutto e tutto quanto fa spettacolo.
Che uno dice: "Ma allora cosa ci sei andato a fare in Spagna, a mangiare?"
E ora come faccio a spiegare l’Horchata de Chufas a voi profani e ignari delle ispaniche cose?
L’Horchata de Chufas è nettare degli dèi, è ambrosia, di più, è il "brodo di giuggiole" di cui ho sempre sentito parlare e della cui esistenza ho avuto modo di renderm iedotto fin dal mio primo viaggio spagnolo del 1982 (Zoff, Gentile, Cabrini…).
L’Horchata de Chufas (scritta in maiuscolo perché è una categoria dello spirito) è una bevanda impossibile da replicare in Italia, dove manca il suo ingrediente principale (le "chufas", appunto!).
Ma sentiamo che cosa scrivono quelle testine acute dei wikipediani a proposito:
"La horchata de chufa (in valenciano: orxata de xufa) è una bevanda rinfrescante preparata con acqua, zucchero e con il latte del tubercolo ipogeo che caratterizza le radici di una pianta (il Cyperus esculentus) diffusa nella piana di Valencia e chiamato appunto chufa in spagnolo.
L’horchata è un latte vegetale ad alto tasso energetico. Ha un elevato contenuto di grassi, zuccheri e proteine, nonché sali minerali (fosforo, potassio) e vitamine (E e C). Si serve fresca, a volte gelata o in forma di granita.
La diffusione dell’horchata, bevanda estiva molto popolare in Spagna, è da ricondursi alla presenza degli Arabi a Valencia (dal secolo VIII al XI)."
La cazzata fondamentale è che l’horchata sia un latte vegetale. Latte di cosa? Di mandorle? Del latte non ha né la consistenza, né il colore, né il sapore, non è neanche da ascrivere a quella categoria di bevande (come quello di soia, ad esempio, o di riso, o di avena) che possono sostituire quello vaccino nella preparazione di dolci e bevande, si fa un formaggio dal latte di soia, ma dal latte di horchata non si fa un accidente di nulla, si beve così com’è, fresca, freschissima, come se fosse un gelato, ci si siede fuori dal locale, te la servono con una cannuccia di quelle che si piegano in cima (o anche no, non è indispensabile nè fondamentale) e uno passa il tempo a girare la cannuccia nella bevanda a mo’ di rudimentale cucchiaino perché la farina di "chufas" tende a sedimentarsi sul fondo.
La Wikipedia spagnola, inoltre, dice che l’horchata è ricchissima di enzimi che favoriscono la digestione. Un tubo, dopo averla bevuta vi sentite pesanti (attenzione, una horchata è poco, due sono troppe) e attirati dal centro gravitazionale dell’asse terrestre, ma sarete felici di aver assaggiato il sapore del brodo di giuggiole (burp… ohimé…).
Vi prego di voler rivolgere un pensiero affettuoso e grato al Toro "Capuchino" (adesso probabilmente trasformato in bistecche, i cui testicoli saranno già abbondantemente cucinati alla maniera catalana) per aver incornato uno spettatore durante la corsa dei "Sanfermines" di Pamplona, così la gente impara che se swi rompono i coglioni ai tori, poi i tori si incazzano. E che c’è gente che sostiene fermamente che fanno anche bene ad incazzarsi.
El Ferrocarril de Canfranc è una cattedrale nel deserto.
Canfranc è un paesino che si trova a pochi chilometri dal confine francese, una volta era veramente un pugno di case, con un bar, un ufficio di cambio e, molto più tardi, un ufficio turistico. Niente altro. A parte i Pirenei intorno, un vento che quando tira ti fa restare intirizzito lì anche a luglio, ma, soprattutto, la “Estacion internacional”.
Inaugurata da Alfonso XIII nel 1928, e da quell’anima buona del dittatore Primo de Rivera, la stazione è un edificio di dimensioni assolutamente imponenti, ciclopiche e gigantesche.
Solo che è da svariati decenni completamente abbandonata. 20 anni fa ci passavano otto treni al giorno (quattro partivano e quattro arrivavano). Quest’anno ce ne passano quattro (due all’andata e due al ritorno). Nient’altro.
Naturalmente si tratta di una stazione terminale, oltre Canfranc, verso la Francia, c’è il nulla ferroviario, la terra di nessuno, e i collegamenti interrotti ormai dalla guerra civile 1936-1939, nota per i Wikipediani, gli ignoranti e i pisani, entità che spesso coincidono).
Dedico questa icona al degno compare e puzzone Mancinelli Enio (o Falaschi Rutelio), che a Canfranc patì una delle esperienze più travagliata della propria esistenza (quasi peggio di uno stranguglione di tortilla de chorizo…).
Dunque, non appena rimesso piede in italico e berlusconiano suolo, reduce dalla visita, vent’anni dopo (ventuno, per l’esattezza), ai luoghi che furono della mia giovinezza e del mio studio matto e disperatissimo sulle sudate carte ("sudate"?? Mah…), inauguro volentieri la galleria delle immagini delle vacanze, di cui vi offrirò un florilegio, senza dimenticarmi di postare anche quelle della tre giorni a Lisbona (perché non so se vi ho già detto che sono stato a Lisbona).
Eccovi allor la prima disiata imago. E’ uno scatto effettuato al Ristorante "La Republicana" di Saragozza. Locale gradevole, e poi per chi, come me, è di bocca buona e stomaco antiaderente e resistente agli urti, è comunque un luogo in cui calmare i morsi della fame anche solo con del solomillo de cerdo a la plancha e un gazpacho che non ricordavo potesse risultarmi così gradevole, ma ve ne parlerò in un altro post.
Quel giorno decisi di indossare la maglietta del Vernacoliere, tanto per strada nessuno ci avrebbe capito nulla (e infatti molti mi guardavano con aria interrogativa, mentre me ne andavo, tronfio e sussiegoso), ma giunto al momento del desinare non ho potuto fare a meno di notare il cartello che ricorda il Casino di Madame Sitrì e le filantropiche attività che vi si svolgevano.
Il tutto in italiano (anzi, in livornese!) e in mezzo a foto, oggetti e ricordi del periodo repubblicano spagnolo (1931-1936, nota per i Wikipediani, gli ignoranti e i pisani).