Abruzzo zona rossa

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Dunque anche l’Abruzzo, con evidente ritardo, si sta avvicinando alla zona rossa.

Il Governatore Marsilio dovrebbe firmare la documentazione relativa alla fine della sua giornata di consultazioni, e dovrebbe, secondo quanto riferiscono voci insistenti, chiudere le scuole di ogni ordine e grado e stabilire la didattica a distanza. Qualcuno sta frenando su questo punto, cercando di fare in modo che almeno le materne, le elementari e la prima media vengano svolte in presenza, come accade nelle altre regioni rosse.

Se chiudesse le scuole, Marsilio farebbe solo bene, e dimostrerebbe di poter ricevere l’appoggio, su questo provvedimento, anche da chi non si schiera (come me) dalla parte del suo colore politico. Certo, di grane, in caso di lockdown didattico totale, ne avrebbe in quantità. Ci sono associazioni di genitori e cittadini che sono pronte ad affilare i coltelli per ricorrere al TAR perché l’ordinanza della regione sarebbe troppo restrittiva rispetto alle direttive nazionali. Il punto, tanto per cambiare, è sempre lo stesso: considerare la scuola come un Kindergaten, anziché come un luogo di educazione e di cultura. Gente inviperita che non può conciliare le esigenze lavorative con quelle educative, che si vuol mantenere le ferie belle intonse per il mese di agosto, poi magari vanno in vacanza in Sardegna dove riaprono le discoteche, la gente va (s)ballare con la benedizione della Santanché e di Briatore, poi contagia gli altri e il cerchio si chiude di nuovo.

Vinceremo anche la causa al TAR. O se no ci infetteremo tutti. Dipenderà dai giudici. L’epidemiologo Pierluigi Lopalco ha affermato oggi che per ogni studente che contrae il Covid a scuola, statisticamente ci sarebbero circa 20 infezioni tra familiari, parenti, amici, vicini. E allora cosa diavolo aspettiamo? Qui ci sono studenti e pazienti adulti che se ne vanno tranquillamente in giro pur avendo il tampone positivo, è un suicidio-omicidio collettivo che non giova a nessuno. I numeri dei contagi sono ancora troppo alti per poter permetttere a questi gentiluomini e a queste gentildonne di potermantenere i loro pargoli in un luogo che si vorrebbe sicuro, ma che, invece, sicuro non è.

Vi aggiornerò, sempre se non l’avrò beccato anch’io. Qui si vive alla giornata, i ritmi sono scanditi dai radio e telegiornali regionali che dànno cifre preoccupanti, ora per ora. E non è un bel vivere, no davvero.

 

Roseto degli Abruzzi: oltre 104 contagiati. A Voltarrosto quattro classi in presenza. DAD per Cologna Spiaggia

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Riporto di seguito l’intervento di ieri del Sindaco di Roseto degli Abruzzi su Facebook:

Buonasera . Comunico che, a seguito di ulteriori comunicazioni pervenutemi dalla ASL di Teramo, il numero dei residenti positivi è salito a 104 persone.
La dirigente scolastica del II° circolo mi ha comunicato che lunedì riprenderanno le lezioni in presenza per quattro classi della scuola elementare di Voltarrosto; rimarrà in didattica a distanza solo la quinta classe per cautela , mancando ancora il risultato di alcuni accertamenti.
La dirigente scolastica del I° circolo, d’intesa con me, disporrà invece da lunedì la didattica a distanza per tutti gli alunni del plesso di Cologna Spiaggia , essendo emerse alcune positività , seppure da riscontrare, a carico del personale e di alcuni alunni ; ciò per cautela ed in attesa delle indicazioni e decisioni che i sanitari della ASL riterranno di dare nei prossimi giorni.
Sfuggono ancora ad un censimento preciso della ASL le positività accertate presso alcuni laboratori privati , sicchè il numero dei positivi ragionevolmente può considerarsi sottostimato.
Torno a raccomandare a tutti il rispetto delle note cautele nell’agire quotidiano.

Roseto degli Abruzzi: in quarantena alunni e personale della scuola elementare di Santa Petronilla e tre classi con relativi docenti del secondo circolo “Fedele Romani”

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Dall’account Facebook del Sindaco di Roseto degli Abruzzi Sabatino Di Girolamo, appendo che “la ASL ha disposto che alunni, docenti, collaboratori scolastici della scuola elementare di Santa Petronilla, a titolo di estrema cautela, rimangano in quarantena fino all’esito del tampone, che la stessa azienda sanitaria effettuerà al più presto. L’attività didattica quindi resta sospesa.”

Inoltre, “presso il secondo circolo Fedele Romani tre classi, e gli insegnanti venuti a contatto, sono da domani in quarantena, sempre per cautela e su disposizione della ASL, fino ad esito negativo del tampone da effettuare nei prossimi giorni.”

E’ necessario adottare anche in Abruzzo il modello Campania, che ha posto in modalità didattica a distanza anche le scuole elementari. Non c’è ulteriore tempo da perdere.

Roseto degli Abruzzi: un alunno positivo in una scuola superiore

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A Roseto degli Abruzzi, questo piccolo mondo di un mondo piccolo, è successo che uno studente di un istituto superiore sia risultato positivo a Covid-19.

Il sindaco Sabatino Di Girolamo, che ha pubblicato la notizia su Facebook, non ha fatto il nome dell’istituto, ma tanto le scuole superiori a Roseto degli Abruzzi sono due, per cui se non è zuppa è pan bagnato. Ma ormai a Roseto la notizia la conoscono tutti, e dell’istituto di provenienza dello studente positivo si parla in continuazione. Insomma, è l’argomento del giorno. Nemmeno io farò, tuttavia, il nome di questa istituzione scolastica, perché mi sembra prioritario preservare la privacy dello studente e della sua famiglia. Ma, ripeto, ormai è un segreto di Pulcinella.

Insomma, il contagio scolastico da Covid-19 è arrivato anche qui. Ignoro se la classe e i professori siano stati messi in quarantena, qui se ne parla molto ma nessuno sa, perché è evidente che nessuno deve sapere. E se sa, sa per conto suo.

Tutti sanno che a Roseto (che ormai non è diventata più sicura di ogni altra località italiana) il virus ha toccato la scuola (e QUALE scuola), ma nessuno ne parla. Se chiedi a qualcuno la gente ti guarda con quel senso frammisto di menefreghismo, sussiego, supponenza, superiorità o, più semplicemente, ignoranza, con un ghigno fatto di sarcasmo e nonchalance, come se la scuola non interessasse a nessuno (ed è vero!). La scuola è solo un babyparking, guai a toccarla non tanto perché l’esperienza della didattica in presenza sia fondamentale per l’educazione degli alunni, ma perché nessuno può più star dietro ai propri figli in orario di lavoro, e i propri figli da qualche parte dovranno pur stare, possibilmente non in casa attaccati al computer (al telefonino per chattare con gli amici sì, al computer per imparare qualcosa no, o come sarà??).

E allora che a scuola ci si infetti pure, tanto basta che i nostri figli non siano tra i contagiati, che gli appestati siano sempre gli altri e che la quarantena duri poco (che palle questi tamponi! Basta con questa didattica a distanza, ma che devono studiare anche quando sono costretti a stare a casa questi poveri figliuoli??). Ma, soprattutto, che si continui, imperterriti e cocciuti, a far finta di nulla e a nascondere la polvere sotto il tappeto.

“Ti trito come il sale fino e poi ti ammazzo. Il coronavirus non esiste, idiota!” Il negazionismo approda a Roseto degli Abruzzi

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A Roseto degli Abruzzi, questo piccolo mondo di un mondo piccolo, succede che una bambina di quattro anni ha 37,5° di febbre e un po’ di tosse. E’ figlia di genitori separati. La pediatra (di cui non faccio il nome, perché è inutile -ma la stampa nazionale lo riporta-) dice che bisogna provvedere a attivare le misure anticovi-19. Tampone orofaringeo, per la precisione.

La madre è d’accordo. Ma bisogna avvertire il padre. Viene contattato e reagisce con un “Adesso vengo nel suo studio, prima la trito come il sale fino e poi l’ammazzo. Il coronavirus non esiste. Idiota”. Almeno questo è quanto riferito dalla pediatra al quotidiano “Il Messaggero”.

Il negazionismo del Covid è diffuso ormai dappertutto. Ma vederlo attuato in maniera così vigliacca e pressante nel paese in cui, bene o male, vivi, è una cosa che fa senso.

Il reato di minaccia è previsto e punito esclusivamente dall’articolo 612 del codice penale. Si rischia una multa fino a 1032 euro o, nei casi più gravi, la reclusione fino a un anno. E’ punibile a querela di parte, quindi bisogna vedere se la pediatra in questione ha intenzione o no di sporgere denuncia. Se sì scatta il procedimento. Che potrebbe essere revocato se la pediatra accettasse una transazione e rimettesse, nel frattempo, la querela. Nel caso peggiore, con un patteggiamento il negazionista in questione potrebbe cavarsela con una pena minima, la sospensione condizionale della pena (non dovrebbe, cioè, scucire una lira) e la non menzione sul casellario giudiziale a richiesta dei privati.

L’ignoranza, la maleducazione, il negazionismo e la cafoneria non sono reato nel nostro ordinamento giudiziario. Peccato.

La scuola in Abruzzo ricomincia il 24 settembre

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La scuola in Abruzzo riprenderà il 24 settembre, con dieci giorni di posticipo rispetto alla media nazionale. E questa è una cosa risaputa.

Come riprenderà, invece, è sempre più incerto. Distanze di sicurezza (espressione che preferisco all’odioso “distanziamento sociale”), mascherine, disinfezioni, assembramenti, lezioni in presenza o on line, ricreazione, aule sovraffollate restano ancora un mistero da risolvere, e non è che il Governo stia poi facendo molto per chiarire le idee alle famiglie, agli alunni, agli insegnanti e ai Dirigenti.

Quello che è passato inosservato è che 150 anni fa nasceva Maria Montessori. Se avessimo avuto lei come ministro dell’istruzione anziché il fascista Giovanni Gentile, oggi la scuola sarebbe molto diversa.

Si vocifera di una fantomatica circolare del Ministero della Salute a favore dei lavoratori fragili che abbiano compiuto i 55 anni di età. Come se il Covid 19 guardasse all’anagrafe! E sarà tutto un rimbalzarsi di responsabilità: dal medico scolastico al medico curante (che non può fare altro che metterti in malattia a tempo indeterminato), dal medico legale a quello dell’INAIL. Direttive generiche, reti a maglie estremamente larghe che andranno solo a favore dei soliti “furbetti” che se ne approfitteranno, mentre chi ha bisogno davvero dovrà inesorabilmente sputare sangue.

E così si ricomincia. Le incertezze sono molteplici. Le delusioni saranno ancora di più.

Roseto degli Abruzzi: turista veneto trovato positivo al Covid19

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Ma sì, concediamocelo. Proprio qui, a Roseto degli Abruzzi, piccolo mondo di un mondo piccolo, come vidicevo in un post di qualche giorno fa, si va in giro senza mascherina, si creano assembramenti coatti, tutti sono felici di non prendere le benché minime misure precauzionali, tanto il virus è una balla, o tutt’al più un ricordo di un periodo lontano in cui il governo ci ha obbligati a stare in casa, ora non c’è più pericolo, e tutti siamo liberi di andarcene in giro a fare gli scemi e a sfidare la sorte. Ma bravi!

Peccato per noi che sia proprio di poche ore fa la notizia che un turista veneto, dopo la calata dei lumbard che a febbraio fece chiudere tutto, scuole ed esercizi commerciali, sia stato trovato oggi positivo al coronavirus. Pare che il genio in questione sia venuto via dal Veneto dopo essersi sottoposto al tampone orofaringeo, ma SENZA attendere i risultati. Risultato, lui è in ospedale e la sua compagna è in quarantena obbligatoria.

Mentre la gente andava al mare, i bambini giocavano in pineta, i motociclisti sfrecciavano, le biciclette continuavano a circolare sul marciapiede come se niente fosse, mentre la gente continuava a toccare frutta e verdura al supermercato con le mani senza guanti e senza essersi adeguatamente igienizzati, la bestiaccia è tornata a farsi vedere e sentire. Mentre noi pensavamo di avere sconfitto una sonora bufala sanitaria, il virus era lì bel bello, che se la rideva di noi e di tutti i nostri atteggiamenti da imbecilli. Non c’è che dire, a Roseto degli Abruzzi siamo tutti dei gran “fregni”. Fregnoni, ecco cosa siamo!

E mentre noi giochiamo a racchettoni, illudendoci che il terribile morbo non ci contagerà mai, ecco che il morbo arriva e come, sotto forma di turista alloggiato in un umile alberghetto, che magari voleva solo farsi una vacanza, godersi un po’ di mare, non dico mica di no, e va be’, ma a tutto c’è un limite, sacramento!

Continuiamo così, facciamoci del male. Tanto domani sulla spiaggia di questo paese in mezzo a una strada, non si parlerà d’altro. Magari a molto meno di un metro di distanza e senza mascherina, perché fa caldo e dà fastidio. Ma fastidio de che? Ditelo che non ve ne importa niente, che non ve ne frega un cazzo di proteggere voi stessi e gli altri, i vostri e i nostri bambini dall’ondata turistica di queste orde di barbari che càlano nell’odiatissimo sud, nell’ex Regno borbonico, a portarci ristoro all’economia alberghiera e turistica, e anche un po’ di Covid 19 già che ci siamo.

“Ha sentito, signora? Ma io non so più in che paese viviamo. Si figuri che ci toccherà non uscire più di casa un’altra volta, e ora come me la spalmo la crema solare addosso? Come faccio ad andare a mangiare in quel ristorantino di pesce dove fanno delle cosucce da leccarsi i baffi? Andare a fare la spesa che neanche un palombaro nello scafandro! Che roba, contessa!!”

Cretini. Siamo tutti dei cretini.

Le biciclette sul marciapiede a Roseto degli Abruzzi

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A Roseto degli Abruzzi, questo piccolo mondo di un mondo piccolo, nessuno porta più le mascherine. O le portano in pochissimi. Anche qualche negoziante ormai ci ha rinunciato. Ma sì, tanto il virus è un’illusione e comunque d’estate fa caldo e muore, e comunque vuoi che lo prenda proprio io? E’ così. Siamo una riproduzione in piccolo di tutto quel che avviene in Italia, né più né meno. I linguisti direbbero che siamo un paradigma.

Qui a Roseto le biciclette non viaggiano sulla trafficatissiva via Nazionale, no, vanno direttamente sui maciapiedi. Come se fossero una pista ciclabile. Non dovrebbero farlo, ma lo fanno. Ci sono quelli (ma soprattutto quelle) che pedalano con il cellulare in mano, immersi in qualche amena conversazione. Non ti vedono, e quando si accorgono che stanno per venirti addosso, svicolano a destra o a sinistra all’ultimo momento e ti guardano come se fosse colpa tua. Poi ci sono quelli che quando sei in mezzo al marciapiede ti suonano il campanello come per dire “lasciami passare” e no, cazzo, io sono un pedone, il marciapiede è mio, sono anche un invalido, cosa mi suoni a fare? Mi devo spostare perché tu hai da passare con la tua graziosa biciclettina? E chi se ne frega. Poi se gli dici “Questo è il marciapiede, la strada è quella!” magari si incazzano pure e ti trattano con sufficienza, sussiegoe supponenza non rispondendoti nemmeno e proseguendo sulla loro cattiva strada, come l’avrebbe definita il Poeta.

Poi ci sono quelli che sul marciapiede ci portano addirittura tutta la famiglia. Papà, mamma e due figli (solitamente, ma a volte anche di più) col casco in testa e via, come se fosse una pista ciclabile. “Stai attento, passa di qui, passa di qua, occhio alla buca, attenti all’albero, buca, buca con acqua…” e via di questo passo.

E’ vero. La Nazionale è maledetta ed estremamente pericolosa. Ci passano i camion, tutto il traffico pesante si riversa nel centro città, il tutto per una disgraziata delibera comunale che rifiutava la costruzione di una variante su cui far convogliare i “camios”, come diceva quell’altro Poeta, molti e molti anni fa. Le piste ciclabili si contano sulla punta delle dita di una mano monca, e sono solo per brevi tratti sul lungomare e in altri luoghi turisticamente attrezzati. Chi passa per la Nazionale si gode il profumo dei gas di scarico. E viandare.

Ora, io capisco tutto e tutti, ma dovete venire a rompere i coglioni proprio a me che me ne sto dove posso e devo stare? I vigili, certo, fanno quello che possono, ma sono impegnati con cose ben più gravi ed importanti, tipo fare la multa a chi non ha messo l’orario di arrivo, o a quelli a cui l’orario è scaduto da più di un quarto d’ora.

E così si cammina tra mille pericoli. Sempre con la speranza di non farsi male e di riportare integra a casa la pellaccia.

Pescara: la beffa della bocciatura della mozione di solidarietà nei confronti di un giovane gay malmenato in centro

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A Pescara hanno pestato malamente un giovane, fracassandogli la mascella e costringendolo a un mese di prognosi, probabilmente con ricovero prolungato in ospedale. la sua colpa è stata soltanto quella di camminare, nel centro della città, mano nella mano con il suo compagno. Il giovane è gay. E’ per questo che è stato malmenato, mazzuolato di botte, maltrattato e insultato da quella che alcune fonti pensano sia una baby-gang. Minorenni che cominciano bene, evidentemente. Se ne stanno occupando le indagini, e, come sempre si dice in questi casi, spetta alla magistratura individuare i colpevoli materiali, mandarli a processo e ai giudici punirli secondo le leggi che regolano il processeo penale a carico dei minorenni. Insomma, che si applichi la legge.

Dove invece la legge NON si applica è sulla decisione del consiglio comunale di Pescara, che ha respinto una mozione dell’opposizione che esprimeva solidarietà al ragazzo malamente pestato lo scorso 27 giugno. Ci sono stati 10 voti favorevoli e 11 contrari. Per un punto Martin perse la cappa, come si suol dire. 7 leghisti, 3 rappresentanti di Forza Italia e 1 consigliere di Fratelli d’Italia hanno così respinto l’ipotesi della solidarietà, alla faccia della solidarietà che dovrebbe superare ogni barriera politica. Il consiglio comunale, respingendo la mozione dell’opposizione, ha altresì rifiutato l’ipotesi di costituirsi parte civile nel costituendo processo contro i colpevoli che stanno per essere identificati.

Il sindaco di Pescara Carlo Masci, che, pure, si era recato al capezzale del giovane per sincerarsi delle sue condizioni di salute, ha dichiarato:

«In attesa che gli inquirenti facciano piena luce e assicurino alla giustizia i responsabili della barbara aggressione e del ferimento, occorre ribadire che Pescara non è la città che si tenta strumentalmente di dipingere, creando e cavalcando polemiche puntualmente smentite dai fatti e indegne di chi ha davvero a cuore il bene comune. Sono stati proprio i pescaresi a intervenire per respingere e neutralizzare un folle attacco generato da ignoranza e intolleranza, e questo non va sottaciuto».

Si parla di strumentalizzazione, dunque. Ma che strumentalizzazione può mai esserci nella ferma condanna di un atto così incomprensibile come l’aggressione violenta e ingiustificata a un giovane? Non si può pretendere solo di tricerarsi dietro al dovuto rispetto nei confronti degli inquirenti. Occorre prendere una posizione chiara. E la posizione, il consiglio comunale di Pescara, ha deciso di non prenderla. Era oltretutto un’occasione per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’estrema necessità di una legge anti-omofobia. Un’occasione mancata. E tragicamente fallita.

Il dirigente scolastico Marcello Rosato ai domiciliari per atti sessuali su minori. E se fosse innocente?

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Io mi auguro, voglio augurarmi con tutto il cuore, che il Professor Marcello Rosato, Dirigente Scolastico attualmente in stato di detenzione domiciliare per il reato di atti sessuali con minorenne, punito con il carcere da tre a sei anni, sia innocente.

Il provvedimento è stato preso dal GIP Andrea Di Berardino su richiesta del Pubblico Ministero Marika Ponziani.

Rosato è accusato di svariati e ripetuti atti sessuali su un alunno di 17 anni, dopo una conoscenza avvenuta su una chat di incontri, Secondo l’accusa, dopo aver scoperto che l’interlocutore era un alunno del suo stesso istituto, il Dirigente avrebbe consumato gli atti sessuali oggetto di contestazione giudiziaria nei locali della scuola e a casa sua.

Nel corso di una perquisizione domiciliare sarebbe stato sequestrato svariato materiale informatico e di altra natura (sono stati sequestrati il computer e il telefonino del Dirigente per compiere degli atti irripetibili) attestante le contestazioni addebitate.

Io, come vi dicevo, spero tanto che sia innocente e che siano vere le dichiarazioni del suo legale, l’avvocato Alessandro Troilo (“È tutto falso: il mio cliente è totalmente estraneo alle accuse e riuscirà a dimostrare la sua completa innocenza”)

Perché se fosse colpevole sarebbe un’onta indelebile sulla scuola abruzzese e italiana. Se fosse innocente sarebbe stato privato della libertà ingiustamente.

Come direbbe Gaber: “Due miserie in un corpo solo”.

Roseto degli Abruzzi: trattative tra Provincia e congregazione parrocchiale per l’acquisto dei locali del Centro Piamarta e il trasferimento della sede del Polo Liceale “Saffo”

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Qui a Roseto degli Abruzzi, piccolo mondo d’un mondo piccolo, non si parla d’altro.

La Provincia, col beneplacito del Comune, sarebbe in trattativa per comperare due edifici del centro Piamarta, dalla congregazione “Sacra Famiglia di Nazareth”, che saranno destinati al trasferimento della sede del Polo Liceale “Saffo”, secondo quanto riferisce l’on. Valentina Corneli (M5S).

Il centro Piamarta è sede dell’oratorio della Parrocchia del Sacro Cuore (molto vicina a dove abito io), di un campo di calcio (noto con il nome di “campo dei preti”), di un piccolo teatrino per rappresentazioni e incontri, di un centro di formazione. Insomma, è un luogo di aggregazione davvero formidabile. Tenendo presente che a Roseto degli Abruzzi non ci sono più né una stagione teatrale, né un cinema, né quasi niente di niente.

E poi 1200 alunni di un Polo Liceale dove li metti? Nei due edifici del Piamarta? Ma c’entrano? O, per dirla in abruzzese, ci “càpeno”? O devi costruire altri edifici per permettere una più comoda e razionale distribuzione dei ragazzi? Perché, voglio dire, le classi pollaio e gli ambienti angusti non sono poi tanto compatibili con le ultime emergenze sanitarie di cui ci stiamo liberando a fatica. E se devi costruire un nuovo edificio scolastico dove lo fai? Sul campo dei preti, mi sembra ovvio. Non c’è altro spazio. Ora, il campo dei preti è stato oggetto di donazione di un cittadino rosetano facoltoso e generoso, che si fa, lo si distrugge per una bèla culada di cemento armà’?

Sorprendente e spiazzante pare la posizione della Dirigente Scolastica del Polo Liceale “Saffo” Elisabetta Di Gregorio, che, secondo quanto riferito dal quotidiano “Il Centro”, sarebbe d’accordo con il trasferimento “purché le due strutture riescano a contenere tutte le classi del liceo.”

Non sono un cattolico, ma conosco le lodevoli iniziative del Centro Piamarta e guardo con sospetto e diffidenza a questa iniziativa. Continuo a ritenere, da inguaribile sognatore quale sono, che due calci a un pallone o la felicità di mia figlia che si bèa tra i “giochini” messi a disposizione dei più piccoli, valgano di più di una singolare operazione finanziaria.

L’odissea della PEC del Comune di Roseto degli Abruzzi

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Io vivo a Roseto degli Abruzzi.
E va beh, da qualche parte bisogna pur vivere.

Ho bisogno di cambiare residenza. Mi collego al sito del mio comune dove scarico un modulo che mi dice che posso farlo in modalità telematica e veloce. Meno male.

Tra le varie possibilità di trasmettere le mie dichiarazioni ci sono l’e-mail, il fax, la raccomandata e… la PEC. “Perfetto”, mi dico, “ho una casella PEC di cui sono intestatario certificato, scrivo la richiesta e la mando subito. Ha il valore di una raccomandata con ricevuta di ritorno, quindi sono al sicuro.”

Scrivo tutto, clìcchete clìcchete, e quando arrivo a spedirla all’indirizzo indicato nella documentazione, ricevo questo messaggio di errore:

Mi dico: “Sarà mica l’unico indirizzo PEC del Comune? Andiamo a cercare.” Inserisco su Google la stringa di ricerca “comune di Roseto degli Abruzzi PEC” e vengo rimandato a questa risposta:

Come sono belli la tecnologia e il progresso! Clicco e…

Pagina bianca! Nessun indirizzo di PEC disponibile per l’utente. Perché? Perché su Google viene indicizzato il link:

http://www.oldweb.comune.roseto.te.it/email_pec.php

che fa riferimento alla vecchia versione del sito. Ma perché hanno messo un sottodominio denominato “oldweb”. Il motore di ricerca impazzisce e fornisce informazioni sbagliate.Non sarebbe meglio cancellarlo e aspettare che Google si aggiorni? Il “nuovo” sito è in linea dal 2016, in fondo, e quello vecchio ha fatto il suo tempo. Scorrendo i footer del blog del Comune, dove sono riportate le note legali c’è un link ai “contatti”. Andiamo a vedere cosa dice:

Ma che lo configurino perbene quell’Apache!! I riferimenti dei contatti sono importanti. Uffici, numeri di telefono, e-mail… e la PEC eccola lì, regolarmente indicata sul sito. E’ quella che ho usato io, l’istessa medesima. Solo che non funziona. Non mi resta altro da fare che indirizzare la mia PEC alla mail tradizionale dell’ufficio anagrafe. Incrociando le dita, e senza avere nessuna sicurezza sul recapito.

E’ arrivato il coronavirus a Roseto degli Abruzzi

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Dunque, ieri mi sono fatto qualcosa come 500 km in macchina cercando di fuggire da una regione con tre casi di coronavirus e rifugiarmi nella tranquilla Roseto degli Abruzzi dove, però, nel frattempo, era in agguato un  brianzolo portatore infetto di coronavirus, che soggiornava in questa ridente cittadina (che adesso non ha più nulla da ridere) da venerdì scorso e avrà infettato chissà chi, per cui viviamo piombati nel terrore, sembriamo i passeggeri del treno di “Cassandra Crossing”. Io mi sento come il protagonista di “Samarcanda” di Roberto Vecchioni, che per sfuggire alla morte che lo guardava con occhi cattivi al mercato di Bassora cavalca per tutta la notte e se la ritrova alle porte di Samarra che lo aspetta puntuale come un orologio svizzero. Non è esattamente la stessa cosa ma più o meno siamo lì col conto. Insomma la grande “caona” (termine livornese per designare sia l’epidemia che la paura) è arrivata. Ovviamente questo ha sconvolto la mia giornata lavorativa che sarà dirottata sugli arresti domiciliari. Bella giornatina, sì…

Papillon

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Giorni fa ho scritto un post intitolato “M49: Ora vi càa l’orso!”, in cui, sostanzialmente, mi lamentavo del fatto che all’orso errante per il Trentino, e scappato superando un filo spinato elettrificato, miracolosamente sopravvissuto e oggetto della caccia spietata autorizzata e auspicata dalle più alte autorità regionali, non abbia neanche un nome e sia costretto ad essere identificato con una banale sigla. E auspicavo che qualcuno gli desse un nome. Per esempio “Papillon”. Adesso apprendo, attraverso le notizie della preziosa e neonata NuovaRadio1458 dell’amico Caciagli Edo (o Bernardeschi Pilade, ora sinceramente non rammento) che la regione Abruzzo, e più precisamente la Comunità Montana di Pratola Peligna, ha deciso di offrirsi di adottare M49 (si sottintende “vivo”) e di dargli, guarda caso, proprio il nome di Papillon. Hanno letto il mio post? Ma guardate che io scherzavo!! Dare un nome, ancorché a un animale, significa condannare quella persona o quella povera bestia a portarlo per tutta la vita. E meno male che Papillon è un nome quanto meno accettabile e carino per un orso bruno- Ma se avessi scelto roba come Pippolino, Maciste, Strusciapioppi o altre delizioserie del genere glielo avrebbero appioppato ugualmente? Non ci voglio nemmeno pensare. Mi auguro solo che Papillon possa venire in Abruzzo il prima possibile e vivere tranquillo con un nome (e non come una sigla) e un ambiente rinnovato, lontano da schioppi e da doppiette.

Dove internet non arriva

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Mi sono beccato un virus, negli ultimi giorni. Nulla di grave, problemi gastroenterici (che schifo!), qualche linea di febbre, nulla che non si possa tenere a bada con un po’ di Plasil ogni tanto e un’Aspirina per abbassare la temperatura. C’è solo un piccolo ostacolo: è sabato e io ho bisogno di un certificato medico telematico. Il medico curante è impegnato con un corso di aggiornamento obbligatorio, quindi non è reperibile nemmeno dalle 8 alle 10. Lo trovo sul cellulare per misericordia divina e mi consiglia di andare alla guardia medica. Mi alzo, mi intabarro, cerco di camminare senza sbandare per via della nausea e dei giramenti di testa, e raggiungo la guardia medica, dove una giovane dottoressa, molto gentile nei modi, mi dice che le dispiace tanto, che se voglio mi può prescrivere dei farmaci (no, grazie), farmi un certificato cartaceo per il rientro (mi serve telematico, se no non sarei venuto qui), insomma, quello che voglio (ah, com’è bello avere un sistema di salute pubblico!), ma niente che sia telematico, perché alla guardia mediaca (no, dico, la guardia medica, ma sarà importante la guardia medica) non hanno internet, Anzi, a dire il vero non hanno neppure un PC per collegarsi, perché quello che c’è riposa lì da secoli e dorme della grossa, sepolto sotto cumuli di polvere e di vecchie carte che non vuole più nemmeno il macero.

Ora, condannare una giovane dottoressa alle prime armi e alle prime esperienze con il sistema sanitario nazionale a dover redigere i suoi documenti e quelli dei pazienti (incluse le ricette mediche) con tanto di carta e penna BIC (strumenti di trasmissione del sapere nobilissimi, per carità, ma c’è di più e di meglio al giorno d’oggi) è puro medioevo.

Intanto si vive (e si muore così). In fondo cos’è la morte civile se non disconnessione da tutto il resto?

Ladri di biciclette

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Auguro a quelli che questa notte mi hanno rubato la bicicletta da sotto casa, di rivenderla per due lire (più di tanto non valeva) e il ricavato spenderselo in chemioterapici. Ho detto.

La metamorfosi

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Gregor Samsa, svegliatosi da sogni inquieti, si ritrovò trasformato in un insetto schifoso.

Così era, più o meno (abbiate pazienza, non ho il testo originale sottomano e sto cercando di tradurre ad sensum) l’incipit de “La metamorfosi” di Kafka.

Kafka non si era inventato niente. In Abruzzo, la sera di domenica scorsa, ci siamo addormentati che eravamo abruzzesi e ci siamo risvegliati dopo qualche ora trasformati in padani per la vittoria della Lega alle elezioni regionali. Abbiamo abdicato in maniera schifosa alla nostra identità. Non canteremo più “Vola vola vola e vola lu pavone” ma “O mia bèla madunina”, non mangeremo più arrosticini ma cassoela, niente più timballo alla teramana con le pallottine ma polenta scondita; niente più spaghetti alla chitarra ma bucatini della Barilla conditi col sugo Star, come ci insegna Salvini. Ci siamo trasformati in insetti schifosi. Abbiamo svenduto al primo Salvini che passava la nostra tradizione democratica (o democristiana che dir si voglia), ci siamo abbandonati alla destra e abbiamo fatto il gioco di Lega e Fratelli d’Italia che, nell’ebbrezza della vittoria, si sono dimenticati che chi ha veramente vinto le elezioni regionali abruzzesi è stato il partito dell’astensionismo, della gente disgustata, del menefreghismo costruttivo, della protesta ferma e rude, forte e gentile come qualunque abruzzese.

E naturalmente, dopo, tutti gli italiani si sono trasformati (a loro volta, come Kafka insegna) in osservatori attenti delle cose abruzzesi. Tutti i commentatori su Twitter e Facebook erano diventati, d’improvviso, esperti di cose abruzzesi. Senza aver mai mangiato un piatto di spaghetti alla chitarra o di pecora alla callara (o “a ju cuttore” nell’Abruzzo aquilano), senza aver mai fatto una partita a bestia o essersi andati a fare una passeggiata sui sentieri del Gran Sasso. Gente che non sapeva nemmeno quanti capoluoghi di provincia ci sono in Abruzzo, analizzava tendenze, voti, percentuali, affluenza alle urne, nomi degli eletti, rassegne stampa, bestemmie, imprecazioni, triccheballàcche e tutto quanto fa spettacolo.

Perché se non ghérum nuiàlter de la Lega, il coso, lì, l’Abrusso, minga el faseva un casso! 

E così cominciamo a lasciare i nostri dialetti, magari sgradevoli a volte (il teramano parla che sembra un codice fiscale!), ma molto genuini, per sposare un incerto grammelot padano per il quale anche Dario Fo si rivolterebbe nella tomba.

Siamo così, trasformati in insetti ripugnanti come Kafka ci insegna. Un giorno qualche bella fanciulla, stufa di vederci conciati in quel modo, ci lancerà una mela che andrà a conficcarcisi sul groppone e così creperemo per la bellezza e la vanagloria altrui. Dio ¡qué depre!

Il Circolo Virtuoso “Il nome della rosa” di Giulianova fa una donazione al blog

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Sono profondamente commosso per la donazione che ho ricevuto per il blog da parte di Roberto, Marisa, Chicco e tutti gli altri amici del Circolo Culturale e Virtuoso “Il nome della rosa” di Giulianova. E’ stato un pensiero gentile e prezioso (voi sapete che per le casse del blog, anche una donazione corrispondente a una tazzina di caffè al bar è determinante) che mi permette di togliere almeno una pubblicità dal blog e di alleggerire, così, il carico dei banner visibili. E’ già qualcosa (“etwas ist etwas” direbbero i tedeschi, e gli spagnoli “algo es algo”) e il dono di questi cari amici sottende molto di più, amicizia, stima, comprensione ma soprattutto credere fortemente che uno strumento come un blog sia molto più di un modo per cazzeggiare on line e parlare di cose più o meno frivole, ma che rappresenti, al contrario, l’unico mezzo che si ha per dire la propria a un pubblico indeterminato di persone. E allora non mi resta che dire che “Il nome della rosa” di Giulianova è da sempre sinonimo di incontro, cultura, dibattito, musica, arte, corsi, corsi di formazione, presentazione di libri, mostre e persino un mercatino di Natale o un torneo di Subbuteo. Se siete di Roseto, Giulianova o dintorni fateci un salto. Troverete ad accogliervi un patrimonio inestimabile di umanità, scambio di idee e bevande (anche analcoliche, che credete? Roberto e Marisa sono democratici!) con cui allietare una serata diversa o da sfruttare per fare semplicemente quattro chiacchiere.

E se seguiste l’esempio di questi amici e faceste una donazione non fareste altro che del bene a me e alla comunità, infingardi!

Il sito del circolo è: http://www.ilnomedellarosa.com/

Per un pugno di rape (mani in alto, è una rapina!)

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Qui in Abruzzo càpita spesso che la gente abbia un orticello da coltivare per gli usi più comuni e quotidiani e per sopperire ai bisogni familiari di frutta e verdura.

Quando parlo di “bisogni familiari” e di “usi comuni e quotidiani” intendo quantitativi spropositati ed enormi di produzioni di frutta e ortaggi, perché in Abruzzo, si sa, potrebbe sempre scoppiare la terza guerra mondiale, non si sa mai, si potrebbe verificare una catastrofe naturale o una carestia di dimensioni bibliche, per cui d’estate non si coltivano i pomodori solo per trinciarli ad insalata, mangiarli assieme alla mozzarella, fare qualche barattolino di sugo per l’inverno, no, macché, file e file di pomodori che non finiscono più, e tu vài, annaffia, acqua, acqua in quantità, raccogli, raccogli, cassette di pomodori come se piovesse, e dài così che la pummador’ è la pummador’ e magna qua, magna là, tutto come se non ci fosse un domani, perché se non si ragiona almeno in termini di chili di roba ci si sente male.

Un uso nobile che si fa del raccolto delle verdure e della frutta di stagione, tuttavia, è il regalarle a parenti, amici e vicini. Lo si fa, ovviamente, per vantare presso altri la bontà del proprio prodotto (si sa, l’oste decanta il suo vino anche se fa schifo), per provocare invidia (ma vàrda, a Giuànne so’ venuti certi pommadore come meloni!!) e per fare un po’ di public relations. Il vicinato ringrazia sempre con “Oh, ma guarda qui che belle verdure!!” e poi se tutto va bene le butta. Oppure le mangia ma non ti fa sapere niente, neanche se erano buone, perché, si sa, in Abruzzo puoi vivere tranquillamente ma nessuno ti darà mai una soddisfazione che sia una. Devi morire, devi schiattare. Di invidia, di rivalsa, di indifferenza ma t’ha da murì’

E così succede come è successo a mio suocero l’altro giorno. Nei suoi scambi verduristici con gli amici, si è ritrovato tra le mani una cassetta di rapini (io li conosco come “rapini”, sono delle rape verdi, più simili alle cime di rapa pugliesi, ma non stiamo lì a sottilizzare) che ha pensato di regalare a un vicino di casa. Allora gliele ha messe davanti alla porta di casa, sulla pubblica via, visto che il vicino, disgraziatamente per lui, in casa non c’era. Quando il vicino è rientrato la cassetta dei rapini non c’era più. Ah, tragedia, ah, catastrofe! La cassetta delle rape era stata vigliaccamente sottratta ai legittimi proprietari da qualche passante in macchina che si era fermato, l’aveva caricata a bordo e se n’era andato tra l’indifferenza generale. Ma che cazzo se ne fa la gente di una cassetta di rapini? Capisco che a qualcuno possa venir voglia di mangiarsi un contorno un pochettino più sfizioso, ma con una cassetta intera che ci devi fare, te le devi rivendere al mercato a due lire?? Ma no, è una sorta di senso atavico del pericolo. Intanto uno si mette in casa una cassetta di rapini che è meglio di niente, ha rimediato la cena perché, appunto, metti che a qualche disgraziato venga in mente l’idea di fare un colpo di stato e di ripristinare il tesseramento dei viveri, una cassetta di rapini fa sempre comodo. L’idea è quella di avere, avere sempre più cose, possibilmente a costo zero e senza faticare.

Io pensavo che al giorno d’oggi si rubassero le automobili, i cellulari, si facessero le rapine negli appartamenti (a uno dei medici che mi ha operato hanno recentemente scavato un buco nel muro e sono entrati nella sua villa per portare via poche cose di scarso valore), insomma, una visione nobile del ladro e del rapinatore. Ma una cassetta di rape è una cassetta di rape, perdìo, che ti metti a fregarla alla gente? Siamo a livello della follia più pura. E’ una stupidaggine estrema. E’ un furtarello da dilettanti. E’ un dispetto. In breve, è una rapina.

Roseto degli Abruzzi 2: Quando c’era ancora il Sor Marchese

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A Roseto degli Abruzzi una volta c’era il Sor Marchese. Era un localino carino, in piena nazionale, con qualche tavolinetto fuori, per cui se volevi fare due chiacchiere, beccarti un po’ di smog, mangiare qualcosa a base di carne di scottona, berti una birra artigianale, tirare due bestemmie per le carrozzine e le madri che invadevano il marciapiede, potevi farlo tranquillamente. Ed era un posto piacevole, dedicato al Marchese del Grillo anche nel nome delle vivande che venivano servite, così mangiavi qualcosa e ti ripassavi anche i personaggi del film.

Ecco, adesso il Sor Marchese non c’è più. Al suo posto per qualche tempo, sotto le elezioni, c’è stata una sede del Movimento 5 Stelle. Ora se ne vede ancora il cartello-insegna. Ma a me piaceva la scottona. E anche il Sor Marchese.

Roseto degli Abruzzi 1: Le luci accese in pieno giorno

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A Roseto degli Abruzzi, in questo piccolo mondo di un mondo piccolo, per dirla sempre con Giovannino Guareschi, buonanima. il Comune deve avere fior di quattrini da spendere, se è vero, come è vero, che oggi i lampioni erano ancora allegramente accesi mentre c’era un sole della madonna che abbagliava lo sguardo degli ignari passanti (ignari soprattutto del fatto che i propri danari, versati sotto forma di tasse, vengono spesi inutilmente nelle forniture di energia elettrica per illuminare un paese  che è già illuminato naturalmente, e allora, voglio dire, sarebbe inutile anche l’ora legale, ma ora è il caso che questa parentesi la chiuda perché sta per diventare troppo lunga).

Ringrazio di cuore l’automobilista che mi ha fermato per chiedermi delucidazioni (che, ovviamente, non ho saputo dargli) e che mi ha spinto a fare una fotografia, che io pensavo fosse venuta un troiaio, e invece guarda te bellina.

Giulianova: studente marocchino di 17 anni accoltellato da un compagno di scuola

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A Giulianova (a pochi chilometri da questo piccolo mondo d’un mondo piccolo da cui vi scrivo), questa mattina, in un istituto superiore della cittadina, un diciassettenne marocchino ha fatto lo sgambetto a uno studente diciottenne più che italiano. E siccome lo sgambetto deve essere uno sgarro estremo, uno di quelli che si lavano col sangue, l’italiano il sangue lo ha fatto scorrere davvero, colpendo il marocchino al volto con un coltello a serramanico di quelli che non si possono portare. Pare che tra i due ci fossero degli screzi da tempo e che quello sgambetto sia stato solo la punta dell’iceberg di una serie di provocazioni e sfottò. In breve, l’accoltellatore si era premunito. A modo suo, naturalmente.

Le reazioni sono state delle più disparate, ma quello che negli ambienti scolastici si mormora e si sussurra è una sorta di solidarietà di specie con chi ha colpito: la vittima è uno straniero, un marocchino, quindi in un certo senso se l’è meritata per diritto di nascita, insomma. Se la vittima fosse stata l’italiano ci sarebbe stata la corsa all’immigrato violento ecco, non si può più vivere nelle nostre tranquille cittadine, ci portano via il lavoro, l’Italia agli italiani e via luogocomuneggiando. Insomma, come la si mette la si mette, il marocchino lo prende in quel posto. Oltre, è chiaro, ad aver rimediato un intervento chirurgico e una lesione che probabilmente avrà conseguenze per tutta la vita.

Ma quello che colpisce è una dichiarazione del Preside riportata dal quotidiano “Repubblica” e che ho sentito confermata, nella sostanza, in un contributo al GR1 delle 9,30 di stasera: “Al di là del sanzionare bisogna capire. (…) I Carabinieri stanno svolgendo le indagini. Da quanto si dice informalmente pare che i due ragazzi avessero avuto degli screzi fuori dalla scuola. Nulla, invece, mi è mai stato riferito di eventuali problemi dentro la scuola.” Bisogna capire, dice il prof. Valentini e forse in un certo senso può non avere tutti i torti. Ma bisogna mettersi d’accordo sul COSA dobbiamo capire, in primo luogo e a che cosa ci serve questa comprensione.
Il contesto è chiaro: ci sono due giovani che fino a una settimana fa gli insegnanti più in evidenza della scuola italiana avrebbero infilato in quella categorizzazione orrenda e senza senso che va sotto l’etichetta di “i nostri ragazzi” che sono arrivati alle vie di fatto rovinandosi la vita. Uno perché sarà sfigurato per sempre, l’altro perché, ancora per sempre, avrà la fedina penale macchiata, (per tacere della pubblica reputazione, che sa essere assai più stronza del casellario giudiziale). Potrà indubbiamente essere utile a chi deve giudicare il feritore, sapere da quale contesto familiare proviene (e te dàgli con questa roba del “contesto”, parola che ha rovinato generazioni intere negli anni ’70!), sapere che del fatto che aveva un coltello di cui era vietato il porto non aveva parlato con i genitori; sapere che era un ragazzo che si era sentito minacciato più e più volte dall’altro che si divertiva a fare il bulletto a scuola per cui avrà temuto per sé e, a un certo punto, avrà deciso di farsi giustizia da solo; sapere che c’era di mezzo una ragazzina contesa tra i due che potrebbe aver accelerato l’inimicizia ed essere arrivata al culmine con il proverbiale sgambetto che ha fatto sì che si lavassero tutte le onte subite e subende.
Servirà anche a qualcosa saperlo, ma la verità è che non serve a niente, perché i fatti restano e quelli sono incancellabili. Non si può tornare indietro. Ci sono un aggressore e un aggredito, un colpevole e una vittima, un sacrificante e un sacrificato, un “buono” e un “cattivo” e sono ruoli che nessun consiglio d’istituto potrà mai più capovolgere, sia pure per offrire letture più o meno edulcorate degli eventi.

E allora sgomberiamo il campo anche da un altro luogo comune, quello che vuole che esista un “fuori dalla scuola” e un “dentro la scuola”. Le questioni scolastiche sono, sic et simpliciter, questioni sociali. Punto. La scuola non è e non dovrebbe essere il luogo dove tutto è perdonato e dove le sanzioni si limitano a qualche giorno di sospensione e una tiratina d’orecchie verbale davanti al consiglio di classe e innanzi alla mamma in lacrime con la promessa di non farlo mai più (“Franti, tu uccidi tua madre!“, scriveva il De Amicis), la scuola è una ruota dentata di fondamentale importanza nel macchinario da “Tempi moderni” che è rispecchiato dalla nostra società. Il problema, dunque, ha connotazioni sociali perché ha connotazioni scolastiche ben precise. Non sarebbe successo niente di diverso se lo studente marocchino fosse stato colpito sulla pubblica piazza anziché a scuola, a parte il caso che in quell’eventualità la scuola avrebbe potuto ricorrere al “non expedit” e chi si è visto si è visto. Ciò che accade a scuola è un modellino funzionale della realtà, e la scuola non vive di regole proprie. Per fortuna.

E allora ognuno si terrà, inevitabilmente, il suo: chi una cicatrice profonda mezzo metro coi denti rotti, chi una condanna che nessuno potrà eludere, chi l’amarezza di non essere riuscito a salvare questi due ragazzi. Ed è comunque un male minore.

Giornata della Memoria: a Roseto degli Abruzzi la citazione di “Auschwitz” senza la citazione di Francesco Guccini

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E’ il Giorno della Memoria, e l’amministrazione comunale di Roseto degli Abruzzi (questo piccolo mondo di un mondo piccolo, come avrebbe scritto il Guareschi) ha voluto ricordarlo con un manifesto celebrativo.

Nobile iniziativa, a cui deve andare un plauso quasi incondizionato. Dico “quasi” perhé l’affissione riporta, tra gli altri elementi (qui ve ne faccio vedere una sezione) una citazione dalla celeberrima canzone “Auschwitz”. Per la verità sono due segmenti di canzone “incollati” insieme, ma cerchiamo di non essere troppo severi su queste quisquilie. Quello che colpisce è la citazione dell’autore della citazione, che per l’ideatore del manifesto sarebbero i Nomadi.

Ora, va detto che i Nomadi furono, questo sì, gli interpreti del brano, ma che il pezzo è stato firmato interamente (parole e musica) da un giovanissimo Francesco Guccini, ed era lui quello che meritava la citazione per intero. E’ come aver citato “Insieme a te non ci sto più” e aver citato Caterina Caselli al posto di Paolo Conte. O come aver riportato le frasi di “…e dimmi che non vuoi morire” evidenziando il nome di Patty Pravo e non quello di Vasco Rossi.

Piccoli pasticci, per carità. Nulla di che. Solo che una citazione non corretta sa un po’ di sciatteria. E forse il Giorno della Memoria non se lo merita.

Ester Pasqualoni uccisa a coltellate nel parcheggio dell’ospedale di Sant’Omero

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Ester Pasqualoni, oncologa, persona di straordinario spessore umano, civile e culturale,  è stata uccisa.

Voi non la conoscevate, ma io sì. La vidi per la prima volta il giorno dei ricevimenti generali dei genitori per la classe di suo figlio, che avevo alle Scuole Medie. Diventammo subito amici, tanto che lei mi chiese di farle delle traduzioni dallo spagnolo perché da Cuba le erano arrivati dei documenti da parte di alcuni ciarlatani che andavano ciaqnciando che il veleno degli scorpioni cubani era efficace nella cura dei tumori e avevamo deciso di sgominarli sputtanandoli su questo stesso blog. Poi non se ne fece di niente per motivi che non mi piace stare qui a ricordare.

Mi ha curato quando ne ho avuto bisogno (anche se non era per patologie oncologiche, fortunatamente) e, sempre quando ho avuto necessità, mi ha messo nelle mani dei suoi colleghi migliori e più stimati.

Ci sentivamo ogni tanto. L’estate scorsa ci siamo visti diverse volte con la bambina (mia figlia, sì). Insomma, le volevo bene, e devo dire che voler bene a Ester era facile. Anche e soprattutto quando morì Fabrizio, il suo compagno.

Oggi è stata presa a coltellate da uno stalker che aveva preso a perseguitarla e che lei aveva denunciato due volte. Stava andando a prendere la sua auto al parcheggio dell’ospedale in cui lavorava (Sant’Omero). Pare che non abbia neanche sentito dolore e che sia morta sul colpo. Stupide e magre consolazioni.

Non è vero che gli stalker vanno denunciati e basta, perché denunciarli non serve a nulla, se non a incattivirli e a renderli ancora più tenaci nella loro azione persecutoria. Vanno denunciati e identificati subito e messi nelle condizioni di non nuocere. A cosa è giovato a Ester avere presentato due segnalazioni alla magistratura se poi queste segnalazioni -secondo quanto riferisce Caterina Longo,  un’amica, già candidata alle elezioni europee del 2014 nelle file di Forza Italia, lista “Berlusconi per Chiodi”, all’agenzia ANSA e in una successiva intervista a Radio Capital- sono state archiviate per difetto di forma (anche se “la 27a ora” sul Corriere on line riferisce che un provvedimento di allontanamento era stato firmato per poi essere revocato)  e non si è arrivati a nessuna misura di interdizione di qualsivoglia tipo nei confronti del persecutore? Ester si è affidata allo stato, chiedendo aiuto e protezione. Oggi è morta. E c’è da chiedersi fino a dove deve spingersi un energumeno per essere “attenzionato” (bruttissima parola!) al punto da diventare un oggetto di indagine, e non essere lasciato libero di seguire la propria vittima fino nel parcheggio di un ospedale e sgozzarla.

E adesso immagino il prudor scribendi dei pennivendoli da giornalino locale, che si beatificheranno l’anima lorda di congetture pruriginose, fare uso del termine “Femmincidio”, un brutto linguaggio per una brutta storia, ma sì, ne succedono tante, merita il primo piano, e quindi perché non sprecarci una parola che va tanto di moda, che, specialmente con “stalker” è un abbinamento che va sempre bene nei pranzi luculliani di fame da notizia pruriginosa della gente?

Ma è una storia che vale solo due colonne su un giornale. Ce ne sono tante. Andiamo, su, via…

Screenshot di una porzione della notizia riportata dall'agenzia ANSA
Screenshot di una porzione della notizia riportata dall’agenzia ANSA

Note del 22/06/2017: Questo post viene aggiornato e modificato in tempo pressoché reale. Scusate. Il presunto assassino di Ester Pasqualoni, secondo quanto riferisce il giornale radio regionale di Radio Uno alle 12,10, è stato ritrovato in fin di vita nella sua abitazione (ma “La Stampa” riferisce più genericamente che si trattava di “un appartamento”) di Martinsicuro. Spero che i medici facciano di tutto per salvarlo per poterlo vedere a difendersi dall’accusa di omicidio premeditato in un pubblico dibattimento e davanti a un giudice terzo.

Il Fatto Quotidiano riferisce che “la Pasqualoni aveva presentato al commissariato di Atri non una denuncia per stalking, ma un esposto, a inizio 2014.” e che “All’esposto erano seguiti degli approfondimenti e il successivo ammonimento del questore.” Successivamente, “ad aprile 2014 quando, trovandosi a camminare per Roseto degli Abruzzi, dove risiedeva, aveva chiamato i carabinieri segnalando che l’uomo era passato con l’auto e sembrava la stesse riprendendo. A quel punto, proprio a fronte dell’esistenza del provvedimento di ammonimento, i carabinieri di Roseto avevano fermato l’uomo, sequestrandogli la telecamera che aveva in macchina, e trasmesso un fascicolo in Procura.” Dopo la convalida del sequestro, il PM a cui era passata la pratica “aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo che era stata comunicata anche alla parte offesa che avrebbe fatto, tramite il suo legale, richiesta di accesso agli atti ma nessuna richiesta di opposizione.” Il giornale aggiunge che “Dopo l’archiviazione del fascicolo da parte del gip, nessun’altra denuncia. Il provvedimento di ammonimento tuttavia era ancora in corso, non essendo mai stato revocato.”

Nota del 23/06/2017: E invece il formalmente ancora presunto assassino di Ester Pasqualoni è morto. Così non ci sarà nessun processo (il reato è estinto per morte del reo) e nessuno pagherà. Tristezza nella tristezza. Con questa nota chiudo gli aggiornamenti di questo post: sono stati ben 14 in meno di due giorni. Adesso lo do per definito e definitivo. Su una cosa mi sono sbagliato, che questa storia (e avevo ripreso i versi di una canzone di Guccini) non valeva due colonne su un giornale. E invece sono stati tanti i giornali (anche a tiratura nazionale) che se ne sono occupati. In un solo giorno soltanto questo post (che è l’ultimissima ruota del carro) ha totalizzato più di duecento visualizzazioni. Oltre alle notizie ci sono stati gli approfondimenti e perfino gli accessori inutili (come quelli del GR3 Regionale dell’Abruzzo che ha insistito su alcuni aspetti della vita affettiva di Ester, aspetti del tutto estranei alla vicenda della sua tragica e assurda morte). Solo che da oggi non se ne parlerà più. Basta. La notizia ha esaurito il suo effetto dirompente, non “rende” più ascolti, l’audience si è progressivamente andata esaurendo ed è sparita dalle home page dei giornali più consultati. Andiamo, su, via…

Screenshot da corriere.it con l'indicazione dell'avvocato Caterina Longo secondo cui l'ordine di allontanamento nei confronti dell'aggressore sia stato revocato.
Screenshot da corriere.it con l’indicazione dell’avvocato Caterina Longo secondo cui l’ordine di allontanamento nei confronti dell’aggressore sia stato revocato.

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Roseto: il culo come volontà e rappresentazione

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Un culo è un culo. E un culo che sia un culo si chiama “culo” proprio perché è un culo. Non si chiama “lato B” o “le terga”. O “sedere”, giusto per addolcire.

Ciò premesso, accade anche in questa Roseto, piccolo mondo di un mondo picccolo come la chiamerebbe Giovannino Guareschi, in questa ridente cittadina che sempre meno ha da ridere, che un consigliere comunale, nonché segretario locale del PD, tale Simone Aloisi posti (“un po’ per celia un po’ per non morir”, direbbe la Butterfly) su Facebook un selfie che lo ritrae sdraiato su un lettino, con accanto un culo femminile altrove definito “scultoreo” (per noi è un culo e basta). Pochi minuti e il popolo di Facebook, che, si sa, è implacabile sia quando dà dei giudizi positivi che quando dà dei giudizi negativi, si è tuffato a mani basse a difendere il consigliere comunale, oppure a stigmatizzare il contenuto sessista dell’immagine. Alla fine le spiegazioni di Aloisi: “Noto che da uno scherzo tra amici si è scatenato un polverone più grande del previsto, ovviamente chiedo scusa se ho potuto urtare la sensibilità di qualcuno ma di certo non era questa la mia intenzione, è chiara una cosa: il mio ruolo mi impone di mantenere un certo self-control, da oggi in poi cercherò di ricordarmelo. Non ho intenzione di cambiare per colpa della politica, continuerò a scherzare come ho sempre fatto”. Insomma, scherzava e poi, come spessso succede, il gioco gli è sfuggito di mano. Tanto che, adesso, pentito, il post è stato rimosso dal suo profilo Facebook (già, ma se scherzava e se non trova nulla di male in quello che ha fatto perché non l’ha lasciato?).

Fin qui i fatti. Per carità, può capitare a tutti “un momento di fosforescenza” (come scriveva Eduardo De Filippo in “Napoli Milionaria”) e di goliardia senza freni. E, in fondo, dicevamo, non c’è proprio nulla di male in quello che ha fatto l’esponente locale del PD. Già, è vero: non c’è niente di male. Ma non c’è nemmeno niente di bene. Voglio dire, che valore ha una azione di questo genere? Nessuno. Non è una cosa morale o immorale, no, è una cosa del tutto a-morale, che non ha un perché, non ha una causa, non ha una spinta all’origine, non ha niente di niente se non l’effetto dirompente di provocare delle reazioni (ma, in fondo, mi viene da pensare che la bravata sia stata organizzata a bella posta proprio per questo, per vedere di nascosto l’effetto che fa). In fondo tra fotografarsi con un culo a fianco e andare in giro vestite di tutto punto, attopatissime, con un tacco veriginoso, l’andatura ancheggiante e il seno strippato al punto di esplodere, non c’è molta differenza. Tutti e due gli atti hanno un solo scopo finale: quello di essere guardati.

E allora scatta la domanda successiva: cosa me ne frega a me di con chi vai a trascorrere una giornatina sul mare e se questa amica ha, per inciso, un gran bel culo? Ma saranno ben affari tuoi e del tuo privato. Io cosa c’entro? Io mi trovavo su Facebook a leggere il tuo profilo perché, oltretutto, c’è la non piccola discriminante che sei un personaggio pubblico. Tutto lì. Invece mi ritrovo questo cupolone che non dice nient’altro che “Guardami, sono qui.” Va bene, lo vedo che ci sei, e allora?? Niente, nessuna risposta oltre alla mera e banale constatazione dell’esistenza.

La rete, per fortuna, ha la memoria lunga. Ma anche i rosetani che vanno a votare a volte non scherzano.

 

A distanza di pochi minuti dalla messa in linea di questo articolo, l’amico Pasquale Bruno Avolio mi comunica che il post originale non è stato rimosso da Facebook (grazie, prendo atto e correggo) e che la proprietaria del culo ha rivelato coram populo la sua identità. Prendo atto anche di questo e mi nauseo.

Forse non lo sai ma pure questo è amore

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E lui che t’ha portato via la donna che amavi d’un solo colpo. Un incidente, dicevano.

E lui che è ancora lì, in giro per il paese, dopo sette mesi. Sette mesi in cui hai covato una rabbia antica, un rancore infinito e la voglia di stenderlo una volta per tutte. Sette mesi in cui hai pensato e ripensato. Ne hai studiato le abitudini, i movimenti, i vizi. Lo hai pedinato e lo hai guardato in faccia, lui, l’assassino. Una, cinque, dieci, venti volte, non importa quante, serviva per imprimerti bene nella mente la faccia dell’imperdonabile.

E lui esce dal bar. E la pistola è lì, nel giubbotto. Puoi sentirla, fredda e quasi impersonale. Ma sai che non sbaglierà. Qualche parola, niente di più. E poi spari. E spari, spari e ancora spari.
E lui cade a terra. Chissà se ha avuto il tempo di pensare a qualcosa o a qualcuno. Prima c’era, adesso non c’è più.

E lui, che nessuna giustizia umana adesso potrà più condannare, è stato condannato dalla tua vendetta.

Forse non lo sai ma pure questo è amore.

Avevo una banca

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creditocooperativo

Eh sì, io una banca ce l’avevo.

Era la Banca di Credito Cooperativo dell’Adriatico Teramano, filiale di Roseto degli Abruzzi, nuova sede in via Nazionale.

Avevo un conto corrente, una splendida carta bancomat, ci avevo appoggiato una carta di credito, mi davano anche due lire di interessi, insomma, si campava.

Poi ieri sulla stampa locale è apparsa la notizia che alcuni dirigenti della banca sono stati rinviati a giudizio per “usura” (riporto testualmente il termine utilizzato dalla civetta de “il Centro”, disconoscendo, al momento, l’esatta denominazione della fattispecie penale contestata).

Beh, non è una bella cosa. Certo, un rinvio a giudizio non è una sentenza definitiva passata in giudicato (e ci mancherebbe anche altro) ma i soldi sono miei e permettete che me ne preoccupi.

Così, oggi pomeriggio mi presento davanti alla mia ormai ex banca, aspetto che apra, faccio la fila, mi siedo davanti all’impiegata (una ragazza davvero splendida e molto capace) e dico che la cosa è imbarazzante, ma io vorrei chiudere il conto.

Mi aspettavo che mi dicesse “aspetti un momento… non ho capito… forse è meglio se…” temporeggiando e cercando di esperire fino all’ultimo tentativo possibile per mantenere il cliente. Invece ha attivato la procedura da computer, mi ha chiesto un po’ di dati (ad esempio su quale altro conto corrente desiderassi che venissero versate le cifre residue), ha esitato un momento con un “forse dovrei avvertire la direttrice” (cosa che in effetti ha fatto) ma sostanzialmente la mia richiesta di chiusura conto era stata quanto meno avviata. E pensare che una banca dovrebbe essere interessata a trattenerseli i clienti, non a lasciarseli sfuggire ad ogni frusciar di avviso di garanzia!

Comunque WoW che efficienza! E in breve tempo ho anche il feedback della direttrice che dalla sua stanza mi fa sapere per interposta persona di essere molto dispiaciuta. E va beh.

Poi però la direttrice viene a parlarmi alla cassa. Mi dice che non ci sono problemi, che i miei soldi sono assolutamente garantiti (fingendo di non sapere o, peggio, non sapendo proprio per niente che il mio problema non era la garanzia del denaro, ma di come questo venisse impiegato dalla banca) e che comunque era solo un rinvio a giudizio (in un altro paese i vertici di una banca si dimetterebbero per molto meno), non c’era ancora una sentenza, neanche di primo grado, per cui tutti presunti innocenti.
L’ho guardata col candore che tradizionalmente mi contraddistingue e le ho chiesto “Lei ha dei figli in età scolare?” Mi guarda con occhi compassionevoli e mi dice “Ma certo, a uno ha insegnato proprio lei.” Eh, lo so, il tempo passa e io mi rimbambisco. Vorrei dirle una cosa a cui tengo molto. E cioè che lo so benissimo che sono tutti innocenti (o, meglio, PRESUNTI innocenti) fino a sentenza definitiva passata in giudicato, ma se nelle scuole dei suoi figli uno dei loro insegnanti venisse accusato e rinviato a giudizio per, per esempio, detenzione di materiale pedopornografico, sarebbe comunque presunto innocente anche se non si è celebrato alcun processo (anzi, magari PROPRIO per questo), ma se decidesse di ritirare i propri figli dalla classe o dalla scuola la capirei.
Volevo dirglielo ma le ho detto solo che non avevo niente da dirle. Cioè la verità.

Me ne sono andato con una banca in meno e una valanga di soddisfazione in più.

Ju tarramutu

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sismografo

Ju tarramutu è come una vecchia pubblicità di Natale, “quando arriva arriva”.

Ju tarramutu ormai è una vecchia conoscenza. Quasi un amico. Tra i vecchi c’è chi prova a misurare l’intensità delle scosse scommettendoci sopra, come fosse un gioco. E ci riescono meglio di Richter. “L’hai sentita, questa? Questa era da tre!!”

Ju tarramutu si ripete. Una, due, tre, quattro volte. “Eh, queste saranno da cinque, almeno!”

Ma ti fa paura, ju tarramutu. Risveglia ricordi mai sopìti e ti lascia addosso sempre e comunque una neanche troppo leggera sensazione di nausea. Quella ce l’hanno tutti. Sia chi si sente tremare la terra sotto i piedi che chi guarda il lampadario dondolare su per aria. E’ il minimo comune denominatore, è il prezzo da pagare. E’ ju tarramutu.

Passa e va ju tarramutu. Se ne frega di te e del dolore che ti ha lasciato. “Povera gente, e ora che si fa?” Non c’è più nulla da fare se non illudersi che sia passato. Perché lo sai che tornerà, che non ti lascia solo, che tornerete a incrociare gli sguardi. Tu, la tua paura, il tuo mutismo, la tua rassegnazione e lui, ancora lì, che ormai non lo chiami più neanche per nome, ju tarramutu.

Pork Day

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Un grido continuo, straziante e spaventoso si sta diffondendo in questi giorni per le campagne d’Abruzzo.

Di casa in casa, di porta in porta, di dolore in dolore, come la strage dei primogeniti descritta nell’Esodo, come la strage degli innocenti di Erode. E’ il “Pork Day”, giorno di sangue, giorno di sgozzamento del porco, mattanza, strage. Perché nei giorni dell’Immacolata lu porc’ s’ha d’accije e non ci son santi che tengano.

La bestia, quando viene avvicinata per essere costretta, di lì a poco, a sognare le sue ultime ghiande, sente che la vita sta per sfuggirgli e che quel suo mondo ristretto di fango, trogolo, merda e grugniti dovrà lasciarlo restituendo al padrone tutto quello che in un anno gli è stato somministrato sotto forma di mele marce, avanzi, pannocchie di granturco, rifiuti, màgna, màgna, màgna porc’ che poi c’è chi mangia te.

Per il momento in cui il porco passerà a miglior vita tutto deve essere pronto. L’abbigliamento deve essere il più dozzinale possibile, ma caldo, perdìo, perché l’inverno si avvicina. Quindi saranno privilegiati vecchi indumenti di flanella a collo alto e con la cerniera, utili soprattutto perché il grasso della malabestia andrà ad impregnare le fibre e, reagendo chimicamente con il sudore che impregna le ascelle dell’uccisore o dello spezzatore, restituirà nell’ambiente un inconfondibile e persistente odore di rancido.

Nulla deve essere lasciato al caso durante il Pork Day. Una volta che l’animale avrà levato al cielo il proprio supplicante ultimo grugnito dev’essere squartato, eviscerato, sgrondato del sangue e appeso per un giorno. C’è anche chi va a vederlo, come se si trattasse dell’ultima visita al caro estinto nella cella frigorifera dell’obitorio.

Poi la spezzatura. Il maestro spezzatore (che dalle mie parti era lo zio Nicola) ha con sé tutti i coltelli perfettamente affilati e prima della sua incisione iniziale nelle carni si accerta che non manchi niente. Il sale in primo luogo, ed esistono dispute di  carattere filosofico-culturale sul fatto che sia migliore il sale dei monopòli di Stato che ha comprato lu cumpare Ninucc’ piuttosto che quello acquistato al supermercato dallo zio Berardo che ha avuto l'”occasione”. Si devono avere, inoltre, pepe e peperoncino in abbondanza, con spargimento di starnuti e lacrimazioni a iosa. Perfino sulla scorza d’arancia (che serve per le salsicce) c’è poi da ridire, chè troppo aromatica nun va ‘bbona e troppo legnosa nemmeno.

Così, quella che era una besta grugnente e senziente viene trasformata in cibo da conservarsi per tutto l’anno. Particolare cura dovrà essere tributata al prosciutto e alle lonze, perché dovranno essere fatti assaggiare agli ospiti di riguardo una volta stagionati, in ossequio alla tradizione che vuole che si instauri una sorta di gara tra vicini di casa che fanno a chi ha il prosciutto più buono, quello meglio stagionato, no troppo pepe, il tuo non si è asciugato bene, come ti permetti, ritira le parole, chè il prosciutto è la parte più nobile del porco, e sentirsi dire che non è venuto bene è un’offesa che si lava col sangue. Figuriamoci poi se si guasta! Un prosciutto guasto, in Abruzzo, è segno premonitore di sette anni di carestia, nove di siccità e vento freddo dal Gran Sasso per tutta la vita a congelare i pensieri.

Le salsicce si dividono in salsicce di carne (quelle con la suddetta arancia), salsicce di fegato e salsicce di cotica.
La salsiccia di cotica è la più delicata delle tre. Si mischia la carne magra con la cotica raschiata e sbollentata (ma non deve risultare troppo molle, se no fa schifo, anzi, sotto i denti deve mostrarsi “tostarella”), sale, pepe e peperoncino (sì, ci vogliono tutti e due!) ma se sbagliano le dosi lo spezzatore abruzzese si farà hara hiri, perché segreto di una buona salsiccia di cotica è l’equilibrio tra gli ingredienti e quella consistenza un po’ collosa. La tragedia massima per è quella di rinvenire un peletto del compianto porco nel salsicciame, il che vuol dire che le cotiche non sono state pulite a dovere, onta & disonore!
Quanto alla salsiccia di fegato, anche qui ci sono due scuole di teologia di orientamento opposto, c’è chi dice che sono migliori quelle del teramano, ma il mi’ nonno Raffaele (sì, perché ciavevo anche un nonno Raffaele io) batteva tutti: salsiccia di fegato aquilana, bella stagionata, col peperoncino tritato grossolanamente e una puntina di aglio. Ti faceva sentire il paradiso.

Lo spezzamento deve per forza di cose esaurire tutte le energie di chi vi partecipa. Se non rientri a casa stramazzato dalla fatica non hai reso al porco il giusto tributo alla sua misera vita. E quando ti sdrai sul divano stremato a guardare il TG Regionale condotto da Donatella Speranza, pensi che sì, è proprio il caso di “rimetterlo”, lu porc’, ovvero di comperare la bestia che andrà ad ingrassare per un anno intero e sostituire la buonanima.

Màgna, màgna, porc’!

Tomato Day

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Si è conclusa in tutte le ridenti località dell’Abruzzo Ulteriore e Citeriore la stagione del Tomato Day.

Il Tomato Day altro non è che la giornata intieramente dedicata alla produzione della conserva di pomodoro, conserva che avrà da bastare per tutto l’anno e possibilmente avanzare, in modo da poter raccontare a amici, vicini e parenti che “so’ fatt’ li pummador'” ma ce n’erano ancora 120 bottiglie dall’anno scorso, dunque l’autonomia era garantita, nel caso malaugurato che si presentasse a pranzare al proprio desco l’esercito della Battaglia di Custoza.

Tutto deve essere fatto in grande stile e in grande quantità perché non si sa mai, potrebbe sempre scoppiare un conflitto termonucleare globale, e allora via, pomodori a quintalate e sveglia alle cinque per la brava ed operosa massaia abruzzese, perché a farne di meno e a levarsi più tardi non si soffre abbastanza e non si espia completamente la colpa di stare al mondo.

Protagoniste incontrastate del Tomato Day, accanto al pomodoro che giace nelle più svariate forme e specie nelle cassette ammonticchiate, sono le bottiglie. Le bottiglie sono state messe da parte tutto l’anno, chè non si butta via niente, nossignori, che cazzo vuol dire “raccolta differenziata”? No, le bottiglie si riusano, sissignori, e una volta si riusavano anche i tappi, con cui la passata veniva sigillara una volta riempita la bottiglia che poteva essere di ogni tipo: frequentissima e ambitissima quella da 2/3 di birra col vetro scuro, ma non si buttan via nemmeno quelle da succo di frutta, ottime per una passata di pomodoro monoporzione (i single aumentano, qui in Abruzzo!). Una volta vidi perfino una bottiglia da liquore (uno di questi amari di qualche eremo sperduto, fatto con le erbe medicinali e officinali dei fraticelli zoccolanti) col tappo a vite.

E poi si comincia. Si badi bene: la giornata scelta per il Tomato Day ha da essere maledettamente CALDA, per aumentare vieppiù la sofferenza connessa al lavorare dalla prima mattina al tramonto.

La catena di montaggio tra chi pulisce i pomodori, chi li passa nella macchinetta (preferibile quella a mano rispetto a quella elettrica, perché non s’ha da risparmiare il patimento), chi travasa la polpa dalla tinozza di plastica per il tramite di un imbuto nelle bottiglie e chi le tappa deve essere perfettamente sincronizzata.

E via fino alla sera, con una sola pausa per il pranzo (parco, perché s’ha da patire!), col pomodoro come unico oggetto di interesse, col sugo che schizza da tutte le parti, e i semi che ti entrano ovunque, nei vestiti, tra i capelli, in mezzo alle dita dei piedi, e vài, cira, raccatta, imbuta, tappa. Bottiglie, bottiglie messe da parte, una dietro l’altra, con solenne voglia di farsi del male, perché esisteranno anche Pomì, Pomodorissimo, Polpa Pronta e Polpa Bella che forse costeranno anche meno rispetto a tutta quella mole di lavoro, ma noi non ci si fida e, soprattutto, s’ha da farci hara hiri coi San Marzano.

Giunti all’ultimo tappo c’è qualche masochista che propone di ripassare dalla macchinetta le bucce di primo scarto, onde spremerne il sugo fino all’esasperazione. Poi si passa alla bollitura.

La bollitura è una operazione complessa e ne va del proprio onore. Se durante la bollitura anche una sola delle centinaia di bottiglie ottenute si schianta, questo costituisce un’onta incancellabile, peggio di una condanna all’ergastolo per triplice omicidio premeditato. “Non mi se n’è schiantata neanche una!!”, dirà con tronfio orgoglio il gentiluomo abruzzese. La bollitura avviene in un bidone dove le bottiglie vengono adagiate con stracci e altri ammortizzatori di non si sa bene cosa.

Una volta raffreddato il tutto, le bottiglie son pronte per essere riposte nei rifugi antiatomici e da poter orgogliosamente avanzare anche l’anno successivo. Ohimè!