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Banda della Uno bianca - Wikipedia

Banda della Uno bianca

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Banda della Uno bianca fu il nome attribuito dal giornalismo italiano ad un'organizzazione criminale che, a partire dal 1987 e sino all'autunno del 1994, commise 103 crimini, provocando la morte di 24 persone ed il ferimento di 102. Il nome derivò dal tipo di auto generalmente utilizzata per le condotte criminose: una Fiat Uno bianca, dato che in quegli anni era molto diffusa e facile da rubare.

Indice

[modifica] Composizione

Le sentenze, passate in giudicato, dei tribunali di Bologna, Rimini e Pesaro hanno riconosciuto in tutto sei persone come componenti della uno bianca.

  • Roberto Savi: mente e fondatore della banda. Lavora come poliziotto presso la questura di Bologna, al momento dell'arresto riveste il grado di assistente capo e ricopre il servizio di operatore radio alla squadra volante. Da giovane milita come attivista nel Fronte della gioventù, suo padre Giuliano gli insegna l'uso delle armi. Nel 1976 entra in Polizia e prende servizio a Bologna. Per molti anni ha svolto la funzione di operatore in volante, è stato trasferito alla sala operativa per aver rasato a zero un giovane ragazzo trovato in possesso di sostanza stupefacente. Roberto Savi possedeva - regolarmente registrate - diverse armi, fra cui due AR 70 Beretta, un fucile semiautomatico calibro 222. Fu questo il fucile utilizzato nella strage del Pilastro. Nelle prime fasi delle indagini, la procura dispose che venisse compilata una lista dei cittadini dell'Emilia Romagna possessori di AR70, da cui risultarono una trentina di individui. Da questa lista emerge che Roberto Savi, unico in regione, possiede due fucili AR70. Poiché l'arma non era conosciuta dalla polizia bolognese, proprio Roberto Savi porta ai colleghi, per facilitare il lavoro della scientifica, uno dei suoi due fucili, quello che non aveva sparato. Furono fatte delle verifiche per controllare se qualcuna delle armi individuate fosse quella che aveva sparato nella strage del Pilastro. Nessuno chiese mai a Roberto Savi di controllare il secondo fucile AR70 in suo possesso. È stato il primo componente della banda in ordine di tempo ad essere arrestato. Durante il processo la moglie, che lo sapeva coinvolto nelle vicende della Uno bianca, ma che non lo ha mai denunciato, lo definisce come un uomo violento ed aggressivo, di carattere molto taciturno e schivo, non frequentava molte persone a parte i fratelli, passava molto del suo tempo a giocare con i videogiochi. Il 3 agosto 2006 ha fatto richiesta di concessione del provvedimento di grazia al tribunale di Bologna. La domanda è stata ritirata il 24 agosto dallo stesso Savi a seguito del parere sfavorevole espresso dal procuratore generale bolognese Vito Zincani. Attualmente sconta il proprio ergastolo nel carcere di Opera, Milano.
  • Fabio Savi: fratello di Roberto. Anche lui come il fratello fa domanda per entrare in polizia ma un difetto alla vista gli pregiudicherà questa carriera. Dal 1976 svolge molti lavori saltuari, ha un carattere spavaldo e non prova pudore a manifestare il suo pensiero razzista. Insieme a Roberto è l'unico componente presente a tutte le azioni criminali della banda. Al momento dell'arresto faceva il camionista e frequentava una ragazza rumena, Eva Mikula, le cui testimonianze si riveleranno decisive nella risoluzione delle indagini. Attualmente è detenuto nel carcere di Solliciano, Firenze.
  • Alberto Savi: fratello minore della famiglia Savi. Assieme a Roberto e a Fabio forma la struttura principale della banda. Fa il poliziotto come Roberto, al momento dell'arresto presta servizio presso il Commissariato di Rimini. Debole di carattere subisce la personalità del fratello maggiore Roberto.
  • Pietro Gugliotta: unico della banda a non essere condannato all'ergastolo. Non ha partecipato alle azioni omicide, e per questo è stato condannato alla pena di 20 anni di reclusione. Anche lui poliziotto, svolge la funzione di operatore radio alla questura di Bologna assieme all'amico Roberto Savi.
  • Marino Occhipinti: membro minore della banda, ha però preso parte a un assalto a un furgone della Coop di Castel Maggiore, il 19 febbraio 1988, durante il quale morì una guardia giurata e per questo è stato condannato alla pena dell'ergastolo. Anche lui poliziotto presso la squadra mobile di Bologna, al momento dell'arresto, avvenuto il 29 novembre 1994, era vicesovrintendente della sezione narcotici della Squadra mobile.
  • Luca Vallicelli: poliziotto, al momento dell'arresto, avvenuto il 29 novembre 1994, è agente scelto presso la sezione polizia stradale di Cesena. Membro minore della banda, partecipa solamente alle prime rapine della banda, che si concludono senza omicidi. Patteggia la pena, sconta pochi anni in galera ed è attualmente un uomo libero.

[modifica] Le azioni criminali

La banda cominciò a compiere i suoi crimini dal 1987, dedicandosi nelle ore notturne alle rapine dei caselli autostradali lungo l'autostrada A14 per poi raggiungere il mare per festeggiare consumando la colazione. Il primo colpo messo a segno dalla banda fu la rapina al casello di Pesaro, consumata a bordo di una Fiat Regata. Dapprima il nucleo era composto da tre uomini.

Nel 1988 la banda decise di utilizzare come mezzo una Fiat Uno bianca, in quanto era un'autovettura che si forzava facilmente e per accenderla era sufficiente una tessera telefonica. Da allora le loro imprese criminali si identificano come quelle compiute dagli uomini della Uno bianca. Si trattava di personaggi piuttosto efficienti e privi di scrupoli, che non sembravano prediligere un particolare obiettivo, dedicandosi bensì a rapinare banche, caselli autostradali, supermercati, pompe di benzina, ecc. I loro attacchi furono molto cruenti e spesso pieni di morti e feriti. Tra essi qualche testimone oculare, come nel caso di Primo Zecchi, assassinato il 6 ottobre 1990 perché stava annotando il numero di targa della macchina dei criminali. Ciò che emerse immediatamente all'occhio degli inquirenti è la totale assenza di scrupoli di questi individui, che dimostravano di padroneggiare le armi, di agire con precisione e di saper uccidere senza tentennamenti. I colpi messi a segno, in genere nell'area compresa tra Pesaro, Rimini e Bologna, non frutteranno mai grosse cifre. In cerca di armi rapinarono l'armeria in via Volturno di Bologna, sparando al dipendente e alla titolare del negozio. Dopo l'omicidio Roberto Savi andò in servizio in Questura, quando giunse la segnalazione dell'accaduto si portò sul posto in divisa assieme agli altri colleghi della volante.

I criminali si evidenziarono inoltre per vere e proprie azioni punitive senza nessun fine di lucro. Il 23 dicembre 1990 assaltarono un campo nomadi alla periferia di Bologna, spararono verso le roulotte una pioggia di colpi per vari minuti, lasciando a terra 2 morti. Il 18 agosto 1991 uccisero due immigrati senegalesi dopo averli seguiti a bordo della loro auto. Durante il processo i fratelli Savi non si definirono razzisti ma giustificarono queste azioni come necessarie per liberare la società da parassiti inutili. I Savi a seguito di una rapina non riuscita ad un ufficio postale, punirono il direttore della filiale uccidendolo a sangue freddo sul portone mentre rientrava nella propria abitazione. Numerose furono le vittime appartenenti alle forze dell'ordine, tra cui una pattuglia dei Carabinieri, in normale servizio di perlustrazione del territorio (Castel Maggiore, 20 aprile 1988). Rimasero uccisi due militari: Cataldo Stasi e Umberto Erriu.

[modifica] La strage del Pilastro

Il 4 gennaio 1991 intorno alle 22, presso il quartiere Pilastro di Bologna, una pattuglia dell'Arma dei Carabinieri cadde sotto le pallottole del gruppo criminale. La banda si trovava in quel luogo per caso, essendo diretta a San Lazzaro, in cerca di un'auto da rubare. All'altezza delle Torri, in via Casini, l'auto della banda fu sorpassata dalla pattuglia dall'Arma. La manovra fu interpretata dai criminali come un tentativo di registrare i numeri di targa e pertanto decisero di liquidare i carabinieri. Dopo averli affiancati, Roberto Savi esplose alcuni proiettili verso i militari, sul lato del conducente (Otello Stefanini). Nonostante le ferite gravi subite, il militare cercò di fuggire, ma andò a sbattere contro dei cassonetti della spazzatura. In breve tempo l'auto dei Carabinieri fu investita da una pioggia di proiettili. Gli altri due militari, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, riuscirono a lasciare l'abitacolo ed a rispondere al fuoco, ferendo tra l'altro Roberto Savi. La potenza delle armi utilizzate dalla banda però non lasciava speranze ed entrambi i militari dell'Arma rimasero sull'asfalto. I tre carabinieri furono finiti con un colpo alla nuca. Il gruppo criminale si impossessò anche del foglio di servizio della pattuglia e si dileguò, aiutato dalla fitta nebbia della notte. La Uno bianca coinvolta nel massacro fu abbandonata poche centinaia di metri più in là ed incendiata; uno dei sedili era sporco del sangue di Roberto Savi rimasto lievemente ferito all'addome durante il conflitto a fuoco. Il fatto di sangue fu subito rivendicato dal gruppo terroristico "Falange armata". Tale rivendicazione fu però ritenuta inattendibile, in quanto giunta dopo il comunicato dei mass media. La strage rimase impunita per circa quattro anni. Gli inquirenti seguirono delle piste sbagliate, che li portarono ad incriminare soggetti estranei alla vicenda. In seguito saranno gli stessi assassini a confessare il delitto durante il processo.

[modifica] Le indagini

Agli inizi del 1994 il magistrato di Rimini Daniele Paci costituì un pool di investigatori per risolvere il caso, dopo 7 anni di omicidi e crimini ancora senza un colpevole. Il pool non riuscì ad ottenere molto, solo la ricostruzione di un identikit di un bandito, registrato a volto scoperto durante una rapina in banca il 3 marzo 1994.

Verso la metà del 1994 il pool dei magistrati riminesi fu sciolto e la direzione delle indagini consegnata ad un pool di magistrati a Roma.

Furono però due poliziotti, l'ispettore Baglioni e il sovrintendente Costanza, a seguire la pista giusta. I due poliziotti, facenti parte della Questura di Rimini, avevano collaborato con l'appena sciolto pool di magistrati riminesi. Chiesero alla procura che il lavoro del pool riminese non venisse perso ed avviarono delle indagini autonome volte a scoprire i componenti della banda della Uno bianca. Il procuratore di Rimini diede loro carta bianca, fu così che Baglioni e Costanza cominciarono a dedicarsi praticamente a tempo pieno alle loro indagini. Misero in atto appostamenti, ricerche, controlli agli istituti di credito rapinati e cercarono di capire le modalità operative della banda. Osservando una semplice cartina geografica notarono che la banda di criminali rapinava maggiormente banche zonali, situate in piccoli paesi della provincia riminese, raramente si esponevano in zone di città. Tutti gli elementi utili all' indagine venivano inseriti nella memoria di un computer che avevano comprato autofinanziandosi.

In Baglioni e Costanza cominciarono a sorgere dei sospetti che i componenti della banda potessero essere persone in seno alle forze dell'ordine, vista l'abilità dimostrata con le armi da fuoco e la apparente inafferrabilità del gruppo. In quel periodo eseguirono un minuzioso lavoro di ricostruzione dei delitti, confrontando date, orari, luoghi ed identikit. Baglioni e Costanza fecero poi una considerazione che si rivelerà fondamentale: i banditi conoscevano troppo bene le abitudini dei dipendenti della banche assaltate; ciò significava che svolgevano una puntigliosa opera di documentazione e di controllo prima di compiere la rapina. Inoltre i due poliziotti si chiedevano come facessero ad evitare tutti i posti di blocco ed a conoscere così bene tutte le vie di fuga lungo le strade secondarie. Decisero quindi di comportarsi come loro, passando le loro giornate ad appostarsi davanti ad istituti di credito, ubicati nelle zone che i criminali preferivano colpire, in attesa di notare qualche persona sospetta.

Il 3 novembre 1994 Fabio Savi commise un passo falso, eseguì un sopralluogo presso una banca a Santa Giustina nel riminese, davanti alla quale si trovavano appostati Baglioni e Costanza a bordo di una Y10 verde. Savi giunse sul posto con una fiat Tipo bianca, che però esibiva una targa irriconoscibile per la sporcizia. Ciò destò la curiosità degli investigatori presenti sul posto, che confrontarono la fisionomia del conducente con quella rimasta impressa nei filmati ripresi nelle banche rapinate. Ne riscontrarono una vaga somiglianza e pertanto decisero di seguirlo. Fabio Savi li condusse infine presso la sua abitazione, a Torriana. Da questo momento le indagini subirono uno sviluppo sempre più nitido, fino ad acclarare le responsabilità dei criminali. Fu appurato che la loro inafferrabilità era dovuta all'uso improprio di palette e tesserini di servizio.

Su come si siano svolte le indagini esistono ancora molte ombre e dubbi. La procura di Bologna fornisce infatti un'altra versione dei fatti. Secondo i magistrati del capolugo emiliano si era arrivati ad individuare i fratelli Savi grazie alle dichiarazioni di un testimone che aveva visto dei soggetti scendere da una Fiat Uno bianca e salire su una Mercedes del quale aveva annotato la targa. La Uno bianca era rubata e la Mercedes era di Fabio Savi.

Lo stesso Fabio Savi ha dichiarato di essere stato individuato dopo che una donna ha fatto il suo nome con una telefonata alla procura di Rimini.

L'ultimo colpo avvenne il 21 ottobre 1994, presso un istituto di credito di Bologna (due feriti).

[modifica] Le condanne

I componenti della banda sono stati tutti arrestati. I fratelli Savi e Marino Occhipinti sono stati condannati all'ergastolo. Pietro Gugliotta, inizialmente viene condannato a 28 anni (trasformati poi in 20 poiché è stata riconosciuta l'attenuante di discontinuità nei crimini). Luca Vallicelli patteggia e viene condannato a una pena lieve di pochi anni

[modifica] Bibliografia

Sandro Provvisionato - Gistizieri sanguinari. I poliziotti della Uno bianca. Un altro mistero di Stato - Napoli, Pironti, 1995

[modifica] Guarda on line

Blu Notte. Il caso della Uno bianca di Carlo Lucarelli

Fabio Savi intervistato da Franca Leosini per "Storie maledette. Prima puntata

Fabio Savi intervistato da Franca Leosini per "Storie maledette. Seconda puntata

Nel XXI secolo. Puntata di Report dedicata alla pena di morte. Interviste ai familiari delle vittime della Uno bianca

[modifica] Voci correlate

[modifica] Collegamenti esterni

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