L’esponente del M5S Manlio Di Stefano ha fatto una imperdonabile gaffe. A seguito della tragica esplosione di Beirut dei giorni scosri, ha espresso solidarietà “agli amici libici”.
Ora, non ci sono dubbi che sia necessario esprimere solidarietà ai libici, ma si dà il caso che Beirut sia in Libano. Uno scivolone, insomma, a cui Di Stefano ha risposto su Facebook con un tono un po’ stizzito:
“Non ho mai ambito alla fama, quelli come me, ingegneri di formazione, preferiscono lavorare duramente nell’ombra e portare a casa i risultati. Eppure oggi mi trovo addirittura primo nelle tendenze di Twitter e in home page di svariati giornali.
Sarà per l’enorme successo del “Patto per l’Export” col quale stiamo aiutando centinaia di migliaia di aziende italiane ricevendo complimenti quotidianamente da tutte le associazioni di categoria da Confindustria in giù? Sarà perché in questi due anni da Sottosegretario in tutti i Paesi target della mia azione (e sono tanti) l’export italiano è aumentato mediamente di almeno il 15%?
Sarà perché mi occupo da anni anche di Libano dal punto di vista sia politico che commerciale e proprio il 6 luglio ho incontrato il Ministro degli Esteri Nassif Hitti ribadendogli, come già fatto al Ministro dell’Energia, la nostra disponibilità ad aiutarli a ristrutturare le centrali elettriche nazionali per aiutare il popolo libanese? No. No. No e No. Sarebbe troppo lineare, non sarebbe il web, tantomeno la stampa italiana”.
Su Twitter il caso Di Stefano è subito stato catalogato come “di tendenza”, la stampa italiana ne ha parlato con grande evidenza.
Da riportare anche il durissimo commento dell’ex M5S Luis Orellana:
Molti hanno fatto ironia sul tuo errore perché talvolta si sceglie di ridere per non piangere avendo te al Governo.
Anche in questa tua replica (la replica di Di stefano su Twitter, non il messaggio su Facebok, nda) sei vergognoso: attacchi chi ti critica, bastava solo chiedere scusa per l’errore fatto ma il tuo ego smisurato non te lo consente.
E’ vero. Sarebbe bastato che Di Stefano chiedesse scusa. Ma vedo che abbiamo alcune cose in comune: il cognome e l'”ego smisurato”.
Ma sullo svarione degli “amici libici” è cascata anche la rappresentante del M5S Elisa Pirro. Non si è mai soli al mondo:
Si conclude con la richiesta da parte dell’interessato di andare in pensione (richiesta accolta) parte della vicenda disciplinare che riguarda il professor Emanuele Castrucci, responsabile dell’immissione su Twitter di alcuni contenuti di argomento hitleriano. Il procedimento disciplinare di tipo sanzionatorio va comunque avanti, e il docente è indagato dalla Procura della Repubblica di Siena per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, aggravata da negazionismo. (Fonte: Il Fatto quotidiano)
Alcuni giorni or sono il GIP di Siena, dottoressa Malavasi, aveva comunque respinto la richiesta della Procura della Repubblica di sequestrare l’account del docente, perché non vi ravvisava estremi di reato ma solo una rilettura storica e apologetica della figura di Hitler.
Carissimi amici, Radio Romania Internazionale continua il tradizionale sondaggio rivolto ai suoi ascoltatori e utenti Internet, ma anche ai suoi amici sulle reti sociali, invitandovi a valutare quali delle personalità del presente hanno segnato di più, in senso positivo, l’andamento dell’umanità nell’anno che sta per concludersi. In base alle vostre opzioni, la nostra emittente nominerà “La personalità del 2019”.
Chi potrebbe essere e soprattutto perché? Sarà un politico, un leader di opinione importante, un imprenditore, un grande atleta, un celebre artista, uno scienziato o, semplicemente, una persona sconosciuta al grande pubblico, che però vanta una storia esemplare? Come al solito, la risposta appartiene a voi.
Aspettiamo le vostre proposte, accompagnate dalle motivazioni, direttamente sul sito www.rri.ro, inviando un commento all’articolo, via e-mail, all’indirizzo ital@rri.ro, su Facebook, Twitter e LinkedIn, sempre come commento, su WhatsApp al numero +40744312650, via fax al numero +40 21 3190562, o per posta, all’indirizzo Via Generale Berthelot 60-64, CAP 010165, casella postale 111, Bucarest, Romania.
Vi ricordiamo che, in base alle vostre scelte, la Personalità del 2018 a RRI è stata designata la cancelliera tedesca, Angela Merkel. Nel 2017, il titolo è andato alla grande tennista romena Simona Halep, ex numero 1 mondiale, mentre nel 2016 al presidente americano, Donald Trump.
La personalità del 2019 a RRI sarà annunciata nei nostri programmi e sulle reti sociali il 1 gennaio 2020.
—
Redazione Italiana
Radio Romania Internazionale
Via General Berthelot 60-64
Bucarest, ROMANIA
Tel: + 40 21 303 13 08
Fax + 40 21 319.05.62
e-mail: ital@rri.ro
www.rri.ro
In fondo @vanitosa95 è un nickname come tanti. Come tanti pseudonimi che uno ha a disposizione per celare agli altri la propria identità. Il perché uno voglia farlo o ne abbia necessità è sempre un mistero. In questo caso mi pare che la ragione della scelta dello pseudonimato sia più che evidente: tirare vigliaccamente il sasso per ritirare subito la mano. Non essere rintracciabile e, di conseguenza, imputabile. @vanitosa95, in fondo, è solo un modo per chiamarla. Quello che veramente importa è che questo account è in Twitter dal maggio scorso, che ha collezionato ben 116 messaggi (capirai!) tutti di odio e di augurio per determinati interlocutori (Laura Boldrini, la figlia di Laura Boldrini, i partecipanti alla Leopolda, Maria Elena Boschi, le persone che fanno battute sulla colica di Matteo Salvini) di tumori e disgrazie varie. Sono delle modalità assolutamente riprovevoli di agire e che hanno fatto sì che Twitter chiudesse l’account nel pomeriggio di oggi, mentre lo screenshot con i due tweet di odio puro l’ho fotografato questa mattina, quando l’account era ancora operativo. E’ un esempio come tanti altri di cialtronismo e di gusto per la vendetta usa-e-getta, ma i messaggi in questione mi sono sembrati particolarmente pesanti. Sarà che non ho mai augurato il cancro a nessuno. Sarà che ho sempre pensato che certi personaggi sono spesso dei grandissimi portatori di polemiche e che le polemiche si smontano con i fatti, per cui non c’è bisogno di invocare il cancro su di loro, basta contraddirli con argomentazioni solide e incontrovertibili. Sarà che trovo internet uno strumento troppo prezioso per sprecarlo in inutili invocazioni oncologiche a danno di questi e di quelli. Sarà che i messaggi di questa persona, di cui ho oscurato la foto (non per rispetto della sua privacy, perché non ne ho nessuno, ma per rispetto di quella della persona a cui è stata probabilmente carpita) mi hanno turbato al punto di venirne a parlare con voi e di lasciarne traccia. Perché il male in rete esiste. Ed oggi è passato per il nome di @vanitosa95.
Ormai è ufficiale. Gli assassini di Mario Cerciello Rega hanno confessato. Sono stati loro. Americani, cittadini USA, bianchi, ricchi, figli di papà, di buona famiglia, incensurati, chiaramente viziati, in viaggio in Italia e domiciliati in un albergo lussuoso (“vuoto mito americano di terza mano”, avrebbe detto il Sommo Poeta).
Nulla a che fare con i nordafricani alti 1,80 e con le mèches contro cui si è rivoltato il web, o, almeno, la sua parte più deteriore e sovranista. E’ stato tutto un “dàgli al négher!”.
Nessuno ha pensato un po’, nessuno ha lasciato fare gli inquirenti prima di scrivere, nessuno ha voluto sentire ragioni o argomenti vari.
E l’unico argomento è che stavolta no, non sono stati gli africani, gli immigrati (chiaramente illegali) i disgraziati della malora, i bastardi che vogliono venire nel nostro paese a delinquere e a toglierci il lavoro. Sono stati due come noi. E’ stato l’occidente, prosperoso e mezzo drogato, è stata la nostra sicurezza di bravi cittadini (ma all’occasione ripieni di cocaina), insomma, legaioli, fratelliditalia, giornalisti arroganti, precipitosi, sopporters violenti, conigli da tastiera, tutti si sono buttati addosso ai nordafricani. Solo che i nordafricani, in questo caso, non esistevano. Brutta figura, nevvero?
Ma in questo cumulo di afflato sovranista sono caduti tutti. Tutti. Anche quelli del PD. Paolo Gentiloni in un tweet parla di un “controllo su due sospetti nordafricani”. E allora il mondo gira proprio alla rovescia, in questo continuo giro del giorno in ottanta mondi che porta sempre e costantemente allo stesso punto su cui destra e sinistra, evdentemente, amano molto ristrovarsi. Spesso e volentieri.
Ieri Alessandro Meluzzi, criminologo ed esponente della Chiesa Ortodossa Italiana, in un tweet un link contenente un titolo su delle frasi attribuite (ma chiaramente disconosciute e dimostratesi non pronunciate) a Laura Boldrini e provenienti, già dal 2014, da un sito web (che in passato si definiva “giornale on line”) chiamato “Imola oggi”.
Il titolo incriminato è: «Boldrini: Le decapitazioni dei cristiani secondarie rispetto alle sofferenze dei musulmani». Nel tweet compare anche il nome della testata da cui proviene la dichiarazione. Niente altro.
La Boldrini, simpatica o antipatica che stia, quelle parole non le ha mai dette. Ma ha detto (o, meglio, ha delegato il suo staff a dire) a Meluzzi: “Meluzzi, sono un collaboratore di Laura Boldrini, che è occupata in Aula. La informo che la stiamo per querelare per la bufala che ha diffuso con il suo tweet. Buona giornata”
Che cosa ha fatto, dunque, Alessandro Meluzzi? Né più né meno che twittare un link a una fake news. Che non significa necessariamente o implicitamente che lui sia d’accordo con il contenuto offensivo della pagina (come invece accade per i like messi sui social network ai commenti di hate speaking), è solo un link. Potrei metterlo io stesso sul blog (quando si dice “se volete leggere la pagina originale cliccate qui”), non ci sarebbe nessunissima differenza tra quello che farei io e quello che ha fatto Meluzzi. E non mi pare proprio che riportare un link sia di per sé un crimine assimilabile a quello della diffamazione. Un link ha il solo valore di “segnalare” qualcosa. Che, in quel caso era (è) una pagina disponibile in rete dal 2014, mai rimossa né fatta rimuovere, che riporta una notizia indubbiamente fasulla. Non credo che nel 2014 Laura Boldrini non sia stata in grado o messa nelle condizioni di sapere del contenuto della pagina incriminata. Ci si domanda, dunque, come mai la stessa Boldrini abbia preferito attendere 5 anni e il momento in cui Meluzzi avesse riesumato quei contenuti per querelare qualcuno. Non si sarebbero potuti querelare nel 2014 i responsabili del sito “Imola oggi” e fatto rimuovere l’articolo suppostamente diffamatorio? Ma, soprattutto, che delitto c’è nel riportare un semplice link, ammesso e non concesso che ci sia un delitto?
Non è in discussione, in questa sede, il diritto sacrosanto di Laura Boldrini di rivolgersi alla magistratura se ritiene che la sua onorabilità sia stata lesa.- E’ in dubbio, invece, il fatto che sussista il reato. Per carità, io non sono un giudice (e ai giudici lascio il compito di esprimersi in merito), esprimo solo un’opinione.
La tendenza (un po’ modaiola oggigiorno) di ricorrere alle querele ad ogni ruggire di leone da tastiera, forse rischia di fare un po’ di ogni erba un fascio, e di scambiare le opinioni dissenzienti e le segnalazioni con la diffamazione, di confondere la critica, anche la più feroce, con l’ingiuria, lo sfottò con la calunnia e viandare. Che non si arrivi all’estremo del pensare “La pensi diversamente da me? Mi stai diffamando!”, sarebbe la più grossa esagerazione esistenziale possibile. Ma io credo che ci siamo già arrivati. Non con il caso Boldrini vs. Meluzzi, ma ci siamo già arrivati.
Per carità, io ho una grande stima di Michela Murgia. E’ brava, intelligente e soprattutto dotata di quel tanto di ironia che dovrebbe caratterizzare tutte le donne del suo spessore umano e intellettuale.
E quindi il fatto che ieri mi abbia scritto su Twitter consigliandomi di informarmi prima di parlare (del caso di Concita De Gregorio di cui ho parlato alcuni giorni fa). Il breve botta e risposta lo trascrivo qui. In neretto gli interventi della Murgia, in corsivo i miei:
Se esiste una metafora della mancanza di responsabilità politica è certo la vicenda capitata a @concitadeg, l’unica a pagare per il diritto di cronaca mentre editore e speculatori politici si sono dileguati. La credibilità del PD è morta anche all’Unità.
Non sono d’accordo, signora Murgia. Il diritto di cronaca non è il diritto di diffamare e qui ci sono fior di sentenze (esecutive, anche se non definitive) che certificano che il danno c’è stato. Non è a suon di paroloni o di notizie sbagliate che si fa informazione. CDG paghi.
Forse documentarsi prima di parlare le sarebbe utile a evitare figuracce.
Le condanne per milioni di euro ricevute in sede civile da questa signora sono o non sono una sufficiente fonte di informazione? E’ riuscita a farsi spillare 30.000 euro + 7.000 di spese processuali da uno che ha denominato “fascista”. E ammettere di essersi sbagliata no, eh??
La logica è sempre la stessa: hai espresso un dissenso da quello che è l’andamento dell’opinione pubblica di certa sinistra di maniera e radical-chic? Il minimo che ti possa capitare è di sentirti additare come una persona disinformata e approssimativa che parla un po’ così per sentito dire e che fa una figuraccia per il solo fatto di aver detto che esistono delle sentenze che danno torto alla De Gregorio. Che, poi, voglio dire, è un dato di fatto. Michela Murgia avrebbe potuto tranquillamente entrare nel merito. Magari anche solo per dire che quelle sentenze sono ingiuste a suo personale modo di vedere. Che è già un modo, elementare e di base, per entrare nel merito. Invece nulla di tutto questo. Solo un giudizio preso e messo lì, che oggettivamente non fa onore alla Murgia, ma tanto io le voglio bene e la leggo lo stesso.
Ora uno dice, che male c’è se qualcuno sbaglia a scrivere il cognome del drammaturgo Samuel Beckett e lo scrive con una sola t anziché due? Nessuno, ci mancherebbe anche altro. Ma bisogna vedere chi lo sbaglia e dove. Se lo sbagliava la mi’ nonna Angiolina, che sapeva una sega lei chi era Beckett, mentre scriveva la lista della spesa era un conto. Se lo sbaglia uno studente di liceo linguistico che, guarda caso, ha appena svolto un seminario sulla versione francese di “Aspettando Godot”, l’errore è da matita blu. E se lo sbaglia un addetto ai lavori? In un suo intervento su Twitter lo scrittore Gianrico Carofiglio, che da scrittore dovrebbe conoscere molto bene gli altri scrittori, specialmente un classico del calibro di Samuel Beckett, nel paragonare le ultime esternazioni del Presidente del Consiglio, ha richiamato in vita i due giganti del teatro dell’assurdo, Ionesco (che dovrebbe essere Ionescu, ma non stiamo troppo lì a sottilizzare) e Beckett, appunto. Solo che Beckett l’ha scritto “Becket”. Io me ne sono accorto e gliel’ho fatto notare ma lui naturalmente non ha risposto. Allora il punto è questo: sei uno scrittore, porca miseria, sei anche una persona di cultura notevole perché hai fatto il magistrato prima di scrivere i gialli dell’avvocato Guerrieri (anche durante, a dire il vero), sei stato un rappresentante del parlamento, guadagni una pacca di danari, hai scritto un libro sulla manomissione delle parole, ma vuoi scrivere ammodino? Non è che il solo fatto di scrivere un tweet, che dovrebbe essere una cosa più che marginale nella produzione di uno scrittore, lo esime dallo scrivere bene, perché poi i suoi lettori se ne accorgono. E siccome tra i suoi lettori ci sono io, che ho sborsato fior di eurini per comprare i suoi piacevoli gialli, gli audiobook, alcuni saggi e altri titoli sparsi qua e là, mi permetto di farglielo notare e come. Le cose si fanno poi le scuse si trovano sempre: un errore di battitura, colpa della fretta, è un banalissimo refuso, me lo ha suggerito il correttore ortografico dello smartphone… Sono piccole cose, però è sempre una grande soddisfazione correggere gli scrittori sulle cose più piccole e banali, ben sapendo, purtroppo, che nel paragonare le battute del Premier Conte alla parabola discendente del teatro dell’assurdo, Carofiglio ha ragione piena.
Non siamo in un paese normale, in cui, pure, il tema della solidarietà nei confronti degli altri dovrebbe essere preponderante, tanto che non dovrebbe esistere un “Prima gli italiani”, ma un “Prima chi ha bisogno”, se, come sta accadendo, la notizia del rapimento della volontaria Silvia Romano in Kenya viene corredata da una sorta di torrente fluviale di hate speeching in cui la trattano da “oca giuliva”, e le dicono che se avesse continuato a fare la volontaria nel contesto più umile e discreto della parrocchietta tutto questo non le sarebbe accaduto, condendo le violente considerazioni con un prosaico “Se l’è andata a cercare”.
Sono gli stessi imbecilli che pontificano che si deve andare ad aiutare i neri in casa loro e non accoglierli in casa nostra, ma poi quando qualcuno ci va è un’oca giuliva che se l’è andata a cercare, quindi cosa ci possiamo fare noi se Cappuccetto Rosso è andata dritta dritta in bocca al lupo cattivo? Oltretutto ci costerà un sacco di soldi in operazioni umanitarie, missioni all’estero, riscatto.
E di Cappuccetto Rosso ha parlato ieri nella sua rubrica “il Caffè” del Corriere della Sera Massimo Gramellini che, da par suo, ha scritto testualmente: “Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto.”
Gramellini parla di “smanie di altruismo” e dà ragione agli imbecilli di cui sopra che sottolineano il “cosa vuoi mai farci adesso?” di gucciniana menoria. Ma non è che le smanie di altruismo non sono altro che quella che i cattolici da sempre chiamano “vocazione”, quella che ti fa andare anche in un “villaggio sperduto” del Kenya a rischiare la pelle per dare una mano alla popolazione di lì e fare qualcosa in cui credi fermamente? Ma a chi ha dato fastidio Silvia Romano, alias gramelliniano Cappuccetto Rosso, nel fare la propria scelta di vita? Ai commentatori folli di Facebook e Twitter che dal calduccio delle loro case si collegano con i loro computerini o i loro smartphone della malora per riversare strali di veleno sotto forma di byte apparentemente innocui e protetti da una forma di pseudonimato quando non di anonimato vero e proprio per cui chi vuoi che vada a cercarli, e poi, anche se fosse, “abbiamo sempre espresso un’opinione”. Ai giornalisti di regime che non trovano altro da fare che dare ragione ai suddetti imbecilli comodosi, che vorrebbero la volontaria cameriera nelle mense della Caritas piuttosto che in Kenya ad aiutare i bambini come voleva lei (e, ripeto, si tratta solo di sacrosante scelte).
E così lo sbaglio di Silvia Romano è stato solo suo, e il caso del suo rapimento è diventato un’occasione da parlarne durante un caffè: “Ah, signora, mi lasci dire, questi giovani d’oggi sono proprio degli spericolati senza sale in zucca, abbiamo tante situazioni di povertà in Italia, che cosa ci combinava andare fin laggiù??”
E la tazzina vuota ricade sul piattino facendo rumore. Il caffè è finito, i giudizi sommari sono stati dati, Silvia Romano è nelle mani dei rapitori ma del resto se l’è voluta. Appuntamento con un’altra tazzina a domani, quando di Silvia si parlerà sempre meno.
Sono grato alla provvidenziale lettrice Santina Romei per avermi inviato questa perla tratta da Twitter, in cui un utente mette in guardia i lettori, e, segnatamente, quelli di SkyTG24, dal Parlamento Europeo, luogo di perdizione, bolgia dantesca, girone di dannati, dove circolerebbero malvagità, ignoranza (beh, quella c’è un po’ dappertutto, soprattutto nel parlamento italiano, non vedo che tipo di problema dovrebbe porsi) ma soprattutto poteri diabolici. Satanasso e Belzebul sono due mezze calzette rispetto al potere diabolico disponibile nel consesso di Bruxelles e di Strasburgo, in cui, come è noto, non si può entrare senza che sia presente con noi un esorcista di provata bravura. Perché, diciamocelo francamente, come si farebbe a vivere senza un po’ di medioevo spicciolo? Senza quella paura che ci domina, senza il senso di una cappa di controllo superiore, di un potere malvagio che distrugge tutto, soprattutto le nostre certezze di esseri umani fragili e poco inclini ai compromessi. Ho omesso pietosamente (ma poi perché?? La gente non si potrebbe assumere la responsabilità di quello che scrive??) il nome e l’indirizzo Twitter del malcapitato autore di questo testo fulgido e spruzzante tolleranza da tutti i pori, ma la pericolosità dei poteri diabolici, evidentemente, sovrastano tutto. Anche i luoghi di democrazia.
Dunque vediamo un po’ che cosa ha spinto David Puente a “silenziarmi” (verbo poetico usato da Twitter per chiamare in altro modo meno violento e diretto la semplice e banale censura).
Scrive Puente:
“Oggi è successa una cosa molto brutta. Ho ricevuto una richiesta di aiuto da un amico in difficoltà, la sua compagna ha un problema di salute […] ed è caduta vittima di un malvivente online.”
Nello spazio tra parentesi quadre riservato ai puntini di sospensione Puente ha riportato la localizzazione della patologia che ha colpito la signora. Io l’ho omessa perché non mi pare il caso di riportarla. Comunque rispondo a Puente:
“Gentile da parte sua dare particolari sulla localizzazione della patologia che ha colpito la signora. Senza questo particolare la notizia sarebbe stata esattamente la stessa ma lei ha voluto rendere Twitter anche oggi un posto peggiore. La privacy è un valore. Vergogna!”
La replica lascia perplessi:
“Immagino che lei abbia con se la discussione privata tra me e la vittima.”
A parte l’errore di ortografia commesso nello scrivere “con se” che va scritto “con sé”, con l’accento acuto, è evidente che io non posso avere le conversazioni telematiche private di nessuno a meno che non decida di renderle pubbliche lui stesso (col consenso della controparte, evidentemente). E non si sa neanche che cosa volesse dire con questo intervento: forse che la signora che si è rivolta a lui gli ha dato l’autorizzazione di parlare del suo problema di salute? E peché io dovrei avere la disponibilità di una eventuale informazione del genere?? Non si sa, né Puente, chiaramente, lo spiega.
Continua la conversazione:
(…) “Nel frattempo che lei cerca di cambiare discorso, lei mi accusa di aver violato la privacy di una persona?”
E questa è veramente la battuta involontaria incredibile che fa da chiave di volta a tutta la conversazione. Ho scritto “La privacy è un valore”. Se questa è una frase che sottende una accusa più o meno manifesta verso terzi per aver violato i dati personali di qualcuno giuro che mi faccio dichiarare pazzo e mi faccio impiccare. Ho difeso la privacy perché la ritenevo e continuo a ritenerla veramente un valore. Se avesso scritto “La privacy è una cagata immane” di che cosa sarei stato accusato, di attentato alla Costituzione e sovvertimento dell’ordine costituito? Si arriva all’assurdo che una frase come “La privacy è un valore” venga svilita del suo significato originario per poi sentirsela ritorcere contro. C’è da dire, a favore di Puente, che è reduce da una serie di minacce (anche di morte, purtroppo), di diffamazioni e di ingiurie di ogni genere. Non se le merita. Esattamente come non se le merita nessuno. Quindi posso capire che sia particolarmente sensibile. Lo capisco, dicevo, ma non lo giustifico. Nessuno ha voluto dire che lui ha violato la privacy di chicchessia. Tutt’al più che è sta molto, ma molto indelicato. Provo a spiegarglielo.
“(…) non mi faccia dire quello che non ho scritto.”
Ma lui non capisce:
“(…) Le ho fatto una domanda, non la eviti. Lei con la frase “La privacy è un valore” afferma che ho violato la privacy della vittima? Risponda “si” o “no”, non è difficile.”
E allora io glielo rispiego:
“È di tutta evidenza lo scollegamento logico tra la mia asserzione e la sua supposizione. Chiunque legga la mia frase senza i pregiudizi dell’hater buonista se ne può rendere conto. Ma sottoscrivo e ribadisco in pieno quello che ho asserito: la privacy è un valore.”
Non c’è nulla da fare. Ho fatto il pessimo passo di non rispondere con “Sì” o “No” (ricordate i computer sutto DOS quando chiedevano la risposta S/N? Ecco, la stessa cosa.) e mal me ne incolse. Perché usare due caratteri quando che ne sono 280 a disposizione? Perché chiarire con una parola quello che può essere chiarito con un discorso intero più lungo e più compiutamente rappresentativo delle idee di una persona? Macché, la risposta è caduta nel vento, come riporta una pessima traduzione ecclusiastica di Bob Dylan. E allora arriva la mannaia: non rispondi come dico io? Ti “silenzio”:
“Prendo atto che evita di rispondere ad una semplice domanda. Torno a silenziarla, che tanto è inutile discutere con lei.”
E così, da oggi, il debunker di stato italiano non mi legge più. Oh, son cose che farebbero piangere anche un uomo grande, sapete?
Una fan di David Puente (di cui ho omesso nome e indirizzo) in un suo commento su Twitter, ha ringraziato il suo idolo per sbugiardare “un’apparente consenso” con l’apostrofo. Vai così.
Il ritornello che ho messo come titolo di questo post è un vecchissimo girotondo (crudele come girotondo, lo ammetto) di quando ero bambino e andavo all’asilo. Si cantava all’indirizzo di quello che, nel giro, pagava pegno. Un po’ per commiserazione e un po’ per consolarlo.
Povero Salvini, dunque, che un giorno sì e uno no deve inventarsene una sempre più grossa per poter restare a galla e far sì che i social e la stampa periodica parlino di lui (come non importa, ovviamente): prima il rifiuto di quei 600 e passa disgraziati della Aquarius, poi il censimento dei ROM, oggi la storia della rivalutazione dell’opportunità di concedere ancora o meno la scorta a Roberto Saviano. Guardate che è una bella fatica, sapete? Perché poi la gente ti critica e alle critiche devi riuscire a far fronte al meglio, magari mandando bacini qua e là (come fa su Twitter) e dispensando sorrisoni innocenti come quello che fa solo il bene degli italiani.
Povero Salvini, vuole rivedere la scorta a Saviano e nessuno lo capisce. Il mondo è popolato di brutti cattivi comunisti che pensano perfino che a un cittadino sia necessario dare una scorta a prescindere dalla sua collocazione politica, dal suo pensiero ideologico e dalla sua simpatia personale o meno (e ammettiamo tranquillamente, assieme a Salvini, che Saviano è una persona antipatica, ma non è revocando la sua scorta che lo si renderà più apprezzabile ai nostri occhi, o che sopporteremo meglio le sue esternazioni).
Io non so quanti dei miei soldi devoluti allo Stato sotto forma di tasse vadano a coprire le spese per la protezione di Saviano. So solo che mi fa piacere pagarli perché poi Saviano lo voglio poter contestare di persona o sul mio blog. A me la gente serve viva. Dei morti cosa me ne faccio?
Ma lasciatelo stare, Salvini, poverino. Lavora per noi e si preoccupa di quel che è giusto. Queste son pene.
Maurizio Santangelo, senatore del Movimento 5 Stelle, nel dicembre 2015 ebbe a scrivere (e poi a rimuovere) su Twitter, che con “un po” (testuale, senza apostrofo) di impegno in più, l’Etna risolverebbe tanti problemi dell’Italia.
Oggi il senatore Santangelo è stato indicato tra i sottosegretari alla Presidenza del Consiglio con delega ai rapporti con il Parlamento (alcune fonti su Internet riferiscono che la delega sia all’editoria, io mi baso su quanto dichiarato dall’interessato).
Questo articolo -un po’ lunghetto, per la verità- viene pubblicato volutamente SENZA materiale iconografico. Leggendolo con pazienza e un pochino di attenzione vi renderete conto del perché.
Ritengo che il caso del procedimento penale che ha portato alla vittoria della giornalista Silvia Bencivelli per episodi di diffamazione, dopo cinque anni di iter giudiziario, non sia stato doverosamente e compiutamente riportato e trattato come si dovrebbe (e come avrebbe meritato) dai cosiddetti “debunker di stato” (definizione felice proveniente, purtroppo, da ambienti poco altrettanto “felici” dal punto di vista delle verità scientifiche delle tesi che portano avanti).
E’ stato un procedimento importante, perché ha visto vincere una donna, una brava giornalista, una persona che non ha portato la causa alle vette delle più alte risonanze del web (come avrebbe potuto, se lo avesse voluto, e come sarebbe stato anche suo preciso diritto) ma lo ha mantenuto all’interno delle aule giudiziarie fino al pronunciamento favorevole in primo grado con la condanna a otto mesi di reclusione dell’imputato. Ha comportato molta sofferenza da parte della persona offesa e tutti questi elementi certamente meritavano di essere analizzati con maggiore dovizia di particolari.
Sui blog di Paolo Attivissimo e David Puente non è apparso assolutamente nulla. Nessuna analisi dei fatti, non uno scritto che riportasse solidarietà alla Bencivelli (eppure ce n’era tanto, ma tanto bisogno!), nessuna “cronaca” dell’andamento del processo, nessun cenno alla sentenza finale. Arringhe difensive e requisitorie dei PM, manco a parlarne. Eppure, per precedenti condanne allo stesso imputato, Paolo Attivissimo aveva trionfeggiato, mentre per David Puente, la lotta contro l’imputato è diventata ormai un vessillo da portare con onore, quasi una questione di tipo personale. Sul suo blog è apparso, questo sì, un articolo intitolato “XY accusa Silvia Bencivelli tagliando un video a piacere“. Ma della notizia non c’è traccia.
Ho provato a far presente tutto questo a David Puente (visto che, come è noto, Paolo Attivissimo mi ha bannato dal suo account Twitter che, comunque, riesco a leggere ugualmente) ma mi ha risposto con due link per farmi notare che non era vero quello che dicevo, e cioè che lui e il Superlativo non avessero scritto nemmeno una riga sul caso (e il “neppure una riga” non era da prendersi in senso letterale, è chiaro, ma per il debunker medio la parola scritta è ferma, immodificabile e priva di possibilità di interpretazione, come la Bibbia per i Testimoni di Geova e hai voglia te a insistere su questo punto), ma che c’erano, addirittura, ascoltate bene, udite udite, due tweet. Sissignori, due interventi su Twitter, nientemeno. Tutto lì. Sofferenza, coraggio, tenacia, la paura di vivere l’incubo della persecuzione ogni volta che si apre il proprio profilo Facebook o la propria casella di posta elettronica, valgono due commentini di 240 caratteri al massimo, uno dei quali (quello di Paolo Attivissimo) con il link all’articolo di Repubblica (giornale nel mirino di *.issimo per sovrabbondanza di notizie suppostamente farlocche e errori di ortografia) in cui la Bencivelli racconta la sua storia. Della serie “se volete saperne di più andate a guardare questo”. E’ un po’ la logica perdente e supponente con cui i linuxari ti dicevano “Read the Fucked Manual!” quando avevi bisogno di un aiuto (e Dio sa di quanto aiuto si può aver bisogno avendo a che fare con Linux!). Risultato: con 240 caratteri non scrivi nulla, neanche un messaggio di solidarietà (un messaggio di solidarietà che abbia un senso compiuto e che tenga presente tutti gli aspetti della vicenda, perché per scrivere “Evviva evviva!!” 240 caratteri bastano e come). Ovvio che c’è stato un apprezzabile batter di manine da parte degli adepti degli stessi “debunker”, ma tutto è finito lì, in una mestizia e in una tristezza senza precedenti: c’era chi aveva pagato un prezzo altissimo (in denaro e risorse emotive personali) per vedere condannato il proprio diffamatore, che si era impegnato come non mai per veder riconosciute le proprie ragioni e il pubblico dei 240caratteristi era lì a dare bella mostra di sé, neanche l’avvocato della Bencivelli lo avessero pagato loro.
Ed ho avuto l’impressione (ma, appunto, si tratta di una sensazione personale) che i debunker e i debunker-fan più incalliti fossero contenti più per la condanna dell’imputato che per la vittoria della Bencivelli. Che uno potrebbe anche chiedermi “che differenza c’è?” Molta, ve lo assicuro.
Poi è successa una cosa particolare. Dopo la sentenza, su una pagina Facebook è apparsa una foto che ritrae la Bencivelli in una posa imbarazzante, ma indubbiamente involontaria. La foto era corredata da un estratto testuale da un articolo de “La Valigia Blu”. David Puente ne ha dato notizia con un altro tweet (neanche a voler ipotizzare una soluzione diversa!) che riporta la foto in questione “ritoccata” e “censurata” nella parte più delicata. Un pensiero gentile, non c’è che dire, ma che non ha fatto altro che riverberare un contenuto (poco importa se privato della sua parte più “sensibile”) che avrebbe potuto (e forse anche dovuto) essere lasciato abbandonato al proprio destino, lì nell’ambiente in cui era stata postata. Perché il diritto all’oblio in rete esiste, deve e può essere garantito. Non è vero che (come afferma ad esempio lo stesso Paolo Attivissimo) Internet conserva tutto, mantiene tutto, non perdona niente. Se non si possono cancellare i contenuti si può almeno fare in modo che quei contenuti siano dimenticati, che perdano di interesse e di attualità. E in genere lo si fa ignorandoli. Invece David Puente non solo ha ripubblicato l’immagine fotoscioppata, ma ha addirittura fornito il link alla risorsa originale dove la fotografia veniva pubblicata integralmente. Col risultato di facilitare un numero indefinito di clic a quella pagina, quelli di chi, incuriosito, è andato a ravanare nel torbido pur di rendersi conto di che cosa si trattasse. Magari per poi chiudere il collegamento pochi secondi più tardi, schifato. Ma, disgraziatamente, non abbiamo ancora nessun accrocchio info-telematico che permetta di registrare il gradimento del lettore finale.
Avrebbe potuto fare diversamente David Puente? Sì, certo. Avrebbe, per esempio, potuto evitare questa eco di clic di “ritorno” sul sito originale limitandosi a descrivere i fatti. E poi avrebbe potuto porsi una domanda: quella foto della Bencivelli è vera o è falsa? E’ lui il debunker. E’ lui che smonta notizie, prove, commenti, fotografie, filmati. Non credo che gli sia così difficile debunkare un fotoritocco. Ma il punto è un altro, ossia che riportare su Twitter che qualcuno ha pubblicato una foto della giornalista non è una notizia. E’ esattamente poco più che riportare il link a un articolo di giornale o a un evento in particolare su Facebook (o su Twitter, si veda il caso), è solo fare pubblicità e amplificare quello che non è. Non c’è nessuna informazione né nell’evento in sé, né nel riverberarlo a tutti i costi ai propri lettori. Qual è, dunque, il valore aggiunto in termini di conoscenza delle cose? Ve lo dico io, non c’è niente, è un gesto sterile, che non porta a nulla se non all’autoreferenzialità. Altra cosa sarebbe stato intervenire dicendo che: “Tizio ha pubblicato la tale foto nella tale pagina, ma quella foto è falsa perché etc… etc…“.
Una cosa è certa: chi ha pubblicato quella foto voleva colpire direttamente la giornalista, “rea” di aver vinto una causa per diffamazione e di aver portato il suo presunto diffamatore nelle sedi opportune che le hanno dato ragione. La segnalazione di David Puente non porta nessun sollievo al peso di questa azione, anzi, lo aggrava dandole visibilità e solo visibilità. Avrebbe pututo, David Puente (ma non lo ha fatto), esprimere la propria indignazione per una azione certamente vigliacca e codarda, ma sa benissimo che l’indignazione non basta, che bisogna agire soprattutto se si è e si vuole rimanere un “debunker di stato”.
Michela “Kelledda” Murgia è una scrittrice eccellente e teologa raffinata. Confesso di essermi letteralmente scompisciato dalle risate leggendo “Il mondo deve sapere” (per le edizioni ISBN che fanno libri molto belli, dàtemi retta, se lo trovate su Amazon compratelo!) e di avere amato moltissimo il suo superbo “Accabadora”. Ho affrontato con dedizione il suo “Ave Mary” di cui confesso di non aver capito un accidente. La seguo su Twitter e mi piace leggere i suoi articoli sulla stampa nazionale. Insomma, la Murgia è una di quelle persone di cui l’Italia dovrebbe andare orgogliosa se avesse più a cuore i suoi artisti.
Però anche lei è caduta nelle maglie dell’errore banale ma sostanziale, iniziando questo tweet con una “e” maiuscola accentata al posto della “e” maiuscola semplice, sostituendo una congiunzione (anche se non si dovrebbero iniziare i discorsi con “e…”, mi diceva la mia maestra delle elementari, la Quaglierini, Dio l’abbia in gloria) con un verbo. Probabilmente si tratta di un errore generato dall’uso un po’ troppo disinvolto della tastiera dello smartphone, considerato che la “e” maiuscola è accentata e che il carattere corrispondente è facilmente raggiungibile in quell’ambiente di scrittura, mentre non è direttamente digitabile sulla tastiera del PC domestico. E’ un errore che probabilmente dipende dal sostrato della lingua sarda, di cui la Murgia è figlia giustamente orgogliosa, che non distingue le vocali aperte da quelle chiuse.
Nulla di che, dunque. Solo che è bello correggere Michela Murgia su queste piccole cose.
Sentite, lo so che queste notizie ve le do con il contagocce, ma non è colpa mia se le cose capitano una dietro l’altra e dovrò pure informarvi anche se non ve ne frega niente di quello che dico.
Dal 15 maggio entrerà in vigore una nuova normativa europea in tema di privacy. Non ho avuto tempo nè modo di leggerla o di approfindirla, ma pare che gli adempimenti per chiunque gestisca un sito web siano molti. Siccome ho molte cose da fare (e non sto a dettagliarvi quali) non ho né tempo né voglia di adeguarmi a questa normativa solo per il fatto di detenere gli indirizzi IP e gli indirizzo e-mail di chi commenta, quindi a partire da subito i commenti WordPress e quelli da Facebook sono stati disabilitati dalle pagine del blog. Da qui al 15 maggio cancellerò tutti i commenti ricevuti fin qui (ma sì, anche quelli in cui sono stato pesantemente insultato, che erano così carini!) e spero di poter vivere un po’ in pace, senza dovermi stare a sbattere ogni giorno per il solo fatto di gestire un blog, cioè uno spazio in cui io esprimo delle opinioni, e che tale dovrebbe rimanere, anche in termini di tempi da dedicargli. E’ una questione meramente economica: se non ho tempo da dedicare allo scrivere i post perché questo tempo viene completamente assorbito dagli adempimenti sulla privacy, che razza di senso ha tutto questo?
E lo so (non venite quindi a dirmelo) che i commenti sono una parte vitale di un blog, che senza di quelli non c’è il contraddittorio (Dio che razza di palle ‘sto contraddittorio!), che non è democratico parlare senza dare la possibilità di replica, ma diciamoci la verità: questa opportunità (quella di commentare) l’avete usata pochino pochino, e se non intressa a voi esprimere la vostra opinione, figuratevi a me, che, peraltro, la esprimo già.
Questi devono essere tempi crudeli e di totale generale disorientamento se un politico (e, dico, un politico) che siede in Parlamento grazie ai voti dei suoi sostenitori, ma che per la Costituzione rende conto all’intero popolo italiano, che, oltretutto, gli paga un lauto stipendio, scrive “un’orizzonte” con l’apostrofo.
E’ successo a Laura Boldrini e le ho fatto “tana” su Twitter solo ieri sera. E il bello è che i follower che hanno commentato (tranne uno, immaginate chi?), siano essi favorevoli o contrari alla politica boldriniana, non se ne sono minimamente accorti, continuando, imperterriti e noncuranti, ora a tessere le lodi ora a lanciarle vagonate di pomodori marci virtuali via web.
Chiariamo bene: io sono perfettamente convinto che Laura Boldrini sappia molto bene come si scrive “un orizzonte”, e che sia consapevole che l’apostrofo non ci va. Non addebito questo errore all’ignoranza. Ma alla sciatteria sì. A quell’atteggiamento precipitoso, cioè, che fa sì che una persona (certamente gravata da decine di impegni) dedichi a pubblicare un contenuto un tempo estremamente limitato. Si scrive, poi non si rilegge, si preme “pubblica” (e “pubblica” vuol dire esattamente “rendi pubblico”, “diffondi”), pare che vada bene così, poi si scivola sulla buccia di banana. Non è esattamente quello che si dice un atteggiamento rispettoso nei confronti dei lettori. O, come in questo caso, dei follower, che non ti chiedono minimamente di scrivere per loro, se lo fai è perché sei TU che hai qualcosa da dire, e il minimo che si possa pretendere è che tu lo faccia nel modo più corretto possibile.
I follower di Paolo Attivissimo, si sa, sono tanti. Ma proprio tanti. Sulla loro suddivisione, però, Ilaria Bifarini ha postato un’interessante indagine che rileverebbe come il 44% dei followers del cacciatore di bufale sarebbe costituito da account che non corrisponderebbero necessariamente a quello che viene dichiarato (dai followers, si intende, non da Paolo Attivissimo). Poco male, succede a tutti di avere qualche fake. Il problema è che le percentuali nel caso di Attivissimo sono davvero grosse e il fenomeno da “fisiologico” rischierebbe di trasformarsi in “patologico”.
Ecco il post di Ilaria:
Sono stato per anni un grande fan di Paolo Attivissimo.
Di lui mi piacevano la chiarezza espositiva, l’innegabile capacità di fare divulgazione e un sottile sense of humor che non guastava mai. Una volta, mi ricordo, spesi 42000 lire per il suo libro “Da Windows a Linux”. Mi sembrarono un bòtto allora e mi sembrano un bòtto ancora oggi. Ma ho come attenuante il fatto che allora fossi molto giovane (e scemo).
Ultimamente, però, trovo che abbia pisciato fuori dal vaso diverse volte. Ho provato a farglielo notare con tutti i mezzi, dai più delicati ai più virulenti, ma non c’è stato verso. Fino a che non ha censurato un mio commento sul suo blog (sì, avete letto bene) e mi ha impedito l’accesso ai suoi post su Twitter (sì, avete letto ancora bene).
Chiarito che considero la censura di Paolo Attivissimo alla stregua di una medaglia al valore lasciate che vi spieghi tutto da principio:
Attivissimo, sul suo blog, si è offerto di fare operazione di debunking di un film “lunacomplottista” (è nota l’avversione di Attivissimo per i complottisti, ma questi sono esclusivamente fatti suoi), per l’esattezza “American Moon” di Massimo Mazzucco, dietro donazione volontaria di una cifra (non prestabilita) di denaro a favore di Medici Senza Frontiere. Ho fatto presente a Paolo Attivissimo che su una pagina del Corriere si evince che l’associazione ha ammesso 24 casi di molestie e abusi sessuali al proprio interno, con 146 denunce e 19 licenziamenti. Apriti cielo e spalancati terra! Risponde Attivissimo: “E quindi? Vogliamo tirar letame anche addosso a tutti i loro membri onesti che curano malattie a migliaia di persone in condizioni spaventose?” Che, voglio dire, vista così non è che sia una di quelle risposte che ti convincono a primo impatto, perché dànno per scontato il fatto che anche se si è verificato uno scandalo al proprio interno, MSF sia comunque una associazione degna di ricevere delle donazioni. Siccome io la penso in maniera diametralmente opposta, glielo ho fatto presente, ma mi sono sentito dare dell'”attaccabrighe” (beh, sempre meglio che “tirar letame”, anche se ho fatto notare che MSF il letame se l’è tirato addosso da sola, autodenunciandosi per i reati e i fatti già noti in materia sessuale). Perché guai a far notare la verità. E va beh, ho chiesto a Attivissimo se non provasse un po’ di imbarazzo nel richiedere donazioni liberali per il proprio lavoro a favore di un’associazione così vulnerabile dal punto di vista dell’etica, ma non ho ottenuto risposta. O, meglio, l’ho ottenuta, ma non da Attivissimo. Mi ha risposto un suo adepto lettore che non ho ben capito che cosa c’entri, ma va bene anche così, non è detto che si debba sempre essere coerenti nella vita.
Lo scambio di battute è arrivato fino al punto in cui un mio commento (sempre senza insultare nessuno, ma sempre criticando, criticando, criticando -ed è questo che dà fastidio!-) non è stato fatto passare dal fitto colino della moderazione del blog “Disinformatico” (dove, pure, avevo ricevuto serie ininterminabili di rampogne e accidenti vari dalle solite prime damigelle di corte), e, qualche ora dopo, provando ad accedere dal mio account Twitter all’account @disinformatico di Paolo Attivissimo, ecco la risposta:
Oh, ma questa è proprio una disdetta. E adesso come farò senza i lunacomplottismi del giorno? Facile! Basta disconnettersi da Twitter, cercare con Google la stringa “disinformatico twitter”, cliccare sul primo link dei risultati della ricerca e voilà:
L’account Twitter è perfettamente leggibile. Poco importa se non potrò dire quel che penso all’autore, ho sempre un blog.
Tra i tweet di Attivissimo che mi piace segnalare c’è questo:
La differenza fra l’Internet libera e Facebook è tutta in questa schermata. Se le dai fastidio, Facebook ti mette il bavaglio.
Non sei in piazza, dove valgono le leggi: sei in una proprietà privata, dove vale l’arbitrio del padrone di casa. https://t.co/2gDe6xZjSE
E’ bellissimo perché è di un Kitsch e di un surreale folle (oltre che a produrre un irresistibile umorismo involontario). Dice di Facebook: “Non sei in piazza, dove valgono le leggi: sei in una proprietà privata, dove vale l’arbitrio del padrone di casa.” E dopo 24 ore mi butta fuori. Giuro che se non lo stessi vivendo in prima persona non ci crederei. Perché quando ti impediscono di parlare hai sempre vinto. Non hanno argomenti, non ti attaccano più sulle tue idee ma sul personale. A conclusione di tutto questo, Paolo Attivissimo, sul suo blog, mi ha definito così:
Ce n’era bisogno? Era proprio indispensabile?? Io credo di no. Ma il gioco è appena cominciato, e sarà divertentissimo chiosare gli scritti di Attivissimo su questo blog.
—
Aggiornamento del 20/3: Come ho scritto e dimostrato nell’articolo “Per una disamina del seguace medio di Paolo Attivissimo”, il mio post sul blog “Disinformatico” è stato sbloccato alcune ore più tardi.
I quotidiani non fanno che parlare di docenti che “amano” le loro alunne.
Il verbo “amano” si intende in senso puramente sarcastico e distaccato. Non le amano affatto, in realtà. Approfittano del loro ruolo di educatori dei nostri stivali per circuire ragazzine minorenni (ma anche se fossero maggiorenni la cosa non cambierebbe di una virgola), mandare loro SMS e messaggi sconci via WhatsApp quando va bene, o intrattenere laide relazioni sessuali con loro quando proprio si arriva al limite del sopportabile. Vladimir Nabokov aveva descritto tutto questo in “Lolita”, ma quello era un romanzo, mentre questa è realtà quotidiana e, si sa, i giornali amano rimestrare nel torbido.
Intendiamoci bene, per questi individui ci sono il licenziamento in tronco e la galera. Senza attenuanti e senza scuse. Non è che “sentirsi dire micio bello e bamboccione” da una ragazzina, farsi mandare delle fotine in cui l’amata fa delle cosine fuori dalla grazia di Dio, sia una roba che ha costo zero. I rischi ci sono e sono reali anche quelli, non è che sottovalutandoli li esorcizzi, e approfittarsi della fragilità psicologica di un minore è roba da infami.
Ma in sede di rinnovo del contratto di lavoro per gli insegnanti (il precedente contratto è scaduto 9 anni fa, è bello vedere come si agisce con celerità quando si tratta di diritti e doveri da codificare) si è pensato bene di estrarre il classico coniglio dal cilindro, di trovare la figata pazzesca, l’idea che risolve tutti i problemi: aggiungere al contratto una sorta di decalogo per la deontologia professionale, in cui sia inserita una norma che impedisca agli insegnanti di avere contatti via SMS, Facebook, WhatsApp, Instagram e chissà quante altre diavolerie, che non siano strettamente necessari per la didattica. Cioè praticamente tutti.
Non so se questi signori addetti alla compilazione delle nuove norme, con una sfilza di prèsidi lancia in resta, hanno mai avuto a che fare da vicino con i fanciulli di oggi, ma è certo che la trovata istrionica di vietare contatti telematici dimostra la scarza aderenza delle norme con la realtà scolastica. I ragazzi ti guardano dappertutto. Sul telefonino (possono avere il tuo numero di telefono per decine di migliaia di motivi, io un anno lo diedi per gestirmi la mia ora di ricevimento settimanale e ogni tanto mi arrivavano messaggi per la buonanotte, Forza Juve, prof ma domani abbiamo il kompito?, ennò che non ho studiato), su Facebook (conosco decine di insegnanti che hanno tra le loro “amicizie” di Facebook decine e decine di alunni minorenni che “sì, ma io lo faccio solo per farmi mandare le faccine, i gattini, i bacini, le stelline”, sì però intanto ce li hai e lì restano), su WhatsApp (così ti mandano i messaggi e, stronzetti, controllano anche se e quando li leggi, poi non contenti si incazzano anche se non gli rispondi), su Twitter (ho un alunno che mi mette i cuoricini su tutti i post che faccio, anche su quelli di cui non capisce nulla, poi viene in classe e mi chiede chi era Peppino Impastato, eh, ci vorrebbero delle mezze giornate per spiegarlo, altro che un’oretta striminzita in cui, comunque, dovrei fare anche altro), su Instagram (e qui mi fermo perché non ho Instagram e non mi interessa averlo, ma so che di danni ne fa abbastanza anche lui). Coi ragazzi puoi avere un rapporto simpatico e cordiale. Ti può capitare di dire loro per quale squadra tifi e loro, implacabili con i loro telefoni mezzi sgangherati, ti scrivono per dirti “Ahahahahahahah, oggi avete perso” -ah sì? E dire che io non me ne ero nemmeno accorto-). E poi ci sono le cose più delicate. Un insegnante non è una persona che si limita a entrare in un’aula, fare un’ora di lezione, uscire e resettare i sentimenti, spesso è una sorta di confessore, di psicologo ambulante, le ragazzine (soprattutto loro, ma anche i ragazzi ultimamente sono più aperti da questo punto di vista) ti parlano di loro, dei loro amori, delle loro speranze, delle loro illusioni. “Aiuto, Profe, mi ha mandato un messaggio che non vuole vedermi più, che faccio??”
Tutto questo, se venisse approvata la soluzione proposta, costerà fino al licenziamento, in barba alla libertà di corrispondenza garantita a ogni cittadino, e senza minimamente passare per un giudice ordinario (del lavoro o no che sia). I reati sono reati, e per quelli ci sono la magistratura e il carcere (anche preventivo). Ma se io non commetto nessun reato io comunico con chi mi pare. Minorenne o maggiorenne che sia. Senza limitazioni di sorta. E invece tutti colpevoli potenziali per colpa di qualche colpevole reale. E poi ce li voglio vedere i prèsidi a comminare sanzioni ai loro professori perché si sono scambiati la schedina con i loro alunni e questo non rientra nel novero del didactically correct.
L’altra sera, su Twitter, ho avuto uno scambio di messaggi con Paolo Attivissimo. E ora sono qui a pavoneggiarmi.
Lui aveva trovato un lancio dell’agenzia ANSA che riportava, nel titolo, un evidente refuso (“Trumo” per “Trump”). Pochi giorni dopo individuava un “Gualtierio” per “Gualtiero”. Piccole cose. Peccatucci di pochissimo conto. Che però per Paolo Attivissimo sono rivelatori di una pasticcioneria più diffusa che renderebbe sciatti perfino i contenuti. Ho difeso l’ANSA nella discussione perché mi sembravo veramente errorucci da poco, anche se nel titolo fanno un effetto maggiore che non nel corpo dell’articolo o in altre parti della pagina (“il refuso, quando è sistematico, è sintomo di sciatteria che si estende al resto del prodotto.”)
Il mondo del giornalismo italiano è pieno di queste ridicolaggini. Ma mi sono chiesto se questo tipo di errori, in posizioni strategiche, non siano solo il frutto di una banale disattenzione (in fondo la p di “Trump” è vicina alla o e scrive “Trumo” è veramente un batter d’occhio) ma siano addirittura volute per monitorare i siti on line dei giornali succhia-succhia, quelli che riprendono immediatamente il lancio d’agenzia e non fanno nemmeno un lavoro di verifica sulle fonti, sui fatti e, perché no, sull’ortografia.
In fondo, uno dei capisaldi dell’ecdotica, cioè della critica testuale è proprio il fatto che a separare o ad unire in una sola famiglia più fonti scritte è l’errore. Attraverso l’errore si può capire chi ha copiato da chi, per cui se io immetto un errore in un testo scritto per il web (come questo articolo, ad esempio) e voglio vedere in quanti me lo copiano con un semplice copia-incolla, dopo un po’ esce fuori che “Trumo” è stato copiato da una miriade di siti (fonte: Paolo Attivissimo via Twitter)
Oggi ho provato a fare una ricerca col solo termine “Trumo” e l’unica a non aver ancora corretto è stata proprio l’ANSA.
La montagna ha partorito un topolino. Twitter ha annunciato l’implementazione, per le lingue europee più importanti (tranquilli, l’italiano sarà incluso), di una nuova piattaforma che permetterà di postare i singoli messaggi (i cosiddetti “tweet”) in 280 caratteri anziché gli attuali 140. Erano anni che il problema del limite troppo angusto delle comunicazioni del gigante del microblogging si faceva presente mediante le lamentele dei propri iscritti, ma è la prima volta che ci si mette una pezza: lo spazio raddoppia e, così, la possibilità di scrivere stupidaggini.
Funzionerà così: saranno visualizzati ancora solo i primi 140 caratteri del messaggio: per scorrerlo, o per leggere il resto, bisognerà cliccare su un link apposito. Almeno ci saranno la decenza e la prudenza di chiedere il consenso. Eppure 140 caratteri non erano un limite, ma la ricchezza di Twitter. In meno di un SMS dovevi trovare le parole giuste per dire quello che avevi in testa e attirare l’attenzione dei tuoi lettori. Se ci riuscivi, bene, altrimenti vaffanculo, il tuo tweet spariva nel dimenticatoio, come una sfoglia di carta igienica buttata nel cesso poco prima di tirare lo sciacquone (immagine volgaruccia ma efficace).
Come giustamente dice Gianluca Nicoletti in un suo (video)intervento su “ObliquaMente”, la sua rubrica per la versione on line de “La Stampa”,
“L’opulenza di spazio espressivo non favorisce l’intensità del concetto espresso. La forza di Twitter era l’allenamento che imponeva ai suoi utenti a cercare le parole più efficaci per lasciare tracce di sé, in un fiume di punti di vista di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza.”.
Perché bisognava saper scrivere per creare un testo efficace. Bisognava conoscere l’italiano, trovare la parola giusta e breve per farsi ascoltare, come diceva De André, il tweet era una forma d’arte obbligata in uno spazio ristretto, come l’haiku. Naturalmente, il fatto che si trattasse di una forma d’arte non significa affatto che tutti i twitter fossero degli artisti: su un foglio bianco si può fare un bel ritratto o un pessimo scarabocchio. Oddio, non è che raddoppiando il numero di caratteri a disposizione si sia allargato poi così tanto lo spazio a disposizione, si tratta pur sempre di cinque righe striminzite, ma “più caratteri per tutti” non significa necessariamente messaggi di qualità o maggiore libertà di potersi esprimere: una stronzata resterà pur sempre una stronzata, ed è di questo che è fatto il web dei social network, di stronzate. Perché dovresti avere bisogno di 280 caratteri per accompagnare la foto di un gattino, l’immagine di un cuoricino, quella di un mazzo di fiori che non interesseranno a nessuno?? E se hai qualcosa di importante ed interessante da dire, non ti pare che 140 caratteri colpiranno di più l’attenzione di chi legge di una sbrodolatura da 280.
Anni fa (ma molti anno fa) Bill Gates disse che
“256 Kb. di RAM saranno sufficienti per ciascuno di noi”
poi i quantitativi vennero allargati a dismisura e oggi se hai 1 Gb di RAM fai ridere i polli. Cos’è questo cannibalismo informatico? In 140 caratteri non sei capace di esprimere un concetto?? Allora forse non sei in grado di utilizzare Twitter. Tutto lì.
Non lo userò il tweet extra-large. E così spero di voi.
Sono stato per tre giorni in Francia, in un villaggio piccolissimo che avrà sì e no 350 abitanti in tutto e in cui non c’è nulla, ma proprio nulla. Né un chiosco di giornali, né un bar, né un supermercato, né un negozio di qualsivoglia specie. Nulla di nulla. Solo un distributore automatico di baguettes gestito da una boulangerie del paese vicino (ah, ces diables de français…).
Ma internet ci arriva, e funziona, da quel poco o pochissimo che ho potuto vedere, piuttosto bene per le esigenze di un utente medio qualunque.
Ho avuto l’opportunità di farmi prestare un computer portatile collegato al wi-fi di una casa privata. Ho dato la solita occhiata ai miei siti (stanno bene, grazie), alla mia e-mail, ho fatto una ricarica telefonica (non per me, che avevo dimenticato il cellulare sul comodino del letto, ma questa è una storia che vi racconto a parte) e sono andato a vedere prima Twitter (stava bene anche lui) e poi Facebook. E qui sono cominciate le magagne.
In pratica Facebook ha visto che qualcuno si stava collegando al mio account da un computer non italiano (orrore!!) e con un browser inconsueto (terrore e disonore!!). Hanno fatto due più due e hanno pensato “Ahah!! Questo è sicuramente un tentativo di hacking, adesso i solerti 007 di Zuckerbourg, lì, bloccheranno il problema alla radice. E mi hanno sospeso l’account. Cazzo, ma una imbecillata più imbecille non la sapete inventare?? Sono rimasto, dunque, senza Facebook per un giorno. Fino a quando, cioè, sono tornato a casa, ho preso il mio telefono (che era sempre lì sul comodino ma, ve l’ho detto, questa ve la racconto a parte) e mi sono collegato. Mi hanno detto che l’acconto era stato bloccato perché un maramaldo (che poi sarei io) ha cercato di intrufolarvisi dentro dalla Francia. Evviva! Ora, vi immaginate se tutti i fornitori di servizi usassero questa politica? Uno non potrebbe più mandare una mail da un posto che non sia la sua residena abituale, collegarsi alla propria banca per consultare gli estratti conto o i movimenti della propria carta di credito, disporre operazioni di transazione, spedire una raccomandata on line. E’ una logica perdente: è il mio account che mi segue, mica io che devo andargli dietro collegandomi da dove gli pare a lui!
Questo è successo. Il pensiero è sempre il solito: essere il più possibile indipendenti in internet paga e se ci si affida a Facebook ci si ritrova prima o poi ad avere grane che non si sono andate a cercare. Sarebbe meglio evitare. Ma ormai ci sono invischiato come una mosca nel miele.
Sulla Torino-Bardonecchia un extracomunitario è stato fermato mentre stava procedendo in bicicletta. Il poliziotto che lo ha fermato lo ha ripreso in un filmato della durata di 51 secondi in cui si sentono, tra le altre, queste parole che riporto così come le ho trovate sul sito della agenzia ANSA (toh, poi dite che non vi dico le fonti di quello che scrivo!): “Risorse della Boldrini, ecco come finirà l’Italia: tutti su una Graziella in autostrada a comandare” “Voi che amate la Boldrini, voi che avete voluto questa gente di m… in Italia. Goditi questo panorama. Voi e tutta la Caserma: guardate qui. Un tipo che pedala sulla Graziella pensando che sia una strada normale, con le cuffiette in testa. Fosse arrivato un camion e gli avesse suonato, manco se ne sarebbe accorto. Condividete signori, condividete”. Lo hanno più che giustamente sospeso dal servizio. Nonostante questo sulle pagine dei quotidiani nazionali, sui forum, su Facebook, Twitter e quant’altro, che hanno riportato, rimbalzandola, la notizia ci sono opinioni, commenti e tweet di tenore sentitamente opposto. Cioè, per i lettori, il poliziotto non solo avrebbe fatto bene a dire quello che ha detto e fare quello che ha fatto (incluso l’insulto a un’alta carica dello Stato) ma che avrebbe dovuto meritare addirittura un encomio.
La notizia ormai è vecchia, ma i commenti restano sempre lì a dimostrare che gli hashtag #iostocon… sono in agguato, e che noi siamo un popolo in cui la normalità si è ormai definitivamente persa. Voglio dire, che un poliziotto che invece di reprimere un comportamento illecito e pericoloso, come quello di andare in bicicletta in autostrada, gioca a fare Spielberg creando un video per la diffusione a una serie indeterminata di soggetti, in cui getta discredito sulle più alte cariche dello Stato (dimostrando di non saper distinguere tra la carica in sé e la persona che quella carica ricopre), poi è normale che venga sospeso. Ma me lo aspetto che venga sospeso. Perché la normalità è questa. Se ti permetti queste uscite mentre sei in servizio, a svolgere una funzione per la quale sei pagato coi soldini di tutti il minimo che possa pioverti addosso è una bella lavata di capo dai superiori. E non c’entra niente la libertà di opinione che sarebbe andata a sparire. Quella ce l’hai sempre e comunque, il web è pieno di dipendenti pubblici che hanno il loro blog, la loro chat list, la loro pagina Facebook e il loro account Twitter. Ma un’offesa è un’offesa, e questa fiumana di gente che batte le manine perché le piace stare dalla parte di chi fa le spalle larghe pare non l’abbia nemmeno tenuto in considerazione. Ma davvero che cosa pensava la gente, che gli regalassero una medaglia al valore?
Il web è diventato questa tragica desolazione, lo sfogatoio di gente che non sapendo di non aver ragione non sa più dove andare a dire ciò che pensa, “tanto sul web si può”, “tanto in rete è tutto permesso”, “tanto siamo su Facebook, mica nessuno mi farà qualcosa”, “ma no, dài non succede niente”.
E’ vero, non succede niente. Finché non succede qualcosa.
Avrei voluto scrivere, e a lungo, sulla vicenda della tesi di dottorato del Ministro Madia che presenterebbe ampie parti coincidenti o molto simili a quelle di altri studiosi suoi precedenti.
Dicevo, avrei voluto scrivere ogni volta che ci fosse stata qualche novità rispetto a quanto emerso dalla indagine del Fatto Quotidiano, e che mi pare ben documentata, di quelle documentazioni che ti fanno andare “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Avrei voluto farlo ma non l’ho fatto. Perché il tema mi tocca particolarmente e, dato che ho una certa sensibilità al riguardo, ho preferito tacere.
Oggi però un paio di cosette le vorrei dire.
La prima è che il copiare in una tesi di laurea o in un qualsiasi altro lavoro scientifico è un atto riprovevole e contrario a qualsiasi forma di rispetto del lavoro altrui e di decenza accademica. L’unica volta che ho copiato in vita mia fu durante un compito di matematica alle medie. C’era da sommare un quarto più un quarto e il mio compagnuccio scrisse un ottavo. Io, pur molestato dal dubbio, lo ripresi pari pari e la professoressa, che Dio la conservi, mi diede quattro (e fece bene!). E’ fondamentale sapere SEMPRE cosa va dentro e cosa va fuori le virgolette e ande da dove lo si è preso e chi l’ha scritto. Non basta, come si è difesa la Madia, citare quei lavori in bibliografia. Perché in bibliografia metti le opere che hai consultato (e si spera che tu le abbia lette una per una), ma non tutto di quello che hai consultato l’hai citato e il tuo lettore deve sempre avere sott’occhio il percorso che stai facendo, sapere se a parlare sei tu o una tua fonte.
La seconda è che non mi piace per niente la piega che sta assumendo il prosieguo della vicenda. Lo stesso giorno dell’uscita delle 45 slide con la collazione del testo-Madia e del testo originale fatta dal Fatto Quotidiano, la Madia ha annunciato querela. Non so se poi l’abbia anche proposta, come sembra, ma di certo davanti a una mole davvero impressionante -o, se vogliamo essere cauti nel parlare, consistente- di dati non c’è stato un commento che fosse uno che andasse nel merito. Nessuno che abbia detto “Al contrario di quello che afferma il Fatto qui le virgolette ci sono” oppure “qui non è vero che manca la citazione”. No, si è passati subito dalle contestazioni al “Valuteranno i giudici”. Che, per carità, è anche un diritto (come ho scritto quella sera stessa alla Madia via Twitter), ma non permette di dare una risposta alla domanda “Quel lavoro è stato copiato? [e per dare una risposta a questa parte di domanda basta la documentazione messa a disposizione del Fatto]. E se sì con quale grado di mala fede, ma, soprattutto, a quale scopo?”. Sono cose che non sapremo mai.
Fatto sta che proprio quella sera non ce l’ho fatta a tenere i polpastrelli lontani dall’account Twitter della Madia e le ho scritto “Suo diritto ricorrere ai giudici. Ma se dovesse perdere (come credo) la causa, che fa, si dimette? L’articolo mi pare ben documentato.” Tutto lì. Mi hanno risposto dei fan piuttosto incazzati chiedendosi chi mai io fossi per poter presagire che non ci fosse materiale per permettere alla botticelliana di riscattare il suo onore e quello della sua tesi stralciati. LA risposta è semplice. Sono un lettore, ho visto il materiale a corredo degli articoli, mi pare che le accuse siano provate, viviamo in un paese in cui esistono ancora la libertà di espressione, di critica e perfino di satira, la Madia è un personaggio pubblico, quindi quella notizia e quella documentazione sono di pubblico interesse. Mi hanno dato del verme, dell’incompetente, di tutto di più. Ma la cosa più fastidiosa sono stati i continui like e le notifiche dei retweet. Ovviamente non riguardavano il mio intervendo, ma quelli dei miei detrattori, e più detrattori avevo più fili-PD andavano ad insozzarmi la bacheca con i loro “bravo!”, “Oh, sì, come dici bene!!” “No, sei più brava tu!”, “No, guarda, come sei bravo tu non ce ne sono…” E così via.
Ho dovuto togliere il mio intervento per aver espiato la pena (non potevo stare a cancellare centinaia di notifiche, Twitter è uno strumento che serve ad altro!), ma ve ne do contezza in questo post. Almeno tra di noi ci si capisce!
io non La conosco, io non so chi è. E a parte la parafrasi di un famoso pezzo di Mina, credo che le nostre esistenze telematiche si siano incrociate proprio stamattina, quando, per caso, sono venuto a conoscenza del Suo tanto vituperato tweet di un paio di giorni fa a proposito della mise di Diletta Leotta non proprio adatta all’uopo di parlare del tema del cyberbullismo che, pure, l’aveva ingiustamente riguardata.
Ho letto anche che il Suo intervento è stato ampiamente criticato e che, forse, è stato proprio questo inestricabile groviglio di critiche a indurLa a scrivere un messaggio di dietrofront, chiedere scusa per i toni e per i contenuti (insomma, ammettere la disfatta totale) e procedere oltre nella Sua attività twittaròla.
Personalmente, invece, non ho trovato nulla di offensivo in quello che ha scritto, che mi è parso equilibrato, per nulla sessista e particolarmente adatto alla circostanza. Ne ho condiviso toni e contenuti (e le mie opinioni sono riportate in un altro articolo del mio blog) e se proprio devo dirla tutta (e DEVO dirla tutta!) se c’è qualcosa che non ho gradito è stato il suo fare marcia indietro così presto, lo scusarsi per qualcosa che oggettivamente non c’era né nella forma né -sicuramente- nelle intenzioni, il pubblicare un “mea culpa” che non aveva nessuna ragion d’essere.
Forse il diluvio di opinioni contrarie sarà stato insostenibile, anche per una twitter dalle spalle larghe come le Sue. Ma, mi creda, Lei non è in difetto. Ritiri le scuse e cammini a testa alta.
l’altro giorno, sul mio account Twitter/Facebook (tutti i miei tweet appaiono su FB automaticamente) ho inserito un intervento che, come è mio solito, non era particolarmente gentile con Fabrizio De André. Era il giorno dell’anniversario della sua morte e volevo andare un po’ in direzione ostinata e contraria anch’io.
Mi risponde un utente che, senza per nulla entrare nel merito di quello che avevo scritto (abitudine piuttosto radicata nell’utenza Facebook) fa un apprezzamento (“scherzavo”, dirà più tardi) sulla mia vita privata.
L’apprezzamento dell’utente (di cui ometto il nome, ma tanto tutto ciò di cui parlo è pubblicamente disponibile) mi fa saltarei gàngheri. Perché un [pre]giudizio sulla mia persona e sulle mie relazioni familiari quando ho espresso semplicemente un’opinione su un compositore di canzonette? Non è dato saperlo o forse sì. L’utente stava scherzando e stai a vedere che adesso la colpa è anche mia che sono troppo permaloso (sì).
Decido di togliergli l'”amicizia”, questo brutto nome con cui i facebookari chiamano quelli che più appropriatamente dovrebbero dirsi i CONTATTI. Tanto, mi dico, sarà poco male, potrà comunque, come tutti, leggere quello che scrivo e intervenire quando vuole (vedete cosa si ottiene a essere troppo buoni?)
Ma non basta. L’utente insiste e allora decido di fare una cosa che faccio molto di rado: bannarlo.
Un ban su Facebook, per intenderci, esclude a vicenda i due “contendenti” dalla reciproca visione dei contenuti e dall’accesso ai commenti.
Scrivo anche un post (solo su Facebook, in quanto più lungo dei 140 caratteri previsti da Twitter) in cui spiego cos’è successso. E faccio Nome e Cognome dell’utente bannato. Per carità, nessun tipo di offesa, solo il fatto che avevo bannato il signor Nome e Cognome e perché.
Apriti cielo e spalàncati terra!Mi giunge un tweet da un certo signor Nickname che non faccio fatica a ricondurre al signor Nome e Cognome di cui sopra (già, ma non ne ho la benché minima conferma). Mi dice che è scorretto che io inserisca nome e cognome del signor Nome e Cognome in un post dopo averlo bannato (scorretto? Forse, ma non vietato), mi invita ad eliminare il post (non si vede proprio il perché, è legittimo che io parli con chi voglio di chi ho bannato e perché) e mi diffida dal ripetere (ripetere cosa non è chiaro, a parlar male di De André?). Il tutto “ora”. Cioè subito. Cioè immediatamente, poco importa se uno guarda le notifiche di Twitter una volta la settimana.
Gli rispondo chiedendogli nome e cognome. Mi sembra corretto e doveroso. Non me li fornisce e decido di non rispondere oltre. Questo blog e i miei account Twitter e Facebook vanno sotto il mio nome e cognome e non vedo perché non posso pretendere altrettanto dai miei interlocutori.
Tutto questo per un ban. Che, voglio dire, è una cosetta semplice, quasi da nulla. Succede tutti i giorni. Mi è successo decine di volte di essere bannato da gruppi di discussione, mailing-list, newsgroup (tremendi questi, se almeno esistessero ancora) e quant’altro, non ho mai diffidato nessuno e, soprattutto, non ho mai fatto conderazioni personali sulla vita familiare di nessuno.
Ma si sa, c’è chi batte i denti, chi prende il ritmo e chi ci balla sopra.
Sul sito de “La Stampa” è apparso un commento di Gianluca Nicoletti, giornalista, conduttore radiofonico, scrittore e polemista, sulla necessità di intervenire a livello scolastico sulla mancanza di educazione digitale dei nostri giovani (espresssione che reputo orrenda, ma la uso tanto per capirci).
Il tutto, dopo che tremila persone hanno ridiffuso un filmato hard di una sedicenne di Torino che faceva sesso nel bagno di una discoteca e che a Sestri Levante un’altra minorenne è stata ripresa e “condivisa” sui social network dai coetanei mentre pestava una dodicenne.
Nicoletti afferma che
“Non si potrà veramente parlare di «buona scuola» in Italia fino a quando, per legge, non si formeranno insegnanti specifici di «Educazione alle relazioni digitali».”
e propone di
“introdurre il «social networking» come materia obbligatoria sin dalle classi elementari.”
La scuola come rimedio di ogni male, come pronto soccorso emergenziale quando le emergenze sono già dilagate in tutta la loro gravità, è una concezione senza dubbio comoda, ma che non guarda ai problemi nella loro interezza. Del resto, fateci caso, la scuola dovrebbe occuparsi, si veda il caso, di educazione alla legalità, di educazione alla lotta alla mafia, di educazione alla diversità, di contrasto del bullismo, di sensibilizzazione a una sessualità responsabile, di individuare i casi più problematici e se ne potrebbero aggiungere ancora tante.
In breve, bisognerebbe -secondo Nicoletti- far sì che i “nostri ragazzi” di cui sopra imparassero che riprendere una ragazza che massacra di cazzotti una compagna più piccola di lei e poi far circolare il video è una cosa sbagliata. Ma lo sanno già. Ed è per questo che lo fanno. Perché è sbagliato, perché è proibito, perché non si può, perché non si fa.
E il filmino della sedicenne di Torino è stato “amplificato” da tremila persone, non una. Ora, che queste tremila persone siano state TUTTE dei ragazzi e delle ragazze in età scolare non ci credo. Vuoi che non ci sia stato qualche maggiorenne a farlo circolare su Facebook o su Twitter?? Ma mi ci gioco tranquillamente la testa e spero solo che la polizia postale li abbia individuati e che ora si stiano grattando il capo a ripensare a quel che è successo, e che non è vero che sui social network puoi fare tutto quel che ti pare, no, non puoi.
E’ evidente che questi comportamenti sono dei calchi di modelli familiari, dove, bene che vada, questi ragazzi hanno dei genitori che hanno a loro volta il loro bravo profilo Facebook e lo riempono di emerite stronzate, per un gusto esibizionistico e una pruderie ormai consolidati. Mi si dirà che rimbalzare una clip di sesso in discoteca è brutto, è sbagliato, è male. Ma perché, mettere le foto dei propri figli minorenni (quando non addirittura infanti) sui social, a far vedere al mondo intero che Pierino è sul vasino, che mangia, che sorride, che è imbronciato, che piange, tutto questo invece va bene, sì?
E poi ci dovrebbe rimettere mano la scuola, quando a sei anni i bambini sono abituati ad essere delle vere e proprie star delle reti sociali, protagonisti di scatti e di selfies a profusione (perché anche tu, genitore, non ce lo vuoi far giocare tuo figlio col tuo iPhone del piffero, che ti sei indebitato per trenta mesi per averlo e che se ti compravi uno smartphone ci facevi le stesse cose e risparmiavi pure?) e di commenti al limite del neurodelirio tipo “Bello!!” “Amoreeeeeeee…” “Ma quanto è caro/a!” e diluvi di “Mi piace”, imparando da subito che più sei cliccato più hai visibilità più sei figo.
Eppure per qualcuno non resta che la scuola. Che dovrebbe anche, peraltro, essere un posto dove si insegnano italiano, storia, geografia, matematica, scienze, religione…
C’è quel luogo comune che dice che “le sentenze si rispettano“. Che è un po’ come dire che non ci sono più le mezze stagioni o che la frutta non ha più lo stesso sapore, cioè tutto e nulla. Ma, soprattutto, nulla.
De Magistris, ex magistrato, ora sindaco di Napoli, è stato condannato in primo grado a 15 mesi di reclusione per abuso d’ufficio. E’ stata anche disposta l’interdizione dai pubblici uffici per un anno e una provvisionale complessiva di 20.000 euro alle parti civili. Sia la pena principare che quella accessoria sono state sospese.
Non mi interessa se De Magistris sia colpevole o innocente, deve dimettersi, e subito.
La prima e più diretta ragione che mi viene in mente è che è stato condannato all’interdizione dai pubblici uffici, e anche se il reato per cui è stato punito non ha nulla a che vedere con la sua carriera politica di sindaco, riguarda comunque quella di magistrato, quindi si tratta di fatti verificatisi nel suo rapporto con la pubblica amministrazione. Ed è questo quello che non va. Non è stato processato per aver comprato una stecca di sigarette di contrabbando, ma per il modo in cui ha gestito la sua funzione pubblica. Se un insegnante compra un CD tarocco da un marocchino e lo processano, pur se condannato potrebbe non rischiare il posto di lavoro. Ma se corregge il registro con la scolorina e mette un 5 dove sotto c’era un 6 (magari perché ha sbagliato) commette un falso in un atto pubblico.
La legge Severino che prevede la sospensione dell’imputato dalla carica di sindaco, con un atto del Prefetto, è in vigore e pienamente operante. Che piaccia o no. De Magistris ha ribadito: «Vorrebbero applicare per me la sospensione breve, in base alla legge Severino, un ex ministro della Giustizia che guarda caso è difensore della mia controparte nel processo a Roma. E la norma è stata approvata mentre il processo era in corso.» Sì, va beh, e allora?? Di chi sia difensore la Severino non mi pare abbia poi tutta questa importanza, il fatto che la norma sia stata approvata mentre il processo era in corso (da quanto tempo?) ne ha ancor meno, perché la funzione delle Camere è/sarebbe quella di legiferare sempre, non quando c’è il sole o quando i parlamentari si svegliano col piedino giusto, o hanno fatto sesso la notte precedente. E poi cosa c’entra la legge Severino con il processo penale? Non è il giudice di merito che applica la sospensione, ma il prefetto sulla base della sentenza.
De Magistris è innocente? Probabilmente sì, ma proprio per questo deve difendersi come può e dove vuole. Intanto nelle sedi opportune attendendo le motivazioni della sentenza. Poi dove gli pare. Su Twitter, su Facebook (ma questo già lo fa), sulla stampa, rilasciando interviste, tenendo conferenze stampa, ma da privato cittadino, per piacere.
E’ inutile che mi vengano a dire che “non si è colpevoli fino a sentenza definitiva passata in giudicato“, perché è una stupida torsione del dettato costituzionale.
Io faccio sempre lo stesso esempio e lo faccio anche adesso: se mia figlia ha come insegnante uno che è stato condannato in primo grado per pedofilia, lui non sarà (ancora) da considerarsi colpevole (certamente!), ma col cazzo che nel frattempo continuo a mandare mia figlia a lezione da lui!
Facciamo anche un altro esempio: Giuseppe Bossetti è in carcere, accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. Non c’è stato nessun processo, anzi, siamo ancora alle fasi preliminari. C’è il suo DNA sugli indumenti della vittima, io non lo so quanti di questi falsi garantisti da competizione gli farebbero riaccompagnare la loro figlia o la loro moglie a casa, sostenendo che è innocente. Eppure nessuno l’ha ancora dichiarato colpevole neanche in primo grado.
Si difenda, dunque, De Magistris, ha ancora due gradi di giudizio per farlo. La magistratura, di cui lui faceva parte, non sarà tutta parte di quello “Stato profondamente corrotto” (se n’è accorto anche lui!), come l’ha definito. Se no rispolveriamo la vecchia ma sempre adatta a tutte le stagioni tiritera berlusconiana dei giudici politicizzati (o della politica giustizialista, ça dépend). Quei giudici che l’hanno condannato in primo grado dovranno anche dimettersi, forse avrà ragione lui, ma nel caso venisse ulteriormente condannato devono dimettersi anche quelli di secondo grado e di Cassazione?
Deve dimettersi anche per questa sconcertante dichiarazione: «Chiedo a chi ha la forza di andare avanti, a chi vuole giustizia e non legalità formale di mettercela tutta. Quando il quadro appare così confuso appare anche più chiaro chi sta lavorando per mettere le mani sulla città. Quello che dobbiamo fare è far capire ai nostri cittadini che la posta in gioco è alta, al di là di ogni distinguo». Ma non esiste la giustizia. Esiste, appunto, solo la legalità formale. De Magistris, da magistrato, sa bene che chi giudica non fa giustizia, ma applica la legge se ce ne sono i presupposti. Il concetto di giustizia, spesso è molto vicino a quello di vendetta. E’ per questo che le pene si quantificano. L’omicidio di un bambino da parte della madre grida dagli inferi la rivendicazione di una pena all’ergastolo. Eppure una madre per questo reato è stata condannata a 16 anni. Che è legalità formale (le attenuanti, le diminuenti, l’applicazione dell’indulto, delle norme del regolamento carcerario etc…) e nulla più. Ma, del resto, non abbiamo null’altro che questo. Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.
Ps: Leggo dal casellario giudiziale di Wikipedia: “Il 22 luglio 2013, Luigi de Magistris, il presidente della regione Campania Stefano Caldoro e il presidente della provincia di Napoli Luigi Cesaro vengono iscritti nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dell’America’s Cup: le accuse sono di turbativa d’asta (per la scelta del socio privato della società di scopo ACN, costituita per la prima edizione, senza rispettare le procedure di evidenza pubblica) e per abuso d’ufficio (per la trasformazione, avvenuta in occasione della seconda edizione, di ACN da societa di scopo in societa strumentale permanente).”
Il babbo di Matteino il Renzi, indagato (il su’ babbo, no Matteino), ha detto ai giornalisti che lui, facendo fede ad un famoso hashtag del pargolo twittante, è “sereno”.
Oggi Denis Verdini è stato rinviato a giudizio con l’ipotesi di finanziamento illecito ma si è affrettato a dichiararsi “sereno” anche lui, nel mentre che la giustizia fa il suo corso.
Tutti sotto il giogo di pubblici ministeri, giudici per le indagini preliminari e magistratura giudicante di merito, tutti pronti ad affrontare, se serve, il giudizio fino alla Cassazione, eppure son tutti sereni come un cielo blu.
Ho sempre pensato che chi si ritrova addosso anche solo un avviso di garanzia dovrebbe essere tutto men che sereno. Può essere incredulo, stizzito, incazzato, impaurito, terrorizzato, ma sereno no. Soprattutto se è effettivamente innocente rispetto a ciò di cui lo si accusa. La risposta alla domanda dei giornalisti “Come si sente dopo questo atto della magistratura?” potrebbe essere “Eh, mi cào addosso!“, non “Sono sereno!” Cazzo c’entra la serenità? Con una pendenza giudiziaria una persona onesta non ci dorme la notte. “Ha fiducia nel lavoro della magistratura??” “Ma no di certo. E’ chiaro che se hanno inquisito una persona innocente del loro lavoro c’è solo di che aver paura. Sereno io? Sereno una bella sega!”
E invece questa ostentata calma serafica, questo ridicoleggiare le accuse, questo mostrarsi al di sopra di ogni psicosomatico sciogliersi del corpo non fanno altro che alimentare la rabbia dell’opinione pubblica, la stessa che, come me, aveva lasciato l’aggettivo qualificativo “serena” attaccato a una canzone di Gilda Giuliani.
Era un bel po’ di tempo che non parlavo più di Laura Boldrini.
Era diventata, per me, poco più di una passante che ti urta o ti pesta un piede. Ti fermi, le dici di stare più attentina la prossima volta perché guarda l’ il callo, poi riprendi la tua strada, mastichi qualche bestemmia e dopo altri tre o quattro passi ti sei già dimenticato del nome e del viso di chi si era posto impunemente in mezzo al tuo passaggio.
Invece rieccola, la Boldrini, con un tweet che denuncia la sua (personalissima, s’intende) preoccupazione per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. E lì ti càscano i diociliberi, perché la prima cosa che ti si stampa nella mente come un flash è che nel 1993 si è votato un referendum proprio sullo stesso tema e che la maggioranza degli italiani si espresse a favore della cancellazione dell’odioso prelievo politico dalle tasche dei cittadini. Successivamente l’infida consuetudine fu reintrodotta con vari nomi e nomignoli su cui è doveroso stendere un velo di pietà.
Quello su cui, no, non bisogna stendere alcun velo è il fatto che una persona che occupa un’altissima carica dello Stato dimentichi questo dato fondamentale di democrazia diretta e non si voglia piegare a un elemento evidente che deriva dall’esercizio diretto di diritti sacrosanti sanciti dalla Costituzione.
Perché la Boldrini è così contraria all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti? Semplice, perché un “sistema democratico deve garantire a tutti l’accesso alle cariche pubbliche”. Oh!
Ma il sistema è democratico proprio perché chi viene votato maggiormente ha maggiore possibilità di accesso alle cariche pubbliche, chi viene votato di meno avrà una rappresentanza minore e di controbilanciamento (altri la chiamano “opposizione”), sono secoli che funziona così e nessuno ci vede niente di strano, a parte la Boldrini che è stata candidata alla Camera con un partito che da solo non sarebbe riuscito a vedersi rappresentato e che ha dovuto coalizzarsi con il PD, ma questo inciucio le ha permesso di essere eletta allo scranno più alto di Montecitorio.
La cosa che desta particolare meraviglia non è tanto il fatto che ci si limiti a manovrare la materia del finanziamento pubblico ai partiti dalle stanze buie e polverose del palazzo (ora lo so cosa mi risponderebbe la Boldrini: “Parli per sé, nel mio ufficio non c’è nemmeno un granello di polvere!”), ma che queste esternazioni vengano scritte, così, senza pensarci troppo, magari fidando nel fatto che su Twitter uno scritto ha, solitamente, vita breve.
Stamattina, verso le 10, ho acceso la Radio su GR Parlamento (ormai anche Radio 3 sta diventando inascoltabile per il marcato carattere filogovernativo delle trasmissioni informative del mattino).
Trasmettevano, probabilmente in replica, la conferenza stampa della Presidente Laura Boldrini, in occasione della cerimonia del ventaglio.
Immancabile la domanda sul rapporto tra le istituzioni e i social media, alla quale la Boldrini ha risposto, con entusiastico slancio, che la Camera dei Deputati è felicemente su Twitter, su Flickr e su Instagram, e che presto avrà anche lei la sua pagina Facebook.
Oh!
Ora le domande sono: e allora? Qual è l’interesse pubblico della notizia? E si pretenderebbe anche una risposta.
C’è gente (come me) che ha un account su Twitter da anni e, giustamente, questa non è una notizia. Anche perché se si dovesse fare una “caso” di ogni account Twitter aperto si intaserebbero le agenzie di stampa.
Cos’hanno fatto, dunque, quelli della Camera dei Deputati? Hanno fatto né più né meno che quello che facciamo un po’ tutti, hanno sottoscritto alcune condizioni, hanno settato un paio di permessini, hanno messo on line una fotografia di sfondo e, come tutti, possono usare un canale loro dedicato.
Nessun capolavoro della potenza informatica, dunque, nessuna alta espressione dell’ingegno umano, piuttosto è assai singolare come ci sia gente che è su Facebook da anni e un’istituzione non vi abbia ancora aperto la sua pagina. Mentre gli utenti invecchiano sul social network più amato dagli italiani la Camera dei Deputati non riesce (ancora) a fare vagiti e ruttino.
Il distacco da parte delle istituzioni nei confronti della gente, si vede anche da questo: sonnecchiamenti diffusi (su Twitter molti messaggi sono dedicati ad avvertire il pubblico di quando iniziano e quanto finiscono le sedute) e poi, quando si tratta di stringere, è tutto uno sventolar di orgoglio di appartenenza alle forme più trendy della comunicazione.
Ricordo che tempo fa un’impiegata della Biblioteca di Empoli sventolava per ogni dove il fatto che da quel momento in poi fosse possibile comunicare con l’ente anche via Skype. E in fondo che cos’era stato fatto? Era stato installato un programma (o una APP, come si dice oggi con orrida tendenza contrattiva), niente di più.
E la Camera non è da meno. Solo che al di là dell’orgoglio c’è la rabbia fallaciana di doversi sottoporre alle critiche degli utenti. E lì stà l’inghippo. Perché impedire i commenti della gente proprio non si può, ma nemmeno pagare qualcuno che stia lì solo a guardare chi offende e chi no e cancelli ora questo ora quell’altro intervento.
Perché è questa la Camera. Vecchia, polverosa e un po’ disordinata.