Ma il cancro non è uno spettacolo

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E’ tempo di outing. Nadia Toffa, Sabrina Scampini, Daria Bignardi, personaggi più o meno pubblici che hanno avuto un tumore (per il 100% donne) hanno deciso di raccontare la loro esperienza attraverso la TV o attraverso una intervista (le più discrete) alla stampa nazionale. Cosa spinga una persona che ha avuto un’esperienza così orribile come la scoperta di un cancro e le relative cure devastanti a metterci la faccia e andare in televisione a parlarne non si sa. Probabilmente è qualcosa che fa bene, che mette a nudo, che vuol dire “guardate, sono qui, con la mia parrucca e il mio fisico provato”, o, forse, più semplicemente, significa “ce l’ho fatta”. A prescindere dal fatto che quella persona ce l’abbia fatta veramente o meno.

Nadia Toffa è stata la prima in ordine di tempo ad apparire sullo schermo delle Iene per dire al suo pubblico (e non solo al suo, evidentemente) che è stata male, ma che in due mesi ha scoperto di avere un tumore, ha fatto la diagnosi, si è operata, si è sottoposta alle chemioterapie e radioterapie di rito ed è clinicamente guarita. Tempi da record, prima ancora di affermare che radio e chemioterapie sono le uniche armi per curare un tumore, proprio lei che fa parte dell’équipe di una trasmissione che ha rivendicato la presunta validità delle cosiddette cure “alternative”, dalle cellule staminali ai frullatoni di aloe, passando per l’Escozul (dalla contrazione dell’espressione castigliana “Escorpión azul”), il veleno degli scorpioni cubani azzurri (poi mi spiegheranno perché proprio quelli cubani, nelle altre nazioni non sono diffusi?), di cui io stesso avevo cominciato ad occuparmi quando la dottoressa Ester Pasqualoni, barbaramente assassinata nel giugno scorso, mi faceva pervenire preoccupanti lettere da La Habana da tradurre in italiano e mi chiedeva aiuto per dissuadere i pazienti che volevano farne uso. Perché c’è gente che ha bisogno di molto più di due mesi, e che arriva alla fine delle terapie stremata e senza forze, altro che parrucchina trendy e buonumore dal tubo catodico (ammesso che esistano ancora televisori col tubo catodico). Perché se prendi l’Escozul e non fai la chemio o la radio poi peggiori e probabilmente muori.

Perché di cancro si muore nella stragrande maggioranza dei casi. Queste donne rampanti, che teletrasmettono se stesse attraverso l’etere, che entrano, “sfondandola”, nella TV e nelle case degli altri, o non hanno idea di quello che è loro capitato (cosa che non voglio neanche pensare) o hanno avuto un gran culo a guarire in tempi rapidissimi e a riprendersi la loro vita.

La Scampini ha riferito: “E’ vero che ti senti una guerriera, e ogni volta che entri in un reparto di oncologia tu hai intorno a te tante guerriere.” Ed è questo che non torna. Questa immagine da guerriera che si vuol lanciare a chi guarda e a chi legge. E’ vero che un cancro si combatte, ma è anche vero che in una guerra molti guerrieri cadono in battaglia e c’è chi non ce la fa a tornare a casa, ai suoi affetti, alla sua famiglia, alla sua attività lavorativa, alla sua vita di sempre, perché bene che ti vada un cancro la vita te la cambia per sempre. Ma come si fa anche solo lontanamente a pensare che “Sì, è vero, ho avuto un cancro, ma adesso è tutto a posto, sto bene, sono guarita, giriamo pagina e facciamo finta che non sia successo niente”? Guerrieri di che? Se mi diagnosticassero un tumore io mi cagherei sotto, altro che guerriero! Vuol dire che queste tre donne saranno mille volte migliori di me, ma che cos’è, un gioco a chi è più bravo o un dramma personale? Il guerriero è quello che sa di poter morire da un momento all’altro nello scontro con il nemico. Perché anche il nemico ha armi molto efficace e ti può uccidere quando vuole. E allora non guarda in faccia a nessuno. Madri di famiglia, bambini, figli, padri, colleghi di lavoro, amici cari. E nessuno che sarà più lo stesso, dopo.

C’è una critica anche per Daria Bignardi. Che riferisce nella sua intervista: “Chi è ammalato considera la propria malattia il centro del mondo, ma anche se ho rispetto per chi sta soffrendo in questo momento, parlare pubblicamente della malattia in generale, o peggio ancora della mia, non mi interessa.” E allora non si sa perché abbia rilasciato pubblicamente informazioni sul suo vissuto, sulla parrucca che indossava (la testimonianza inoppugnabile, per chi ha a che fare con te, che sì, hai avuto o stai curando un tumore), e poi “ Si ammalano milioni di donne, a cui va tutto il mio affetto”. Ma perché, gli uomini non si ammalano di tumore? Nemmeno un pochino di affetto anche per loro?? Il cancro è una malattia squisitamente al femminile? E perché mai? Tutte domande che non troveranno una risposta. Inventeranno una parola come “femminicancro” prima o poi. E farà molti più danni di “femminicidio”, questo è certo, perché avrà per oggetto la donna-guerriero che ce la fa sempre e comunque.

Dicevo all’inizio di questa eccessiva spettacolarizzazione del problema. Ed è vero che non tutti quelli che si ammalano di cancro hanno a disposizione una rete di Berlusconi e un programma seguito come “Le Iene” o “Quarto Grado” (addirittura in prima serata quest’ultimo). Se io mi ammalassi di cancro (già, e perché non dovrebbe capitare proprio a me?) mi riterrei già fortunato ad avere a disposizione un blog attraverso il quale veicolare i miei pensieri e le mie emozioni. E mi chiedo che cosa sarebbe stato se il tumore avesse colpito qualcuno della redazione di “Report” o di “Presa diretta” su una rete del servizio pubblico nazionale. Perché per la gente la televisione di denuncia è solo ed esclusivamente “Le Iene”, e allora la notizia di una malattia a una dei presentatori, giovane, piena di vita, carina e nota per aver scavato nelle magagne della realtà che ci circonda, salvo poi intoppare nel veleno degli scorpioni cubani, è un evento che fa audience sul serio.

Ma il cancro non è uno spettacolo.

Il “principe libero” fa aumentare gli accessi di valeriodistefano.com

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Negli ultimi due giorni, in concomitanza con la messa in onda della fiction sul cosiddetto “principe libero” dedicata a Fabrizio De André (fiction che mi sono ben guardato dal vedere in TV), il blog ha registrato un’impennata di accessi, concentrati soprattutto sul post dedicato alla “Canzone dell’amore perduto”, che mi ha apportato tante antipatie di cui vado orgoglioso.

Siete stati veramente un putiferio, e con questo apporto massiccio, quel post sta per diventare il più cliccato in assoluto (mancano, allo stato attuale, un paio di centinaia di accessi).

Troppo onore, non me lo merito. Ma guardate che ci sono più di altri 4000 post che parlano d’altro, quindi volendo si possono anche leggere. Mi raccomando.

La gauche-tsatsiki – Demis Roussos: goodbye and au revoir

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Il segreto di un blogger non è parlare di una persona solo quando è morta, ma possibilmente anticipare gli argomenti finché è viva. E di Demis Roussos avevo parlato anni fa, per cui andate a rileggervi il post e saprete.

Oggi che Demis Roussos non c’è più, mi viene da pensare che faceva parte di quella schiera di artisti “europei” che hanno fatto delle loro canzoni una sorta di chiave universale, un passepartout per unire le nazioni del vecchio continente tra 45 giri, LP, musicassette e stereo 8. Come gli Abba, Nana Moskouri, Caterina Valente, Salvatore Adamo, Charles Aznavour, Mireille Mathieu, Di Stefano ora basta, Demis Roussos ha cantato addii (Goodbye my love goodbye), amori (My only Fashination), tormenti spirituali (Profeta non sarò). Cantando in varie lingue, tra cui il tedesco, è stato uno dei primi ad abbattere il muro di Berlino già negli anni ’70 apparendo alla TV della DDR vestito da santone con tuniche enormi, la barba lunga, i capelli alla Kabir Bedi in Sandokan (solo che Demis Roussos ce li aveva già da prima).

In breve, ha fatto più per l’Europa Demis Roussos di quanto non possa fare Tsipras che, difatti, la prima cosa che ha buttato sulla carta è stato un accordo con la destra. E mentre Demis Roussos cala nella fossa, intellettuali come Mikis Theodorakis si staranno rivoltando nella tomba.

E, naturalmente, chi sta applaudento a Tsipras oggi è la stessa gente che al quarto scrutinio delle votazioni per il Presidente della Repubblica italiana applaudirà il candidato imposto da Renzi. Non è neanche più gauche-caviar. E’ solo gauche-feta che torna tragicamente a gola e non c’è gauche-ouzo che ne permetta la digestione.

Ebola Day

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E’ tutto pronto, non manca proprio nulla. Qualche poveraccio morto in condizioni igieniche e sanitarie precarie, un morbo per cui non si conosce vaccino, telecamere, giornalisti quanto basta.

E’ lo spettacolo del terrore che inizia, basta accendere la TV. Era già successo con l’AIDS negli anni 80, la malattia dell’edonismo reaganiano, ed è continuato con l’influenza aviaria, per cui tutti a guardare le anatre che migravano in cielo, con la speranza che non ci cagassero proprio sugli occhi.

Ogni dieci anni qualcuno si ricorda che c’è da smaltire quella fornitura di farmaci antivirali stoccati da qualche parte. Oppure che la gente ha una paura fottuta di morire, ça dépend. E facendo leva su questa paura da una parte, e sull’ignoranza dall’altra si realizza ogni giorno un film dell’orrore, di quelli dozzinali, che avevano titolo tipo “L’ultima notte nella tredicesima casa”, “I morti viventi vincono ancora” o “Non bussate alla mia finestra”. Quelli in cui lo vedevi lontano un miglio che c’era il trucco, e anche fatto male.

L’ebola non è altro che questo. In Spagna, dove una infermiera sta morendo, non si parla d’altro. Siti web e quotidiani sono letteralmente pieni dell’argomento “ebola”. La gente non sa più che fare o che dire. Hanno anche assassinato il suo cane per la psicosi che fosse portatore di malattia, bastardi. Rajoy ha già dichiarato che più di questo non si è in grado di fare (dopo il cane potrebbe provare a sparare a un rinoceronte per vedere di nascosto l’effetto che fa, soprattutto se lo prendi di striscio) ed è subito caos mentale.

Noi in Italia ci salviamo perché nessun contagiato ha (ancora) toccato il nostro suolo. E’ accaduto in Spagna, dunque è una cosa che riguarda loro. Siamo talmente imbecilli da credere che un virus, nel propagarsi, osservi strettamente i confini della cartina geografica, senza pensare che viviamo in un’Europa in cui c’è libera circolazione di persone e merci, dunque anche dei virus.

Ma durerà poco. Soprattutto se i giornali non avranno altri argomenti da proporre ai lettori.

559

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La notizia di questi ultimi giorni è che ogni italiano spende in media 559 euro ogni tre mesi nell’acquisto di “dispositivi”. Cioè 186,33 euro al mese, e 2236 euro l’anno.

Ogni italiano. Anche i neonati nelle incubatrici e i vecchietti ospitati dalle case di cura e di riposo.

Va detto, a scanso di equivoci, che i “dispositivi” sono quelli elettronici (TV, radio, telefonini, tablet, PC, triccheballàcche…). No, perché esistono anche i “dispositivi” intra-uterini e certo giornalismo da strilloni non ci dice che quelli stanno fuori dal computo. Ingrati.

Ho fatto il calcolo di quello che succede a casa mia: abbiamo un televisore vetusto che sta cominciando a dare cenni di cedimento perché ogni tanto l’immagine sembra passata attraverso i filtri di Instagram, ma la TV la guardiamo poco. Svariati apparecchi radio sparsi un po’ per tutto l’appartamento perché la radio, quella sì, ci piace e tanto. In camera radio e TV. La radio è un regalo di nozze, quindi ha più di 10 anni, mentre la TV era quella che usavo nel mio appartamentino da single in Veneto e di anni ne ha una dozzina. Sia io che mia moglie abbiamo da “mantenere” uno smartphone ciascuno, nel senso che una volta al mese lo ricarichiamo di 15-20 euro. Quello di mia moglie è nuovo, il mio ha già un paio d’anni. Anche il PC è vecchiotto. Almeno 5 anni. Ma con Linux riesce a funzionare ancora bene e in maniera accettabilmente veloce. Siamo lontani dai 186 euro al mese.

Siamo una famiglia anomala, non cambiamo il telefonino una volta ogni tre mesi come fa l’italiano medio, perché se no 559 euro di spesa ogni tre mesi non si spiegano. Così come non si spiega l’evidente contraddizione tra le gente cha piange miseria e si lamenta perché prende 1000 euro al mese e poi ne sputtana il 18,6% in cazzatine tecnologiche perché di comprare da mangiare, evidentemente, si può fare a meno, ma di avere l’ultimo modello con cui fotografarsi i piedi per spedire la foto su Facebook e con cui pavoneggiarsi con gli amici, mentre le bollette incalzano.

Ci meritiamo tutto quello che abbiamo, governo Renzi compreso, e molto di più.

“In famiglia conviene averne quando serve!”

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Photo by Sage Ross (ragesoss.com), from Wikimedia Commons. Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported.

C’è una pubblicità di un noto medicinale di marca a base di ibuprofene di cui non faccio il nome, ma è il Moment, via, che mi torna spesso in mente in questi giorni.

C’è una signora che esce dalla farmacia, incontra una sua amica e le mostra la (nuova) confezione del Moment da 36 compresse (200 mg. ciascuna). L’amica pare entusiasta dall’idea di poter fare una scorta, lo compra anche lei, esce e in quel momento incontrano un signore che si ferma a sua volta piacevolmente stupito dal nuovo formato della confezione, e, soprattutto, dalla prospettiva di avere per lungo tempo la possibilità di accedere al medicinale una volta acquistato.

Una delle due donne, nello spot, dice che “In famiglia conviene averne quando serve”.

E vissero tutti felici e contenti.

Premetto che io sono un accanito sostenitore dell’uso dell’ibuprofene negli stati dolorosi. Compro il generico (mi dispiace per la casa farmaceutica che lo produce, ma pecunia non olet) nella versione da 400 mg. E generalmente passa tutto. E’ una confezione da 12 compresse e mi basta per un lungo periodo di tempo. Non posso farci nulla se soffro e ho sempre sofferto solo saltuariamente di mal di testa.

Ma 36 compresse in versione-scorta… o è una famiglia in cui tutti (compresi i bambini) soffrono di cefalea ricorrente oppure l’idea è che si possa comunque comprare un medicinale in quantitativi maggiori a quelli strettamente necessari.

Voglio dire, se ho l’influenza vado in farmacia a comprare l’Aspirina. Mi dànno un astuccino di compresse (deglutibili o effervescenti) che dovrebbero, ragionevolmente, essere sufficienti ad affrontare i sintomi fino alla guarigione.
Poi me ne avanzano cinque o sei e le tengo lì per tutte le evenienze o per farle scadere. Se ne ho ancora bisogno la compro di nuovo. E’ questo il concetto dell’approccio al farmaco “da banco”.

La “scorta” farmacologica è un approccio nuovo. La signora che dice che “conviene averne quando serve” è molto giovane. Avrà due figli piccoli, così, a spannòmetro. E non si dànno le compressine per il mal di testa ai bambini. Quindi le prenderanno lei e suo marito, non penso abbiano in casa una nonna, una zia, una madre possibilmente vedova che faccia ricorso alla pasticca ad ogni dolor di capo.

Finora la confezione-gran-risparmio era quella dei frollini per la colazione del mattino, dei pannolini per la cacca, del detersivo per la lavatrice.

Adesso l’occasionalità della cura diventa rito quotidiano. La scatola nell’armadietto dei farmaci perché “non si sa mai”. Ma la normalità è che uno stia bene, non che stia male. Si sta male una volta ogni tanto, non in modo continuativo da giustificare una quantità superiore alla norma di medicinali in casa, sia pure a prezzo vantaggioso. Non è che uno dice “Oddìo, è finito il latte, meno male che ne ho una scorta in cantina, se no domattina non si faceva colazione!” Se hai un mal di testa, non hai nulla in casa e la farmacia è chiusa te lo tieni. Oppure bussi alla vicina e chiedi.

Magari non ha proprio quello che vuoi tu, però forse fa effetto lo stesso e ti sei fatto anche due chiacchiere.

Vanessa strangolata a Enna: un’arma mancata di distrazione di massa

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Oggi il caso di Vanessa ha occupato per qualche ora le prime pagine dei giornali on line.

E’ possibile che se ne parli a lungo, o forse no, della storia di questa ragazza di Enna, uccisa con un cavo del lettore DVD solo perché, durante un incontro intico col fidanzato, aveva osato profferire il nome del suo ex.

Si sa, sono cose di una gravità inaudita agli occhi di una persona che pare avesse fatto uso di cocaina, e allora l’unico mezzo per lavare l’onta subìta è quella dell’omicidio.

Omicidio che rimbalza per la giovane età della vittima (20 anni), per il dolore del padre (chissà che cosa si aspettavano i giornali, che avesse un composto e serafico contegno di manzoniano perdono?), per le foto della madre distrutta, per un crimine, che se l’assassino non fosse stato indotto, con un tranello, a confessare le sue responsabilità, oggi resterebbe impunito, o quanto meno con un sospettato in galera o iscritto sul registro degli indagati. Sarebbe diventato, in altre parole, un’arma di distrazione di massa.

Da Avetrana a Melania Rea, dalla scomparsa di Roberta o Mariella all’omicidio di Yara Gambirasio tutto è diventato spettacolo. Perfino il dolore e la morte, che sono quanto di più intimo appartenga a una persona. E’ un continuo ripetersi di dinamiche: c’è sempre lui, il compagno, il fidanzato, il marito, a essere arrestato, indagato o semplicemente sospettato.
L'”amore criminale” diventa un “serial televisivo”, storie sempre uguali da sviscerare e riaggomitolare per poterle sfruttare al meglio quando ci sono degli spazi da riempire.

Occuparsi di altro per non ricordarci lo scippo di democrazia e di diritti democratici perpetrato ogni giorno ai nostri danni. La trasformazione della tragedia in telenovela è il nuovo sport nazionale.

Massimo Scaglioni – La tv dopo la tv. Il decennio che ha cambiato la televisione: scenario, offerta, pubblico – Edizioni Vita e Pensiero

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Presentazione del libro di Massimo Scaglioni (editore Vita e Pensiero)

MP618026

da: http://www.radioradicale.it
Licenza: http://creativecommons.org/licenses/by/2.5/it/

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Le rivolte contro chi?

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Sentite, io ve lo devo dire con il cuore, non ci sto capendo un cazzo.

C’è un sacco di gente che dice che la verdura e la frutta cominciano a a scarseggiare nei supermercati, non lo so, sarà anche vero, ma io tutta questa corsa all’accaparramento non la vedo, si disegnano scenari da Apocalipse Now, benzina che finisce, TIR fermi ai caselli e alle frontiere, si parla di Italia che esplode, ma soprattutto si paventano scioperi. Dicono che in Sicilia ci sono i "forconi", ma nessuno ci spiega cosa siano, protestano tutti, tutti, dai pastori sardi ai commercianti dell’Oltrepo Pavese.

Protestano, va bene. Ma per ottenere cosa? E, soprattutto, contro chi??

Pare che tra un’ora circa quelli di "Servizio Pubblico" capitanati da Santoro proveranno a spiegarci qualcosa. Sì, e lo faranno ospitando in studio Enrico Letta (Pd) e  Roberto Castelli (Lega Nord), insomma, allegria e chiarezza espositiva, moderazione di termini e dibattito pacato trasuderanno a fiotti da tutti i pori della trasmissione di Santoro e io andrò a dormire con le idee ancora più confuse.

Io non lo so chi siano tutti questi agricoltori, autotrasportatori, pescatori, imprenditori, benzinai, taxisti coi coglioni girati più della rotazione della terra attorno al proprio asse, ma posso quasi quasi azzardare che una percentuale di loro ha votato per Berlusconi e per il suo governo alle ultime elezioni.

E allora mi chiedo, con l’ingenuità e il candore che mi contraddistinguono, cosa vogliono? Vogliono dirci che con il governo Berlusconi eravamo SOLO sull’orlo del baratro mentre adesso, con il governo Monti ci siamo dentro? Mi sembra una magra consolazione, tenuto conto anche del fatto che Berlusconi sta appoggiando Monti e che oggi Bossi, con espressioni degne del miglior galateo, lo ha tacciato da "mezza cartuccia".

E’ un’Italia incazzata, indubbiamente, la nostra, ma senza sapere contro chi o contro cosa. Contro la casta dei politici che si mantiene i privilegi mentre i cittadini hanno sempre minori possibilità di accedere a beni e servizi? Ma se è così da decenni! Siamo davvero buffi noi italiani, ci càpita di svegliarci la notte e ci accorgiamo che sì, a mezzanotte è buio. Oppure che le navi vanno sottocosta a fare l’inchino e che no, non si dovrebbe fare, che se Schettino avesse dato subito l’allarme si sarebbero potuti salvare tutti, e che se la mi’ nonna Angiolina ciaveva le ruote era un carretto.

Proprio noi, che abbiamo fatto l’inchino all’onorevole di turno dagli albori della storia della Repubblica ci lamentiamo che il nostro paese si incaglia e si rovescia su un fianco!

“Questo e’ un vero tatuaggio!”

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C’era una pubblicità della Renault che mi piaceva da matti.

Era quella di un giovanotto che va a scuola, parcheggia la macchina davanti al portone al momento dell’uscita, i bambini escono correndo, lui allarga le braccia e invece del bambino gli corre incontro la maestra, oltretutto carina anche con le calze di nylon della nonna, e tutti lo guardano con invidia.

Dava un senso meraviglioso e liberatorio di giustizia. Voleva dire che anche un giovanotto non particolarmente strafigo in jeans e maglione poteva arrivare a un tocco di sventola come la maestra.

Adesso la pubblicità è cambiata.

Adesso c’è una madre che guida una vettura della Renault e che si accorge che la figlia, anche lei appena uscita da scuola (perché la scuola c’entra sempre), si è fatta un tatuaggio.
"E quel tatuaggio?? Cosa ti è venuto in mente???", domanda la madre alla figlia (già cresciutina rispetto agl’infanti che uscivano dalla lezione con la maestrina di cui sopra) nel momento in cui accidentalmente la ragazzina ha il fondo schiena scoperto.
Scandalizzata perché la pargola si è marchiata a vita con un disegno di cui potrebbe pentirsi? Figuratevi! Arrabbiata perché lo ha fatto senza il suo consenso?? Ma non fatemi ridere!!! Cosa fa allora la madre? Si tira giù la zip posteriore della gonna e le fa vedere un tatuaggio variopinto aggiungendo: "Questo è un vero tatuaggio!" come per dire "Ragazzina, sei una dilettante!"

In effetti la ragazzina la guarda con una faccia tra lo sbalordito, il timoroso, il deluso e il compassionevole:

Ma ormai è fatta, la madre ha insegnato alla figlia come ci si fa un tatuaggio serio e ridendo e scherzando l’accompagnerà sulle strade difficili e tortuose della vita. Chissà, magari un giorno le spiegherà anche se viene richiamata dalla scuola perché va in giro succintina mostrando il pancino,  la colpa è degli insegnanti che non sanno neanche farsi un tatuaggio comme il faut, poveri repressi che non sono altro!

La morte di Marco Simoncelli e la retorica del cordoglio a tutti i costi

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Io non amo guardare le corse motociclistiche e automobilistiche in TV. A parte il fatto che non mi interessano, non capisco cosa ci trovi la gente.


Ma la gente fa un sacco di cose strane, quindi non mi dovrei stupire se qualcuno tra il sabato e la domenica si sveglia di notte e guarda un evento di questo genere in collegamento diretto da Sepang, chè poi sono i nomi di queste località che nella conoscenza geografica delle persone ricorrono una volta all’anno (Sepang, Jerez de la Frontera, Nurburgring, Hockenheim…) quasi a dimenticare che oltre ad avere un circuito per questo genere di pirlate sono anche località in cui la gente vive, lavora, opera. E muore.

La gente pensa che chi va in moto o corre in automobile sia invincibile, perché  sono persone che scivolano sull’asfalto prendendo per la tangente in modo mirabile, come se pattinassero sul ghiaccio o sul sapone, si rialzano e vanno a piedi verso i box, corsa finita, certo, ma almeno hai portato a casa la pelle. Il che ti fa percepire come un immortale, come uno che è riuscito a fregare la Grande Signora. 
E quando accade che qualcuno muore (come Villeneuve e Senna) entra subito nel mito.
La morte ti rende un eroe.
Come sta diventando un eroe questo povero ragazzo, questo Simoncelli, di cui non avevo mai sentito parlare prima d’ora. Anche questa è bella. Uno muore, specialmente in circostanze tragiche, e tutti lo conoscono. Da vivi si riesce tutt’al più a diventare famosetti.
Proprio perché ci sono aspetti della vita di cui uno è disinteressato.
E’ morto Andrea Zanzotto e molti avranno detto "e chi era?" perché magari non hanno mai aperto un libro di poesie in vita loro, non vedo perché, con la morte (avvenuta in modo tragico, ne convengo) del signor Marco Simoncelli, chi non segue le vicende di corse e gare motociclistiche e automobilistiche non possa dire altrettanto.

E quando succedono queste cose i commenti dei lettori sui siti web dei giornali diventano sinceramente imbarazzanti. Su "Repubblica" scrivono: "Difficile credere a questa tragica notizia." Già, e perché? La gente, purtroppo, muore. Continuamente, e nei modi più disparati. Perché stupirsi se una persona che viene travolta da due moto in rapida successione possa morire?
Il Corriere della sera on Line dà il via ai commenti dei lettori. [1] Ne estraggo solo un paio perché, come è logico, si stanno susseguendo a raffica:

"Che dolore commentare la morte di un ragazzo di 24 anni! Sempre bistrattati e mai considerati, questi nostri giovani figli stentano a trovare spazio e molto spesso perdono la vita tragicamente."
Ci avete fatto caso? L’autore (o l’autrice) parla di "questi nostri giovani figli". Come se il giovane motociclista deceduto fosse un po’ anche figlio suo. La gente proprio non ce la fa a occuparsi solo o precipuamente dei propri affetti, ha bisogno di sentire su di sé il dolore degli altri, come se questo potesse servire (non si sa bene a chi) a lenirlo.
"Stentano a trovare spazio"?? Ora, con tutto il dovuto rispetto verso chi muore, ma non mi pare che il signor Simoncelli abbia "stentato a trovare spazio." A 24 anni era un protagonista del motociclismo mondiale, correva per la Honda, e si può ragionevolmente dire che guadagnasse molto più di un operaio in cassa integrazione o di un lavoratore in nero.
E’ morto. Purtroppo è accaduto. C’è gente che a quell’età muore di tumore. La blogger
Anna staccato Lisa, lei sì che non solo ha stentato, ma quello spazio non l’ha proprio mai trovato. Possibile che il rispetto che si dovrebbe a chiunque muoia abbia un valore aggiunto sempre e solo per gli eroi, possibilmente innalzati sull’altare del mito? E i poveri cristi? Non sono anche loro un po’ "figli nostri"?

Un altro lettore scrive: "In questo triste momento siamo tutti vicini al papà , alla sorella e a tutti i tanti amici di Marco cosi come a tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerlo lavorando al suo fianco."
Dallo stile non sembra esattamente il messaggio di una persona che va a impinguare la bacheca virtuale dei sentimenti del Corriere della Sera, sembra piuttosto il testo di un messaggio di cordoglio di qualche carica dello stato, di qualche persona nota. Cosa vuol dire che "siamo tutti vicini al papà, alla sorella"? Ma perché, li conosceva, forse? E poi "tutti" chi? Ma un po’ di pudore no? Non si può lasciare questa gente a vivere il proprio dolore in santa pace e senza avere la presunzione di esserne un po’ parte anche noi a tutti i costi?

La risposta è no, non lo facciamo.

E quindi buona domenica di commemorazioni, frasi, lacrime spesso di circostanza, SMS che scorrono in basso sulle trasmissioni sportive delle TV locali, vittorie dedicate, e gente che ha parole solo per dire che non ha parole.

Don Andrea Gallo e l’abitudine di dare del tu ai preti

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Bisogna che lo affermi fortemente, che mi dà dimolta noja una abitudine di stampo puramente neo-cattolico, che è quella di dare del “tu” ai preti.

L’occasione, nemmeno a farlo apposta, me l’ha data il fazismo spinto alle estreme conseguenze dell’ultima (o penultima, sinceramente non lo ricordo) puntata di “Che tempo che fa…” in cui era ospite Don Andrea Gallo.

Potrei dire molte cose sull’umana simpatia che sinceramente non mi viene suscitata dall’ascolto delle parole di Don Andrea Gallo, e sul fatto che non ho mai letto uno solo dei pur copiosi libri che pubblica, per il semplice fatto che non ne sento l’esigenza, ma non è questo il conquibus.

Non sopporto che si arrivi, in una trasmissione televisiva, a legittimare questo amicismo spicciolo, questa falsa confidenza -o, se si vuole, questa confidenza falsata- che la gente pensa di avere con i sacerdoti.

Quand’ero piccino, il parroco di Vada, la seconda località in cui ho vissuto, che si chiamava Don Antonio Vellutini e a cui ho dedicato e spero di poter continuare a dedicare qualche intervento sul blog, lo chiamavano Don Vellutini e tutti gli davano del Lei. “Buonasera Don Vellutini… Don Vellutini, mi volevo confessare… Ho messo incinta la mi’ fidanzata, ci sposa Lei Don Vellutini??”

Già chiamarlo più confidenzialmente “Don Antonio” sembrava uno spregio.

Poi… poi nulla… anzi, i tempi dell’impegno, dell’attivismo, dei gruppi, delle comunità. Ecco, ditemi un po’ voi chi ci ha mai capito qualcosa con le “comunità”… Cosa si mette in comune. E sporattutto, perché? Chi è che regge i fili di certo comunitanismo cattolico ad oltranza per cui uno smette di essere se stesso ed esiste in quanto “membro”? Ma membro perché? E anche qui transeat, sono domande a cui nessuno mi darà mai una risposta.

Ma ecco che questo calderone in cui si mischia tutto e si mette tutto in comune, ci fa perdere di vista il fatto che una volta ai preti si doveva un rispetto almeno formale.
Ora, per carità, non è detto che un prete, solo perché è un prete, non abbia e non conservi ancora degli amici personali. Ma sarà a loro che permetterà di dare del “tu”. Che c’entra tutto questo “Sai, vado a fare gli esercizi spirituali con Andrea (o con Riccardo o con Petronio)” -dove Andrea è Don Andrea, e Riccardo è Don Riccardo e Petronio è Don Petronio-.

Fatto sta che Fazio non ha fatto altro che chiamare “Andrea” un sacerdote come se ci andasse a mangiare la cassoela tutti i giorni. E non è mancato nemmeno il classico riferimento a “Faber”, “Faber” che è Fabrizio De André,

“Amori criminali” di Camila Raznovich

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Ogni sabato sera io e mia moglie andiamo a letto un po’ più tardi del solito.

Sarà perché è finita una settimana, perché è ancora inverno e si sta bene in casa, sarà che in camera c’è un piccolo televisore con il quale guardiamo si e no un paio di trasmissioni alla settimana, quando è grassa, sarà che il sabato sera tardi su RaiTre c’è Camila Raznovich che conduce “Amori criminali“.

Amori criminali è una trasmissione che parla di donne uccise dal proprio uomo. Marito, compagno o fidanzato geloso che sia.

Non c’è nulla da ridere, sono tragedie. Di troppo amore, o di amore sbagliato si muore.

E allora mi spieghino perché c’è una sigla allegra che scorre in sottofondo al disegno di un pugnale che ammazza un cuore, sui versi di Oscar Wilde.

Each man kills the things he loves
dadaddààààààaaa daddà-daddààààààaaaa

Che è una vera ingiustizia anche per Oscar Wilde, che quelle parole le aveva scritte per spiegare una estetica, una poetica, un credo narrativo, letterario, iconico, in una parola artistico. E’ Dorian Gray che dà una coltellata al suo ritratto e uccide se stesso. Non c’entra nulla con la storia di donne perseguitate e maltrattate.

Poi comincia la trasmissione con l’esposizione sommaria del caso e la storia dell’amore della povera vittima di turno nei confronti di bastardi inqualificabili che pian piano si rivelano essere quello che non sono.
Non è un film di cui si conosce già il finale, è

Elenco delle cose che mi hanno fatto girare i coglioni in “Vieni via con me”

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– Fabio Fazio che invita (ma per scherzo, sapete?) Milena Gabanelli ad andare a lavorare perché deve pagare tutti i milioni richiesti nelle cause che la sua coraggiosa trasmissione ha ricevuto in tutti questi anni;

Roberto Saviano che racconta le storie commoventi dei morti nella Casa dello Studente de L’Aquila e non denuncia la storia da piangere della mancata ricostruzione e della dignità dei vivi che non hanno più una città che è stata completamente cancellata dalla memoria degli uomini;

Roberto Saviano che continua a pubblicare per la Mondadori e cita l’articolo 34 della Costituzione sulla scuola e le parole di Pietro Calamandrei;

Fabio Fazio che continua a fare la padroncina di casa della RAI nonostante tutto;

Fabrizio De André tirato fuori a sproposito, anche solo con una citazione da "Il Testamento di Tito", perché fa tanto vangelo laico, che, tradotto, significa "cattocomunista";

i balletti su una versione da commento sonoro ai film del muto degli anni venti, suonata con la pianòla scordata, che costano una barcata di quattrini per due o tre minuti di amenità che non si capisce nemmeno cosa vogliano dire;

Domenico Starnone che ci racconta com’è e come deve essere una scuola ideale ma intanto campa coi diritti d’autore delle sue opere e sarebbe bene che tornasse a guadagnare quanto un insegnante che campa solo del suo stipendio, poi lo vedi come gli passano le rùzze da comparsata televisiva;

il Procuratore Nazionale antimafia Piero Grasso che parla di eliminazione di alcune garanzie solo formali per lo snellimento dei processi penali, ignorando che uno stato che  è disposto a eliminare le garanzie a favore di una giustizia penale più veloce probabilmente non si merita né garanzie né giustizia penale più veloce. E anche perché il Dottor Gian Carlo Caselli non direbbe mai una cosa del genere;

don Luigi Ciotti che ha fatto la litania della legalità, che è la stessa cosa che ci permette di dire che Marcello Dell’Utri non può essere ritenuto colpevole del reato di associazione mafiosa perché non è ancora intervenuta una sentenza definitiva passata in giudicato e che Berlusconi è incensurato;

Roberto Saviano che pronuncia "Iòrghe Luis Bòrghes" per "Jorge Luis Borges";

il ringraziamento a Endemol, che fa capo a Berlusconi anche lei.

Via con loro e cosi’ sia

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Dio mio la trasmissione di Saviano, Fazio & C…

Per carità, non che io sia stato del tutto preconcezionista nei confronti di un programma che avrebbe dovuto essere di denuncia, dare un po’ di respiro a una televisione ripetitiva, in cui la cosa più guardabile resta “Ballarò” perché molte trasmissioni si sono degradate, fino a fermarsi poco più in alto di certi rotocalchi da uno o due euro, poco più in basso del più economico dei principi attivi delle benzodiazepine e dei tranquillanti.

Ci si aspettava molto, dunque, e a ragione.

E il successo è arrivato, puntuale, non perché sia stato molto quello che ci hanno dato, ma perché in confronto a quello a cui siamo abituati anche una trasmissione mediocre è da dieci e lode.

Dice “Ma c’era Benigni”. Sì, e allora? Non si ha certo bisogno dei comici per sapere che Berlusconi ha tutto. Lo sappiamo da soli, però non reagiamo. Perché? Perché siamo dei vigliacchi, ecco perché, perché abbiamo bisogno di qualcuno che le cose le dica per noi, perché noi non abbiamo le parole, perché c’è andato gratis, perché paghiamo il canone, perché la vita è bella e lui ha citato “Era de maggio”, perché ha fatto la rima stanze/depandànze, perché Saviano era imbarazzato e triste, perché noi stavamo nella comodità dei nostri divani morbidi, con i piedi stanchi e puzzolenti dentro le ciabatte di casa dopo aver lavorato un giorno intero o dopo non aver fatto un cazzo perché licenziati o in cassa integrazione, e allora chi ce lo fa fare di metterci a pensare se c’è un comico che lo fa per noi??

Che poi, diciamocela tutta: era roba vecchia di 12 anni fa quella di Benigni, gli ha dato una rispolveratina e via, come nuova, ad acchiappare il pubblico sbadato e smemorato della televisione.

Ecco il testo di allora (1998):

Io sono il boss della coalizione:
Casini, Fini e ultimamente Buttiglione.
Io sono il Leader, il Salvatore,
la Provvidenza, sono l’Unto dal Signore.

La Standa è mia, il Milan è mio
e la Marini, la Cuccarini le cucco io;
Mentana, Fede, Paolo Liguori,
la Fininvest, Publitalia, Mondadori,
Vittorio Feltri, i due Vianelli
e – se obbediva – forse Indro Montanelli.

Ci ho Panorama, Assicurazioni,
Milano Due, Milano Tre, Sorrisi&Canzoni,
ville in Sardegna, palazzi a Milano,
un conto a Hong Kong, due a Singapore e tre a Lugano,
arei, navi, banche, libretti,
sei elicotteri, duecento doppiopetti.

Ci ho Tatarella e Fisichella,
Marco Pannella e Franco Zeffirella,
Clemente Mastellla, la su’ sorella,
Gianfranco Funari e la su’ mortadella.

Carlo Rossella del Tiggì Un
è mio, è mio il tigi due di Mimun.
Gianfranco Fini, oh yes, Paolo Maldini
Letta, Lentini, Alessandra Mussolini,
Pierferdinando Casini, Fiorello e fiorellini,
la Mondaini e Roberto Formighini.

Ci ho Via dell’Umiltà, c’ho la Segreteria
a via Dell’Anima de li mortacci mia.
Mi manca la Fiat, ma me la piglio,
come ho già preso a Miglio e Scognamiglio;
sarà ancora mia la Presidenza del Consiglio.

Checchè si dica, è mio anche mio figlio
il Padre Nostro… è solo mio
e cosa nostra non è vostra, è cosa mia.
Di aziende e banche ho fatto il pieno
basta così, domani compro il mar Tirreno.
Ma io compro tutto, dall’a alla zeta…
ma quanto costa questo cazzo di pianeta?!
Lo compro io, lo voglio adesso
poi compro Dio: sarebbe a dire compro me stesso.


Ecco, e ora? Come ci siete rimasti?

Ma, si sa, it’s uònderful, duddudududù…

Lo stesso Saviano aveva cominciato bene, con la fabbrica di fango. Quello che la gente può farti se parli di lei, se la critichi, se ne scopri le magagne è un tema nobile, che richiederebbe tutta la serata.

Ne ha parlato sì e no cinque minuti. Poi è passato a Falcone e fin lì va bene, ma quando ha recitato l’elenco delle azioni sintomo della condizione omosessuale (tipo pulirsi le orecchie col cotton fioc anziché con lo stuzzicadenti che fa più “uomo”) per fare da contraltare a Nichi Vendola (che, da parte sua, ci ha deliziato con la lettura dell’elenco dei sinonimi della parola “omosessuale”, solo che si è dimenticato il livornese “frustone” e il pantoscano “pigliànculo”) ho pensato che ormai avevo completamente espiato la mia pena media giornaliera.

Claudio Abbado che è un monumento è stato fatto parlare pochissimo. La cultura sta andando in malora, ma nessuno ha detto niente. Lo sappiamo benissimo che in Venezuela ci sono progetti meravigliosi che tolgono bambini e bambini dalle strade per educarli alla musica e al senso dell’orchestra, ma proprio per questo bisognerebbe incazzarsi ancora di più: loro tolgono la possibile prostituzione dalle strade e noi la facciamo entrare nei palazzi del potere.

Tremonti dice “Fatevi un panino con la Divina Commedia”, bravo, bravo, oh no, sei bravo tu, ma io guarda che ho visto il tuo concerto e mi sono commosso, no, mi sono commosso di più io a leggere il tuo libro, Pompei crolla, è una metàfora della vita…

Pompei non crolla perché è una metafora della vita, ma perché è la realtà della nostra incuria e dello stallo dell’ignoranza al potere.

Cibùm cibùm-bùm…

E’ morto Tom Bosley, “papa'” Howard Cunningham in Happy Days

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Ci sono persone che quando se ne vanno sembra quasi che se ne vada un familiare, una parte di te, sotto forma di ricordi, o anche soltanto di abitudine.

Ecco,l’abitudine è quella che non muore mai anche se le persone se ne vanno.

E allora addio alla piacevole abitudine bambina, o, quanto meno, adolescente, di guardare Tom Bosley interpretare Howard Cunningham, il papà di Richie in "Happy Days".

Un ebreo che interpretava un repubblicano americano convinto nell’America provinciale di Milwakee negli anni ’50 e che diceva "Maaaaaaaarioooooooon…" sempre con la stessa faccia paciosa e bonacciona.

Beato davvero chi l’ha condiviso.

“Chi l’ha visto?” il caso della morte di Sarah Scazzi

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Verso le 22,40 di ieri sera, durante la diretta televisiva di "Chi l’ha visto?", era in collegamento, tra gli altri, la madre di Sarah Scazzi, una ragazzina, di più, una bambina di 15 anni scomparsa da 42 giorni.

Circostanze e materiale che costituiscono, lo capirete, polpa succulenta per una trasmissione di successo e per l’innalzamento del valore dell’audience, unico parametro, ormai, per il valore intrinseco di un programma pagato con i soldi dei contribuenti e dei cosiddetti "abbonati".

La madre diàfana, marmorea, probabilmente sotto sedativi, guardava il vuoto, ormai non parlava quasi neanche più. E chi non la capisce?

A un certo punto la notizia, battuta dalle agenzie di stampa. Il corpo senza vita della 15enne è stato ritrovato o sarebbe in fase di ritrovamento, grazie al crollo psicologico dello zio che ha confessato l’omicidio dopo più di 12 ore di interrogatorio.

Sono cose terribili, la Sciarelli lo sa. E proprio perché lo sa, cosa succede? Ha lì in diretta la madre affranta, impietrita, oltretutto in collegamento dalla casa dell’assassino e NON chiude il collegamento, no, va avanti fino alle 24 con una pioggia di condizionali d’obbligo, ma più che d’obbligo di indubbio imbarazzo per essere lì ad infierire sulle condizioni emotive di una povera donna a cui sa che tra breve tempo gli inquirenti diranno che la figlia è morta ammazzata proprio da quella persona nella cui casa si è deciso di effettuare il collegamento.

La Sciarelli, come tutta la redazione, non  solo sa quello che sta per accadere o che, per meglio dire, è già accaduto, ma decide di andare avanti in una inutile e pericolosissima spettacolarizzazione del dolore, annullando la messa in onda di "Parla con me" (spettacolino leggero a cui la RAI ha già messo i bastoni tra le ruote politicamente più e più volte, e figuriamoci se davanti al dolore privato la risata pubblica non doveva soccombere!) e arrivando a tenere il respito mozzato allo spettatore fino alla mezzanotte pur di poter dare la notizia in via ufficiale che il corpo ritrovato è quello di Sarah Scazzi, sì, ma soprattutto, che LORO c’erano, che "Chi l’ha visto" era lì, proprio mentre il dolore si faceva più intenso e irreversibilmente personale.

Avrebbe potuto, la Sciarelli, per un po’ di pudore e per quel minimo di rispetto che si deve alla umana sofferenza, di concerto con la redazione, chiudere le telecamere su una situazione che si era fatta fin troppo evidente. Lo ha chiesto alla madre della Scazzi: "Vuole interrompere la diretta??" E cosa poteva rispondere una donna in evidente stato di choc, prostrata da 42 giorni di attesa, intorno alla quale ronzavano mosconi di morte dell’informazione e del diritto alla dimensione privata del dolore, sotto forma di notizie, affermazioni, smentite, condizionale, semvra, pare, non si ha la certezza e quant’altro?? Doveva dire "Ma no, figuratevi, sto benissimo, continuiamo pure, mi hanno solo ammazzato una figlia, cosa volete che sia, è proprio niente rispetto alle esigenze del vostro spettacolo, continuate, continuate pure…"

Avrebbe potuto e, a mio giudizio, avrebbe dovuto farlo.

Perché questa povera donna fosse assistita, magari, da uno straccio di psicologo, sia pure dei Carabinieri.

Invece no, al danno si sono aggiunte le dichiarazioni successive della Sciarelli a Radio Capital: "Mi dispiace che sia successo in diretta".
Le dispiace?? Ma la gente incollata alla TV in attesa di notizie fino a mezzanotte mica le è dispiaciuta!


Avrebbe potuto fare qualcosa per evitarlo e non l’ha fatto. Il diritto ad informare è diventato il diritto a sbattere il più debole in seconda serata in una spirale perversa e incurante dell’altro come soggetto "senziente", chiunque egli sia.

Quanto costa fare una scelta coraggiosa come quella di non mandare in onda una diretta del genere? E quanto costa al cittadino una libertà di essere informato e rispettato che non esiste?

Cose da odiare: le strasmissioni televisive con gli SMS che scorrono in basso

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Non so se anche voi guardiate con lo stesso fastidio con cui appaiono ai miei occhi quelle orrende trasmissioni (per lo più sportive, ma anche no) in cui scorrono, a mo’ di sottotitolo, gli SMS che la gente invia in redazione.

Si tratta di una vera e propria depravazione dell’animo umano che, attraverso il mezzo televisivo, si fa carne da arena romana con tanto di pollice verso per il povero gladiatore sconfitto.

Le trasmissioni sportive, soprattutto quelle calcistiche, dicevo. Le peggiori sono quelle trasmesse dalle reti locali, quelle in cui la gente si scrive "Noi del Milan siamo sempre i più forti!", oppure "Graaaaaaandre juveeeeeee" (perché usare le maiuscole è un optional!). Ma c’è anche "Quelli che il calcio", che una volta che Fazio non faceva ancora lo zerbino era guardabile, e adesso c’è la Simona Ventura che urla, strilla, sbraita, cazzo ciavrà da urlà’, anche lei, pare che se non urli la gente non ti sente, eppure ci dovrebbe pensare il satellite a trasmettere il sonoro, non è che uno debba raggiungere gli ascoltatori nelle Americhe con la forza dei soli polmoni, e che diamine.

Ci sono poi i messaggi d’amore: "Ciccino, la tua Ciccina ti ama tanto e oggi che è il tuo compleanno ti dà tanta Ciccia!" e anche lì chi se ne frega degli amplessi altrui o di quanta Ciccia Ciccina darà a Ciccino che magari è pure vegetariano, che ti coprono anche l’aggiornamento dal campo di Livorno così non hai nemmeno la soddisfazione di sapere di quanti gol siamo sotto stavolta.

Anche "Chi l’ha visto?" prosegue su questa falsariga ed è un peccato per una trasmissione di servizio. Durante lo speciale sulla scomparsa di Elisa Claps la gente sfogava i suoi istinti più bestiali scrivendo "a morte tutti quelli che sapevano e sono stati in silenzio" (già, ora si viene a scoprire che quelli che sapevano erano i preti, e come si fa a mandarli a morte?) o dando sfogo alla retorica più bieca e sconveniente con frasi del tipo "Eri tra noi, ma adesso non temere, Elisa, sei un angelo in paradiso", già, e allora perché lei è morta e chi scrive è ancora vivo?

Mike Bongiorno – Fenomenologia di un fenomeno

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Non poteva che morire l’8 settembre il partigiano Mike Bongiorno, icona incancellabile dell’italiano medio, gentiluomo, attaccato alla vita, gaffeur, viveur, modello di riferimento saggistico e filosofico (Umberto Eco gli dedicò la famosa "Fenomenologia").

C’era il "Rischiatutto", quand’ero piccino, e si aspettava il giovedì per riunirsi nel salotto, con la televisione in bianco e nero, quella che aveva i pulsanti che per cambiare dovevi pigiare fino in fondo se no non agganciava il canale, e si doveva accendere lo stabilizzatore di tensione, si aspettavano quei due o tre minuti che scaldasse e sparisse il "puntino" dall’apparecchio.

Alla mi’ nonna piaceva la Longari, il mi’ nonno rideva quando parlava Fabbricatore.

Ma il Rischiatutto lo vinse Massimo Inardi.

Mike Bongiorno era l’America sbarcata in Italia con Coca Cola, sigarette, stecche di cioccolato, stelle e strisce, e poi era l’Italia di tutti i giorni, quella della gente che andava al cinema a guardare Lascia o Raddoppia, quella dell’azienda RAI, e poi quella che tragicamente si sarebbe fatta strada attraverso i canali Mediaset.

Lui Mediaset l’aveva lasciata qualche tempo fa. Giusto quello occorrente per andarsene senza berlusconiani rimpianti.

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Pippi (che nome, fa un po’ ridere) Calzelunghe compie 50 anni

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I segnali che stai diventando vecchio non arrivano con una repentina diminuzione delle funzioni della prostata. Uno pensa che a una certa età a un certo punto alcune cose che prima c’erano, repentinamente non ci sono più.

Ti rendi conto che il tempo passa, e tu con lui, perché chi ieri poteva darti del tu oggi ti dà del Lei, perché quando parli di musica con i tuoi alunni ti dicono che sei "antico" perché ascoltavi i Led Zeppelin.

Oppure perché Inger Nielsson, d’improvviso, senza che tu neanche ci pensi, compie 50 anni.

Inger Nielsson era la ragazzina che interpretava Pippi Calzelunge con le scarpone e le trecce rosse, con il cavallo che si chiamava Zietto, e la scimmietta che si chiamava Signor Nielsson (come lei). Pippi Calzelunghe era un personaggio straordinario, descritto con grande abilità da Astri Lindgren in un romanzo che tutti i bambini e i ragazzi dovrebbero leggere. Dall’insediamento di Pippi a Villa Villacolle, alla sua partenza per l’isola dei Cip-Cipoidi.
Un personaggio ricchissimo (Pippi aveva da parte un baule pieno di monete d’oro) e dotato di una forza sovrumana, che però non aveva mai cessato di sentirsi e di essere una bambina come tutte le altre.

Dotata di due amici un po’ tonti e decisamente conformisti, Tommy e Annika, Pippi Calzelunghe era splendidamente interpretata da questa attrice che ti ricorda di aver compiuto i 50 anni e che se lei c’è riuscita è segno evidente che anche tu sei sulla stessa via…

Alessandro Baricco, Robin Hood della TV -per tacer del teatro-

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Alessandro Baricco è uno scrittore da annoverarsi nella categoria che mia moglie definisce degli "ingiustamente sopravvalutati".


Dotato di scarse capacità inventive e narrative, scrve romanzi intorno al niente e, proprio per questo, il pubblico lo osanna, quando non si autoosanna da solo.

Logica vuole che uno come lui faccia assurgere la sua figura a quella di "vate", che profetizza ora su questo, ora su quest’altro argomento, con la solita mancanza di argomenti, ma per il puro gusto (incomprensibile alle persone di buon senso) di esserci.

Ultima in ordine di tempo la sua sparata per cui non si può pensare che la cultura sia finanziata interamente con i fondi statali (ma Baricco non ha ancora capito che se la cultura non appartiene allo stato, inteso in senso di collettività, non può appartenere a nessuno, perché Internet stessa ci insegna che là dove ci si illude di concentrare la cultura sotto un’unica denominazione, si ha il controllo totale delle informazioni), per cui, la soluzione di Baricco non può essere che quella di togliere al teatro e dare alla TV. Come dire, togliamo ai poveri e diamo ai ricchi.

In puro stile berlusconisca, Baricco pensa che il teatro non serve a nulla, meglio quei soldi darli alla TV pubblica che li userà sapientemente per ammannire tette e culi a volontà tra veline e pacchi, la prosa, la lirica, la rivista vadano pure in pensione.

Meglio Bonolis che la Mandragora, dunque, meglio la Hunzicker di Mirandolina, meglio Greggio e Iachetti di Garinei e Giovannini.

L’intelligenza dell’Italietta filo fascistoide non riesce a produrre nulla di meglio, evidentemente.

A parte la profezia apocalittica di Baricco, secondo cui, con la crisi economica prenderà fuoco tutto più facilmente. Speriamo anche i suoi libri.

(screenshot da repubblica.it)

Il Benigni di un giorno

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E abbiamo sempre necessità di affidare la nostra rabbia a un comico, che per parlar male di Berlusconi ha bisogno di citare Dante e Oscar Wilde. E di cui, il giorno dopo, messi da parte applausi e ovazioni, non si ricorda nessuno.

E’ morto Gennaro Olivieri

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Si invecchia quando si sentono notizie come quella della morte di Gennaro Olivieri, il mitico giudice arbitro internazionale di "Giochi senza Frontiere", quando sai che assieme a te se lo ricorderanno in due o tre, e anche quando ci si accorge che nomi come il suo, quello di Guido Pancaldi, Giulio Marchetti e Rosanna Vaudetti (i conduttori e commentatori per l’Italia), fanno parte di un mondo tutto tuo, di quando eri bambino, che la mi’ nonna nelle serate d’estate passate a bere acqua e menta, mi diceva "Ovvia, ora si va dalla Lina a vedere ‘Giochi senza frontiere’", chè lei la televisione in casa non l’aveva e poi si poteva sempre andare a fare due chiacchiere…

Non muoiono le persone, muoiono i mondi, e con loro i ricordi.

Attention, trois, deux, un….

Daria Bignardi non ci lascera’ mai orfani -pensate che culo!-

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Ieri sera in TV da Fazio c’era Daria Bignardi, la nuora di Adriano Sofri.

E’ morta sua madre, povera donna (la madre!), ed è una vera e propria pena.

Ma, come dicevo qualche post fa, muore tanta gente, padri, madri, fratelli, sorelle, figli. L’esperienza della morte di una persona cara è sconvolgente, ma soprattutto è personale. Ognuno se la vive per conto proprio, se la assimila, cerca di diluirla nel flusso normale della vita.

Ma c’è gente, come la Bignardi, che non si accontenta con la semplice elaborazione del lutto personale, no, lei i propri fantasmi vuole farli vivere anche agli altri, vuole dire a tutti che sta male, e che non può stare male da sola. Sul suo blog (ospitato da Style.it, Glamour, people, lifestyle e altri anglicismi) un lettore anonimo le ha consigliato di scrivere un libro. Detto fatto. E’ uscito "Non vi lascerò orfani", per Mondadori (certo, va bene essere la compagna di Luca Sofri, ma volevate che la Bignardona si facesse mancare l’opportunità di pubblicare per Berlusconi?), 14 euro sul sito di Feltrinelli e senza resto.

Perché già c’è il lutto, facciamo in modo che diventi l’occasione per farci su un paio di palanche.

Sullo stesso blog, la Bignardi ha avvertito i suoi lettori della partecipazione televisiva a "Che tempo che fa!":

Ha scritto "Gulp!" Era da quando leggevo i fumetti di zio Paperone da piccolo che non vedevo più nessuno che scriveva "Gulp!". C’è da crederci se nel post del 27 gennaio scorso la Bignardi, annunciando l’uscita del libro, ha comunicato: "L’ho scritto di getto, in otto mesi. Per altri due mesi  poi l’ho riscritto." Dieci mesi per scrivere un libro. Si vede che doveva prima imparare a scrivere, o che prima scriveva solo per onomatopea.

Ci lasci orfani, signorina Bignardi in Sofri, non ci mancherà.

Annunziaziò Annunziaziò…

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(la versione audio per i ciechi è disponibile dal nostro lettore virtuale di MP3)

Lucia Annunziata se n’è andata dal salottino di Santoro.

Ha fatto l’offesa e Gianfranco Fini, giusto per metterci il carico da undici, ha detto che sì, era stata effettivamente offesa.

E giù solidarietà a questa giornalista che ha avuto il solo torto di dire che lei è “stronzissima” (e va beh, e allora?…), che Santoro non poteva e non doveva permettersi di fare una trasmissione faziosa (l’unica che può permetterselo è lei?), che stava conducendo male il programma, che non doveva intervistare due ragazzine, una israeliana e l’altra palestinese, che lei è una giornalista (e riallora??) e che se anche Israele ha centrato un palazzo dell’ONU va compresa perché lei è stata in prima linea (e, notoriamente, è stata la sola giornalista a riferire dalle zone di guerra) e che se c’era qualcuno che aveva il diritto di denunciare qualcosa quella era lei.

Santoro si è incazzato, come si incazzerebbe qualunque padrone di casa che si vedesse criticato per come tiene la casa, cosa dice in casa sua, come cucina per i suoi ospiti, cosa serve a tavola e che tipo di stoviglie usi.

Dopo un battibeccuccio da primedonne, la Annunziata ha fatto sua la lezione che fu di Berlusconi, si è alzata e se n’è andata. Proprio come il suo illustre ospite, alla vigilia delle elezioni del 2006.

E, come Berlusconi in quell’occasione, ha vinto, ottenendo il conforto della terza carica dello Stato e l’apprezzamento di Gasparri, quello che guarda fisso e inebetito davanti a sé come se fosse stupito solo dall’idea di veder passare un pensiero.

Buon sangue non mente, gli avversari, specie quando sono fatti della stessa pasta, prima o poi si riconoscono subito. Come dire “se non puoi combatterli, unisciti a loro…”

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Roberto Benigni e Papa Benedetto XVI leggeranno la Bibbia in TV (e vedrai che tanto male non ci staranno, vai…)

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E ci mancava solo "Il Tirreno", quotidiano livornese, scandalistico ma purtuttavia disinformativo, a ricordarci che Roberto Benigni, tra meno di un "amen", sarà il mattatore, in prima serata, assieme a Sua Papità il Sommo Facitore di Ponti Giovanni Razzo 16, in una maratona di lettura della Bibbia che porterà tanti, ma tanti vaìni (money, schei, $oldi, svànziche) alle casse della Conferenza Episcopale Italiana (che detiene i diritti d’autore della traduzione ad uso liturgico della Bibbia in italiano, fissata nel 1971), della RAI (che si occupa della trasmissione in diretta via satellite dell’evento) e del Vaticano, che probabilmente tanto tanto male non ci sta. Tanto che è stata realizzata Rai Vaticano, dopo Rai Sport, Rai Sat, Rai Educational e Rai Regione.

Lo scopo è quello di creare una lettura continuata e continuativa della Bibbia e trasmettere il tutto in diretta mondovisione.

Roberto Benigni è stato uno storico mangiapreti, l’autore della battuta del "wojtylaccio" a Sanremo, è rincoglionito con "La vita è bella" e ci ha calpestato l’apparato testicolare con quelle letture di Dante, facendo finta che la Divina Commedia sia un’opera da offrire a piazze gremite di gente che si commuove a sentire il Canto del Conte Ugolino (o anche l’ultimo del Paradiso, per l’amor del cielo…) poi torna a casa e vota Berlusconi perché è pur vero che c’è gente che mangia il cranio dei propri figli, ma far ricongiungere le famiglie degli extracomunitari in Italia proprio non se ne parla, che se ne stiano a casa loro e vaffanculo.

Benigni si ritrova a baciare le mani e anche gli anelli, leccapiedi com’è di una religiosità buonista e di maniera che offende chi crede davvero e che pensa che la Bibbia sia un’opera di portata universale, che deve essere disponibile per tutti, e non un’occasione di inciucio per farsi vedere commossi dalle telecamere di mezzo mondo, e salameleccati dalle banche.

Speriamo solo che Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, storico personaggio degli esordi teatrali di Benigni non se la prenda troppo a male per lo sputo in faccia che il suo autore gli sta facendo.

(screenshot da: www.iltirreno.it)

La suoneria del gattino Virgola in TV

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Dichiaro sotto la mia personale responsabilità che il gattino Virgola deve finire al forno con le patate o affogato in un fiume con una pietra da tre tonnellate al collo e la sua stramaledettissima suoneria da lesionati mentali deve essere messa all’indice dalla ChiesaCattolica(Tm), e che sia approntato il rogo per tutti coloro che la usano al posto di quella di default per far vedere che ce l’hanno.

Ed ecco arrivato Benigni in Tivvù (-ù, -ù, -ù…)

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Ed è arrivato anche il gran giorno di Roberto Benigni in TV.Che, a quanto pare, udite udite, parlerà del quinto canto dell’Inferno.
Cioè di quello che fa da anni senza minimamente pensare di essere venuto a noia e con il suo approccio un po’ pinocchiesco e caciarone delle fanfare all’inizio dello spettacolo. Anzi, no, pare che condirà il tutto con qualche altra citazione colta, tra cui niente meno che la Genesi, come ha dichiarato nello screenshot di www.repubblica.it, di cui citerà il primo libro.Ora, forse bisognerebbe andare a spiegare a Benigni che il primo libro della Genesi non esiste, non c’è, caso mai il primo capitolo, visto che è la Genesi stessa ad essere il primo libro di un coso che si chiama Bibbia.

E non è uno svarione del giornale, perché Benigni ha proprio detto così, il virgolettato parla chiaro.

Del resto è uno a cui le lauree honoris causa non mancano.

Benigni ha presto capito che monologhi come “Cioni Mario di Gaspare fu Giulia” e film come “Berlinguer ti voglio bene”, o esperienze televisive come “TeleVacca” tutt’al più fanno ridere, ma se dici come è bello amarsi, che tutto il mondo si deve volere bene, che l’amore è quello che mòve il sole e le altre stelle, poi la gente ti segue.

Il vuoto è materiale molto importante. E a questo punto attendiamo con ansia che Benigni reciti Susanna Tamaro, Paulo Coelho e Alessandro Baricco. Applausi preventivi! (su musiche di Nicola Piovani)