E così, il Re emerito di Spagna Don Juan Carlos I di Borbone, abbandona il paese a seguito di un’inchiesta dei magistrati svizzeri e spagnoli sui supposti fondi illeciti nei paradisi fiscali.
Tramonta così, secondo la cura di una parabola discendente, la notorietà di un monarca che aveva riportato la Spagna alla democrazia, dopo tre anni di transizione, e l’avvento del primo governo democratico della storia recente successiva al franchismo, guidato da Adolfo Suarez, redattore in capo della Costituzione spagnola in cui si legge a caratteri maiuscoli: “DON JUAN CARLOS I, REY DE ESPAÑA, A TODOS LOS QUE LA PRESENTE VIEREN Y ENTENDIEREN, SABED: QUE LAS CORTES HAN APROBADO Y EL PUEBLO ESPAÑOL RATIFICADO LA SIGUIENTE CONSTITUCIÓN:”. E poi scandali con le donne ti credo, poi, che la povera regina Sofia continuerà a vivere nel palazzo della Zarzuela, almeno avrà un po’ di calma, povera donna!), la caccia a dorso degli elefanti, qualche svago e qualche distrazione di troppo. Così finisce un personaggio che ha fatto la storia della Spagna e della democrazia nel mondo. Diventato Re per effetto delle leggi organiche del 1969 subito dopo la morte di Franco, non ha mai smesso di rivestire il suo ruolo fino all’abdicazione in favore del figlio Felipe VI, felicemente regnante, che ha dichiarato di avere particolarmente apprezzato il paso indietro del padre. Juan Carlos è stato tutto per la Spagna, e ora viene trascinato nel fango, dopo il caso che ha visto assolta l’infanta Cristina, indagata assieme al marito Iñaki Urdangarin Liebaert (lui invece condannato e obbligato a restituire il titolo di Duca di Palma di Maiorca), e costretto a lasciare la Spagna per non trascinarci anche la Corona nazionale.
In Italia, certo, un caso simile, magari riguardante un Presidente emerito della Repubblica (ma mi risulta ce ne sia solo uno ancora vivente) avrebbe tutt’al più portato alle dimissioni dell’interessato (come fu per il caso dell’ex Presidente Giovanni Leone), non certo all’autoesilio volontario.
Corrono tempi cupi se una signora ultrasettantenne che ha manifestato le proprie idee davanti all’ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, armata solo della bandiera della Catalogna, che considera il suo Paese, all’indomani della sentenza che condanna duramente gli irriducibili catalani (primo fra tutti Jonqueras) incarcerati per sedizione e malversazione, viene portata in commissariato.
Paola è stata portata in commissariato (non arrestata, come è stato riferito in un primo tempo), identificata, denunciata e le è stata requisita l'”arma del delitto” con cui esprimeva liberamente il suo pensiero, la famigerata bandiera catalana, che adesso resta a disposizione del Pubblico Ministero.
Dài, @sanchezcastejon Pedro Sánchez, capo del governo spagnolo, che scrive “es necesario esfuerzos” col verbo essere al singolare e il sostantivo “esfuerzos” al plurale (“è necessario sforzi”). Va beh, per oggi non scrivo più. Forse.
Ya hay un español que quiere / vivir y a vivir empieza, / entre una España que muere / y otra España que bosteza. / Españolito que vienes / al mundo te guarde Dios. / Una de las dos Españas / ha de helarte el corazón. (Antonio Machado)
Pesava il silenzio imbarazzante di Re Felipe VI di Spagna sui gravi accadimenti in Catalogna della scorsa settimana. Pesava talmente tanto che il Monarca, ieri sera, ha rotto gli indugi e si è fatto vedere in televisione dall’intera nazione spagnola per un discorso di quattro minuti in cui ha ribadito, parlando del referendum di domenica scorsa, che:
– si tratta di “un inaccettabile intento di appropriazione delle istituzioni storiche della Catalogna”;
– che le autorità sono state “sleali” mantenendo una “condotta irresponsabile” e che “si sono messe al margine del diritto e della democrazia”;
– che gli organizzatori “hanno voluto spezzare l’unità della Spagna”;
– che la consultazione “ha messo a rischio l’unità e l’economia del Paese”;
Non c’è stata una parola che fosse una per i feriti dalle cariche della Guardia Civil. Nessun accenno al dialogo tra istituzioni. Solo un richiamo generico alla Costituzione come legge fondamentale, evitando di far cenno che la Costituzione prevede che in caso di spinte scissioniste si interpelli preventivamente il presidente della Comunità Autonoma, o, in caso di diniego, si rimandi il voto alla maggioranza del Senato. Non c’è stato niente di tutto questo, solo quattro minuti di una imbarazzante adesione alle linee del Governo.
Non che ci si aspettasse di più. Il fatto è che ci si aspettava di meglio. E di meglio c’era anche quel “silencio estremecedor” che ha preceduto l’imbarazzante discorso del Re. Intellettuali come Unamuno (a cui doleva la Spagna come può dolere il cuore) si rivoltano nella tomba dell’oblio in cui questa Spagna “de charanga y pandereta”, come diceva lo stesso Antonio Machado, li hanno tristemente costretti.
Quello che sta succedendo in Catalogna è, evidentemente, fuori da ogni logica.
Che un Presidente del Consiglio dei Ministri (o Capo del Governo che dir si voglia) autorizzi la Guardia Civil ad irrompere nei dipartimenti della Generalitat e ad arrestare 12 esponenti del governo locale di Barcellona con la accusa apparente di essersi attivati per lo svolgimento del referendum sulla secessione dalla Spagna è un fatto di una gravità inaudita che merita riflessione.
Io spero vivamente e con tutto me stesso che Josep Maria Jové e gli altri abbiano commesso effettivamente (e dopo essere stati giudicati colpevoli con regolare e sacrosanta difesa in tutti i gradi di giudizio, secondo quanto previsto dall’ordinamento legislativo spagnolo) dei crimini tali da giustificarne l’arresto in via preventiva e la detenzione in carcere in via definitiva. Lo spero, perché se così non dovesse essere quello di Madrid sarebbe da interpretare come un pugno di ferro inutile e dannoso per le libertà individuali e per l’ordinamento democratico.
C’è da impedire un voto che potrebbe destabilizzare l’ordinamento democratico spagnolo e che è stato dichiarato incostituzionale dalla Suprema Corte: nessuno mette in discussione la legittimità della decisione e, soprattutto, quella della Costituzione del 1978, frutto di estremi sacrifici e di una transizione non del tutto indolore da oltre 35 anni di dittatura; quello che è in discussione, e che discussione, sono i metodi. Là dove l’arresto di Jové sarebbe collegato alla sua attività nel lancio di siti internet che promuovono il referendum c’è veramente di che chiedersi se la realizzazione di un sito “a tema” su internet costituisca o no un crimine o non sia, piuttosto, l’espressione di quel diritto di parola che dovrebbe essere regolarmente riconosciuto a tutti i cittadini europei. E’ un crinale estremamente sottile, bisogna analizzare contenuti, espressioni, modalità, bisogna vedere se quel prodotto finale costituisce o no una minaccia per l’unità dello Stato, così come stabilita nella già citata Costituzione del 1978. E tutto questo può farlo un giudice terzo, in un processo, con libertà e serenità di giudizio. Non un governo centrale, in via preventiva, e in tutta fretta perché, si veda il caso, il primo ottobre (data fissata dai secessionisti pero lo svolgimento del referendum) si avvicina, e con modalità sicuramente antidemocratiche.
Il quotidiano “El País” ha pubblicato ieri un editoriale agghiacciante che, oltre ad essere sacrosantamente a favore del mantenimento dell’ordinamento della (giovane) democrazia spagnola, ha difeso i metodi del governo Rajoy (per la verità piuttosto discutibili) e si è dichiarato a favore della democrazia (già, e chi non lo è?).
L’articolo 155 (1) della Costituzione spagnola dice chiaramente che se una Comunità Autonoma non ottempera alle obbligazioni imposte dalla Costituzione o da altre leggi, o dovesse agire in modo da pregiudicare gravemente l’interesse della Spagna, il Governo, previo interpello al Presidente della Comunità e, in caso di non adesione, con la maggioranza assoluta del Senato, potrà adottare le misure necessarie per obbligarla al compimento forzoso delle obbligazioni suddette (l’ho tradotta così come mi veniva, non sto a riguardarla, non ci ho messo nemmeno le virgolette, vi metto l’originale spagnolo in nota). Qui non c’è né l’interpello preventivo né tanto meno la maggioranza del Senato. Eppure ci sono stati degli arresti, e anche se sette persone sono state rilasciate, altre risultano ancora in regime di privazione della libertà personale.
Nel frattempo migliaia di studenti occupano l’Università di Barcellona per protestare contro gli arresti, e arriva la dichiarazione del cantante catalano Joan Manuel Serrat che afferma che il referendum “non è trasparente”.
Ma c’è solo da augurarsi che il 1 ottobre non accada di peggio.
(1) Si una Comunidad Autónoma no cumpliere las obligaciones que la Constitución u otras leyes le impongan, o actuare de forma que atente gravemente al interés general de España, el Gobierno, previo requerimiento al Presidente de la Comunidad Autónoma y, en el caso de no ser atendido, con la aprobación por mayoría absoluta del Senado, podrá adoptar las medidas necesarias para obligar a aquélla al cumplimiento forzoso de dichas obligaciones o para la protección del mencionado interés general.
Nel 2012, anno che terminai in un modo che non amo ricordare, cominciai a metter mano a un libro di cui non scrissi che poche pagine. Il titolo, quello, c’era. Si chiamava “Il giardino incantato di Wikipedia”. Il prologo mi venne giù tutto d’un fiato, l’ho riletto e mi è parso che possa avere sufficiente dignità da essere proposto come post del blog. Certo, è passato un po’ di tempo. Ma conservo lo spirito e il titolo di quando scrissi queste righe allora.
Quando ero bambino l’arrivo di una enciclopedia in casa era un gesto sacro e degno del maggior rispetto dovuto e possibile.
I tuoi genitori, con l’aiuto dei nonni e di qualche parente, ti stavano regalando l’Enciclopedia (maiuscolo, perché allora era una categoria dello spirito!). Avevano investito un bel po’ di soldi in un’opera di consultazione che avrebbe dovuto esserti utile “per tutta la vita” (o, almeno, così si sperava), e che costituiva non solo una spesa considerevole per le magre entrate familiari, ma anche e soprattutto un investimento per quello che era il tuo futuro.
Perché il futuro, se nessuno era in grado di prevederlo, lo si poteva bene analizzare con la lente della cultura e del sapere, per cui poteva anche darsi che esistesse, in ipotesi, la possibilità che tu diventassi un perfetto imbecille per conto tuo, ma senza la cultura, senza il sapere, lo saresti diventato certamente.
Per questo ti veniva regalata un’opera monumentale in svariati volumi, perché era come una sorta di viatico, un crisma che ti apriva le porte dell’età adulta e che ti permetteva di entrare in mondi da guardare, osservare, ma, soprattutto, sfogliare e risfogliare a tuo piacere.
Così, sia che avessi la UTET, o la Universo, o anche i “Quindici”, per non parlare della raccolta completa dei “libri delle regioni” (progetto a cui molti ambivano ma che pochissimi, ahimé, portavano a compimento), ogni volta che leggevi, sfogliavi, consultavi, sbirciavi quelle pagine, le facevi anche un po’ tue. Le immagini e i ritratti degli uomini illustri, le fotografie dei monumenti, le cartine geografiche, i dati sull’economia e sulla produzione delle materie prime, le capitali europee, le trame delle opere di letteratura, le foto degli animali di qualunque specie e paese diventavano un tutt’uno con te, come se il ripetere costantemente quei gesti potesse aiutarti a fissare nell’anima, prima ancora che nella memoria, il valicare delle Alpi di Annibale di Cartagine a dorso degli elefanti, l’aspetto severo e compassato di Mao Tze-Tung nelle foto ufficiali, la tomba di Napoleone confinato a Sant’Elena, la forma a bastoncino un batterio-killer, Marie Curie che guardava le provette controluce, i baffi sornioni di Flaubert, il naso aquilino di Dante Alighieri, l’anatomia del piede, la densità della Spagna e della sua capitale, Madrid. O, ancora, il gesto aggraziato della Madonna del Cardellino di Raffaello e la fronte corrucciata di Ludwig van Beethoven, o quella parruccata di Wolfgang Amadeus Mozart, che era morto a 35 anni.
Sentivi, questo è certo, il senso della provvisorietà delle informazioni contenute. Per questo ti capitava, di sottecchi, di segnare la data di morte di qualche personaggio conosciuto, per togliere dall’enciclopedia quell’imbarazzante definizione di “vivente” che la rendeva inattuale. Ma sempre con la matita (mai con la penna, chè sarebbe stato peccato mortale!) e con un segno leggero, a margine. L’enciclopedia era come la vita nella visione cattolica: un dono, sì, ma che non ti apparteneva mai del tutto e di cui non potevi fare quello che volevi, perché un giorno avresti dovuto abbandonarlo del tutto.
Ma intanto che la sfogliavi eri vivo, e imparavi a memoria, come una litania, le sequenze alfabetiche che si stampigliavano in oro sul dorso di ogni volume, e che segnavano i limiti naturali entro i quali vi avresti trovato quello che cercavi. Se sbagliavi volume dovevi rimetterlo a posto e prendere quello successivo. O precedente. E ricominciare.
E ogni volume iniziava con una lista di nomi lunga come la litania dei santi, tutti in ordine alfabetico anche loro, che, poi, erano i signori che avevano scritto le voci che avevi tra le mani. Loro erano il comitato scientifico, erano quelli che sapevano, i professori, o, almeno, gli esperti. Erano quelli che ti avevano trasmesso il loro sapere, e tu li vedevi lì, stampati in corpo minuscolo, e provavi un senso di sottile gratitudine. Dio, quanti erano!
Ai barcellonesi toccagli il gotico e sei morto. Lo hanno riproposto anche in salsa modernista nella Sagrada Familia di Antoni Gaudì.
Modernismo è gusto per l’esotico e per l’incredibilmente complicato, anche se a prima vista la nuova cattedrale sembra più un gioco di bambini che fanno scivolare la sabbia umida sulle mani per ammonticchiarla sul castello.
Gaudí finì sotto un tramvai e da allora la sua creatura resta da terminare: un bel pretesto per continuare a far quattrini coi visitatori da tutto il mondo, tanto il biglietto costa stéccolo!
E’ tutto pronto, non manca proprio nulla. Qualche poveraccio morto in condizioni igieniche e sanitarie precarie, un morbo per cui non si conosce vaccino, telecamere, giornalisti quanto basta.
E’ lo spettacolo del terrore che inizia, basta accendere la TV. Era già successo con l’AIDS negli anni 80, la malattia dell’edonismo reaganiano, ed è continuato con l’influenza aviaria, per cui tutti a guardare le anatre che migravano in cielo, con la speranza che non ci cagassero proprio sugli occhi.
Ogni dieci anni qualcuno si ricorda che c’è da smaltire quella fornitura di farmaci antivirali stoccati da qualche parte. Oppure che la gente ha una paura fottuta di morire, ça dépend. E facendo leva su questa paura da una parte, e sull’ignoranza dall’altra si realizza ogni giorno un film dell’orrore, di quelli dozzinali, che avevano titolo tipo “L’ultima notte nella tredicesima casa”, “I morti viventi vincono ancora” o “Non bussate alla mia finestra”. Quelli in cui lo vedevi lontano un miglio che c’era il trucco, e anche fatto male.
L’ebola non è altro che questo. In Spagna, dove una infermiera sta morendo, non si parla d’altro. Siti web e quotidiani sono letteralmente pieni dell’argomento “ebola”. La gente non sa più che fare o che dire. Hanno anche assassinato il suo cane per la psicosi che fosse portatore di malattia, bastardi. Rajoy ha già dichiarato che più di questo non si è in grado di fare (dopo il cane potrebbe provare a sparare a un rinoceronte per vedere di nascosto l’effetto che fa, soprattutto se lo prendi di striscio) ed è subito caos mentale.
Noi in Italia ci salviamo perché nessun contagiato ha (ancora) toccato il nostro suolo. E’ accaduto in Spagna, dunque è una cosa che riguarda loro. Siamo talmente imbecilli da credere che un virus, nel propagarsi, osservi strettamente i confini della cartina geografica, senza pensare che viviamo in un’Europa in cui c’è libera circolazione di persone e merci, dunque anche dei virus.
Ma durerà poco. Soprattutto se i giornali non avranno altri argomenti da proporre ai lettori.
I Mondiali stanno già mettendo a nudo il nostro spirito di rivincita e il fatto che, tutto sommato, dei valori sportivi e del valore universale della manifestazione ci importa una solennissima cippa.
L’Olanda ha schiacciato, ma che dico, ha umiliato la Spagna. Ha giocato benissimo, ha tirato in porta una goleada che poteva anche essere un punteggio tennistico, Casillas aveva la faccia della disperazione, di più, era la personificazione dell’esperpento come teorizzato da Valle-Inclan negli anni ’20, ma tanto sapete assai voi.
E la gente sui social network a scambiarsi messaggi del tipo “Avete visto l’Olanda ieri? Ahahahahahah!! E vaiiiii, miticaaaa!!”
E sono persone che non hanno sentito parlare dell’Olanda fino al giorno prima, che non sa nemmeno dove si trovi o che lingua si parli. Tutt’al più ha scoperto dalla telecronaca della partita che la gente spesso si chiama “Van der Qualcosa”. Cosa rappresenta la squadra dell’Olanda? Semplice, rappresenta il più forte, rappresenta chi non solo batte gli avversari (ieri il Messico ha battuto il Camerun, ma siccome il risultato era solo di 1-0 non se lo è filato nessuno), ma li umilia davanti al mondo. Insomma, esattamente quello che vorrebbe fare ciascuno di noi in un mondo immaginato ma nemmen troppo.
Ai miei tempi l’olandesina era un personaggio che seguiva Corrado nella pubblicità del sapone Mira Lanza, tu pensa quanto ci ha già rincoglioniti il Mondiale.
Siamo in gamba noi italiani. Abbiamo, per fortuna, una Corte Costituzionale che riporta le leggi dei parlamentini della seconda repubblica sui binari dello spirito della volontà dei Padri Costituenti.
Solo che lo fa sempre in ritardo (non per colpa sua, certamente).
E’ stato il caso dell’incostituzionalità di alcune parti della Legge Elettorale cosiddetta del “Porcellum”. Abbiamo accolto il ripudio della mancanza delle preferenze e della quantificazione di un esageratissimo premio di maggioranza con un sospiro di sollievo. Ma intanto un paio di parlamenti sono stati eletti con quei criteri, e i danni che hanno fatto non può cancellarli più neanche una cimosa imbevuta nell’acido cloridrico.
La legge 40 sulla fecondazione assistita è una delle pagine più buie della storia del Paese. La sentenza di ieri ne ha cancellate per sempre alcune parti. Ma la storia è piena di coppie che hanno affidato a gente senza scrupoli il desiderio di avere un figlio, e che si sono recate all’estero (magari raccondando una serie di balle ai propri familiari, come un periodo di vacanza da trascorrere in Ungheria, in Spagna o in Grecia -chi non vorrebbe visitare Budapest in pieno gennaio??-) dopo essersi sottoposte a cure con effetti collaterali non indifferenti, terrorizzate alla partenza per la consapevolezza di andare a commettere quello che per lo Stato italiano è un illecito e terrorizzate all’arrivo per doversi mettere nelle mani di medici che gestiscono strutture al limite della decenza e per dover pagare cifre molto importanti per poter sperare, tra gli ovuli donati da ragazze giovani e con problemi economici e sociali (nessuno dica che lo fanno gratis, ho cinquant’anni e non odo fiabe dall’età di bimbo che ebbi breve, come diceva Brancaleone da Norcia) o gli spermatozoi “conferiti” (ah, la meravigliosa asetticità della lingua italiana!) in stanzacce sporche che immagino tappezzate dalla solita dose media giornaliera di tette e culi su patinata.
Sono vite intere, in questo crocevia che immette in strade indeterminabili a priori, per cui la Consulta ha determinato la parola “fine”. Che è anche quella di tutti quelli che, fino ad oggi, non ce l’hanno fatta.
Il mi’ bisnonno Arturo, poveròmo, morì meno di un mese prima che nascessi io.
Gli garbava tanto il socialismo e il “sol dell’avvenire”. In verità ho sempre pensato gli garbasse il vino bòno, altro che socialismo, ma ogni volta che cantava il “sol dell’avvenire” (a conquistare la nostra primavera, va da sé…), cioè ogni volta che esprimeva il suo credo politico, i fascisti lo tonfavano di bòtte. Ritornava a casa e ci beveva su. Poveròmo.
Quando la dimensione privata diventa pubblica il minimo che ci si possa aspettare sono delle legnate nei denti.
La signora Olvido Hormigo Carpio è consigliere comunale socialista di opposizione in una piccola realtà territoriale nella provincia di Toledo. Ha avuto l’ardire di farsi una valanga di affari suoi, personali e privati.
I suoi affari personali e privati consistono nella realizzazione di un video a contenuto erotico che la vede protagonista e intenta a fare una cosa che, evidentemente, le piace. Video che riguarda, e lo ripeto, la sua vita privata, il suo letto, i suoi gusti sessuali personali. Video non destinato alla divulgazione al pubblico. Che non vuol dire che non potesse vederlo nessuno, ma significa solo che poteva vederlo chi volesse lei e alle condizioni da lei dettate.
Il video è stato comunque divulgato via Internet. Non certo dalla Hormigo Carpio. A cui sono state chieste le dimissioni immediate. Perché, evidentemente, un donna che si dedica alla propria sessualità e al proprio piacere nei modi insindacabili che preferisce, si deve dimettere.
Ma quello che si evidenzia in questa vicenda non è tanto lo stigma della vita sessuale di una persona, ma il fatto che risulti scandaloso che questa vita sessuale, uscita alla pubblica luce all’insaputa e contro la volontà della protagonista, sia essa stessa oggetto di richiesta di dimissioni. Una consigliera comunale che fa un video erotico mentre fa quello che le pare, ma stiamo scherzando? Per la Spagna della Manolitas e dei Pepe una persona che ha delle pubbliche funzioni deve obbligatoriamente essere sposata con la gente, essere una sorta di vetrina aperta, persona di trasparenza assoluta.
Certo, quando è nell’esercizio delle proprie funzioni sì. Ma non quando è nel proprio letto, con il proprio cellulare a fare le proprie cose.
Olvido Hormigo Carpio ha detto una cosa assolutamente rivoluzionaria: “Io non mi dimetto, non ho commesso nessun illecito”.
Esatto, non ha commesso nessun illecito. L’illecito lo ha commesso, casomai, chi ha divulgato quel video a sua insaputa e contro il suo volere. E quindi si vogliono le dimissioni di una persona per un fatto commesso da altri. Bel ragionamentino, sì.
Naturalmente in Italia non è mancato chi, strumentalizzando la vicenda, ha riportato l’attenzione sulla vita sessuale di Berlusconi che era libero di andare a letto con chi voleva lui (e mi risulta lo sia ancora) e su tutti quelli che hanno invocato le sue dimissioni. Ma non mi sembra proprio la stessa cosa. Non foss’altro perché la protagonista spagnola non è ricattabile per quello che ha fatto. Ma nella Spagna di Rajoy qualcuno ci ha provato lo stesso.
Io, lo confesso, sono vecchio. E lo dimostra il fatto che non conosco i Subsonica. Non so chi siano, che musica facciano e, sinceramente, penso che se anche lo sapessi credo che non me ne importerebbe gran che.
Hanno criticato Pizzarotti a Parma che ha vietato la vendita degli alcolici dalle 21 alle 7. Che, voglio dire, mi sembra anche una decisione di buon senso. Ma va beh, ognuno critica chi crede. Dicono anche che Beppe Grillo non parli della “movida”. O che non la conosca.
Si può sapere cosa cavolo è la “movida”? Voglio dire, lo so anch’io cos’è, ma si riferisce, appunto, a un’abitudine tipicamente spagnola, quella di “muoversi”, possibilmente nelle ore notturne. In Spagna lo fanno da sempre. E’ proprio la vita che, lì, è spostata di due ore in avanti. In Spagna la sera escono tutti, ma proprio tutti, anziani, giovani, ragazzini, adolescenti, cani, porci (sì, in un paese della Castilla-León ho visto un maiale girare libero per strada). Si fa tardi per forma mentis e per stile di vita.
In Italia si cerca di adattarsi, di copiare, di fare in modo di essere più “simili” agli altri senza essere noi stessi. Facciamo gli happy-hour, gli aperitivi cenati, adesso è arrivata questa nuova fissazione della “movida”, per la quale, pare impossibile, ma è necessario essere un po’ brilli, perché, si sa, se non ci sono gli alcolici, se non c’è lo “sballo” che razza di divertimento è?
E’ possibile che si debba per forza divertirsi tracannando alcool e possibilmente in grandi quantità? La gente non è capace di stare insieme durante la notte e bersi, che so, una Lemonsoda, un Chinotto, una Cedrata Tassoni, un caffè, un cappuccino, un latte macchiato, un the, una tisana, una camomilla, un thè freddo, un succo di frutta, una Coca Cola, una spuma, un bitter analcolico, un Gatorade, Di Stefano ora basta, così magari non si va a schiantare da qualche parte e non rischia di mettere a repentaglio la vita degli altri?
Il messaggio è sempre lo stesso. Siamo tanto più “in” quanto più ci disinibiamo con qualche sostanza. Perché se il tuo amico prende un Gin Tonic e tu prendi una spremuta d’arancia lo sfigato sei tu. Se parli con una donna e invece di un Vodka-Lemon prendi un menta-e-orzata sai già che quella donna non sarà mai tua. Ma non perché sei un pirla tu, perché è il gruppo che ha stabilito che chi non beve è un debole e, conseguentemente, un perdente.
E la “movida” cosa sarebbe, allora, la sfilata degli incapaci a relazionarsi dopo aver bevuto una minerale gassata?
Forse un altro modo di vivere è possibile. Forse a Parma ci stanno solo provando.
Questa è la seconda pagina, dedicata alle “consegne” (ovvero al “quello che si deve fare”) del testo di lingua spagnola (comprensione di un testo letterario) proposto per il secondo scritto ai licei linguistici.
Il testo letterario era tratto da “Marina” di Carlos Ruiz Zafón. Al di là della scelta dell’autore del testo e dell’opera di riferimento -scelta che può essere tranquillamente criticata, e su questa possibilità non ci sono dubbi-, si trattava della comprensione e rielaborazione delle tematiche contenute in un brano letterario. Non si trattava, quindi, di conoscere il contesto storico e letterario in cui un autore spagnolo scrive, né di stabilire il valore della sua opera, ma, molto più semplicemente, di comprendere i nuclei informativi del brano. In parole povere ma ricche, “capire quel che c’è scritto”. Continua la lettura di “Esame di stato 2012: errori nella prova scritta di spagnolo del Liceo Linguistico”→
E’ il giorno successivo all’otto marzo, quello in cui si fanno bilanci, analisi, riflessioni, previsioni, si esprimono speranze, si pospettano auspìci, il tutto riguardo al tema del “ruolo della donna nella società”, come se le donne avessero un ruolo nella società solo l’otto marzo, come se le donne potessero far sentire la loro voce solo in quella data, come se l’anniversario di una tragedia sia di per sé una festa in cui regalare chicchi di mimosa che hanno ormai perduto ogni odore.
Il “Corriere della Sera”, oggi, pubblica un intervento di Geppi Cucciari. Che non ho mai capito bene chi sia o che cosa faccia nella vita. Cioè, so di per certo che fa l’attrice comica, e che recentemente ha “salvato” lo share della serata finale del Festival di Sanremo, ma mi è sempre sfuggito il motivo della sua popolarità. Non importa, non devo capirlo io, dev’essercene pur uno. Ogni tanto la vedo far pubblicità a uno di questi yogurt che sgonfiano la pancia grazie a un particolare fermento lattico, ma nient’altro.
Diciamo che il suo articolo sul “Corriere” di oggi è quanto di più compiuto io abbia letto o fruito della produzione di questa artista, e tanto sia.
L’articolo si intitola “Buon 9 marzo a tutte (e a tutti)”. Bene, la sfera maschile viene messa tra parentesi. E’ decisamente un buon inizio. Oh, per carità, mi sta benissimo anche essere messo tra parentesi, ma in un clima in cui si invoca tanta parità ed equità di diritti, una bella parentesi è proprio quello che ci vuole.
Il testo non mi entusiasma. E’ una comicità che non mi pare abbia elementi di particolare originalità, quella della Cucciari. E’ uno stile lellacostiano con punte neo-littizzettiane (“Com’è andata, donne? Avete ceduto alle lusinghe della cena con le colleghe, del conto alla romana, dello strip alla californiana? Come avete mostrato il vostro orgoglio uterino? Abbeverandovi di sapere gratuito in un museo, oppure di mojito pagato in un capannone di periferia, magari infilando monete da due euro nella canottiera di uomini dall’incarnato caramellato e muniti di sopracciglia depilate ad ali di gabbiano?”).
Il senso dello scritto ruota intorno al luogo comune (che, in quanto luogo comune, corrisponde a una perfetta verità) del “guarda che democrazia e che diritti hanno all’estero mentre noi in Italia siamo più indietro delle ruote dell’ultimo vagone di un Eurostar”.
Sì, lo sappiamo che all’estero stanno meglio di noi. O, magari, per certi versi, anche peggio. Solo che noi siamo portati a vedere quello che più ci fa bene vedere. Forse perché effettivamente stiamo così male, e siamo messi perfino peggio, che basta veramente poco a superarci.
E dov’è che si sta meglio? Ma in Spagna, naturalmente. Terra di mille diritti (sacrosanti, aggiungo) riconosciuti (giustamente, aggiungo) e legittimati. Ci si può perfino sposare tra gay in Spagna. Non è l’unico paese in cui i matrimoni omosessuali sono riconosciuti, naturalmente, ma è quello in cui il dato in questione salta subito all’occhio, chissà mai perché.
E infatti: “Per dire: cos’ha la Spagna più di noi? A parte Messi, intendo. Di sicuro una legge sulla procreazione assistita degna di questo nome, ad esempio. Che non si mette a contare gli ovuli come fossero «gratta e vinci» e permette persino la fecondazione eterologa. Forse ho sbagliato esempio, ma un viaggetto, Barcellona, lo vale comunque. Bocadillo, sangria e fiocco azzurro. O rosa, se sperate che sia femmina e volete chiamarla come vostra madre.”
E’ bella questa visione della Spagna. Il “bocadillo” (come se in Spagna non si mangiassero anche delle meravigliose ‘tapas’, tradizione gastronomica che ci dà tonnellate di polvere, il faut le dire…), la “sangria” (roba da turisti, su riconosciamolo… Oh, mica che gli spagnoli non la bevono, ma sanno di poter bere molte più cose, e, già che ci sono, lo fanno -magari chi va a Barcellona si degusta anche una “copa” di anisetta, di quelle che ti fanno gridare al miracolo-) e… il fiocco azzurro o rosa.
Sembra un pacchetto turistico. E, per certi versi, lo è. E’ triste che sia una comica a segnalarlo. Certo, i matrimoni gay e la fecondazione eterologa sono diritti incontestati in Spagna, ma c’è il rovescio della medaglia, ovvero che le coppie, spagnole o straniere che siano, per avere un figlio, sborsano una barca di quattrini a una sanità di tipo privato che smuove una quantità di denaro incredibile.
Sono i diritti che si trasformano in industria, dove quello della maternità e della paternità non è solo un diritto, ma è anche, e per inciso, un business.
E’ il business del “bimbo in braccio”, che è un’espressione molto infelice e scoraggiante che dovrebbe essere l’equivalente di “chiavi in mano”, solo che non si parla di automobili, ma di bambini, di madri, di padri, di donatrici di ovociti e di donatori di spermatozoi, tutto pronto, tutto subito, basta farsi un giro in Internet per vedere i siti delle cliniche spagnole e i relativi prezzi di fornitura di n. 1 embrione con garanzia di successo, analisi cliniche relative, cure ormonali per le donatrici, accuratamente selezionate, però, perché non ti salti fuori un bambino coi capelli rossi se la futura mamma e il futuro papà sono mori. O biondi. Vale anche per le coppie omosessuali, ça va sans dire.
Barcellona è lì con la sua movida. Fare un figlio sembra facile almeno come andare a bere un cocktail. Un “Mojito”, naturalmente. Perché fa molto “movida”, el ritmo de la noche, salsa, fiesta, vamos a la playa, ma intanto chi non ha i soldi alle libertà degli spagnoli non può accedere e sono tragedie marginali perché non possono essere narrate come postille alle pagine del Corriere della Sera da una attrice comica che si sgonfia con l’Acidophylus.
Perché nella perfetta Milano-da-bere del Corriere, anche un testo suppostamente comico va calibrato su una serie di stereòtipi duri a morire. Mancavano solo “corrida”, “olé”, “una mano en la cintura”, “un movimiento sexy” e “baila guapa”.
Poi è la volta della Svezia: “Riproviamo: cos’ha la Svezia più di noi? Una legge sulla maternità degna di questo nome, giusto per non scomodare solo gli Abba. E infatti il tasso di disoccupazione femminile è più basso di quello maschile e il papà ha l’obbligo (sì, l’obbligo) di prendersi il congedo di paternità. E anche la differenza tra salari maschili e femminili è tra le più basse al mondo. Forse per quello le donne sono più fertili e a Barcellona ci vanno solo a vedere la Sagrada Familia.”
La legge sulla maternità (e sulla paternità, aggiungerei, ma sempre tra parentesi, così anche la Cucciari è contenta) ce l’abbiamo anche noi, e, comunque, sì, in Svezia la legge è senz’altro migliore. Con buona pace degli Abba, dell’Ikea (citata poco dopo), di Filippa Lagerback (lasciata, per fortuna, fuori dai giochi dell’articolo) e di Stieg Larsson (non citato, forse perché non sta bene tirare in ballo le persone defunte).
Quindi sì, possiamo annunciare trionfanti, addobbando festosi i nostri veroni, che in Svezia la maternità è molto ben tutelata. Per chi ci arriva alla maternità, perché la Svezia è uno dei paesi europei con la più alta incidenza di suicidi tra la popolazione femminile. Depressione, pare. Che sommata alla depressione “post-partum” (tanto sempre di maternità si parla) è un cocktail davvero micidiale, altro che “mojito”.
E, si sa, le svedesi non sono tutte Lisbeth Salander.
E in Romania non vogliamo andare? “Cosa ci sarà mai a Bucarest che non si trovi a Roma, la città più bella del mondo? Una legge sul divorzio degna di questo nome, per dire. Mettiamo che il marito ti scaldi, certo, ma meno di una volta. Mettiamo che tu voglia cambiare elettrodomestico e che il medesimo sia d’accordo. In Italia per divorziare servono il pil del Belgio, avvocati acrobatici e soprattutto anni di attesa, che a una certa età valgono sette volte tanto, come gli anni dei cani.”
In Romania, dunque, si divorzia. Se hai un calo della libido, una prostatite o un principio di impotenza, reversibili o no che siano queste patologie, tua moglie può chiedere il divorzio e ottenerlo in tempi rapidi e efficaci.
Bello! Poi magari viene in Italia a fare la badante perché, dopo aver divorziato, non trova lavoro nel suo paese che, guarda caso, ha un tasso di disoccupazione molto preoccupante.
Ma voi fatevi ingravidare pure a Barcellona, prendete il vostro sacrosanto permesso di maternità a Stoccolma e mandate pure a fare in culo il partner a Bucarest. Sarete delle donne perfette.
In Spagna sta succedendo un casino dell’accidente e, naturalmente qui in Italia, impegnati come siamo a farci i massaggi olistici ai piedi e a restare chinati su noi stessi, non ce ne siamo accorti.
Iñaki Urdangarin, che non è una bestemmia, ma il nome (basco) del marito della Infanta Cristina, insomma, il genero di Re Juan Carlos, è nei guai giudiziari fino al collo.
A novembre arrivò la notizia di una possibile “distrazione” di denaro pubblico alla società “Nóos”, presieduta dallo stesso Urdangarin.
Con un comunicato del Palacio de la Zarzuela, la Casa Reale ha dispensato Undangarin dagli atti ufficiali perché il suo comportamento non veniva considerato “esemplare”.
E’ stato imputato di reato dal giudice José Castro.
Naturalmente la Wikipedia spagnola ne dà debito conto, informando che quella su Iñaki Urdangarin è una voce su un evento di pubblico interesse in corso. Apprezzabile. Qui sotto trovate lo screenshot:
e poi, ancora, al file PDF prodotto al link che segue:
In Italia, come vi dicevo, e come direbbe Beppe Grillo, siamo in leggera controtendenza. Ma leggera, per carità. In Italia di Iñaki Urdangarin ci ricordiamo solo i “precedenti” da giocatore di pallamano. Nient’altro. Nessun aggiornamento della Wikipedia Italiana (che, pure è estremamente attenta ai casi giudiziari che riguardano giornalisti, politici e quant’altro, tanto da costituibile un implacabile e imbarazzante casellario giudiziale anche degli eventi che nel casellario giudiziale non ci vanno -come, ad esempio, le assoluzioni) che vada nel senso (indubbiamente imbarazzante) che vi ho descritto.
Ecco la pagina italiana, ancora glabra della vicenda che ha colpito la Spagna:
Tra circa tre ore, tre ore e mezza al massimo, sapremo che Mariano Rajoy è il nuovo Capo del Governo spagnolo.
In Spagna si stanno ancora tenendo le elezioni e nessuno lo sa. I risultati, praticamente definitivi, verranno dati dopo circa un’ora e mezza dalla chiusura dei seggi delle Isole Canarie. Altro che afflusso di dati al Viminale.
La Spagna ritorna alla destra.
Oggi è il 20 novembre 2011. Francisco Franco morì il 20 novembre 1975.
La Spagna è un Paese straordinario, che ha la democrazia nel sangue proprio perché ha vissuto gran parte del secolo scorso sotto la dittatura di qualche personaggino presuntuosetto (cui, naturalmente, è stata data cristiana e cattolicissima sepoltura in terra consacrata), che ha una democrazia giovane (la Costituzione è del 1978) e che proprio per il fatto di essere democrazia giovane, si trova situata nel sangue, o meglio, nel "midollo" del suo popolo.
In Spagna se c’è da far vincere una parte politica lo si fa scendendo in piazza in migliaia, per non dire in milioni. Che siano i socialisti a dar contro ai cattolici, o i cattolici ad incazzarsi per i matrimoni gay, qualunque manifestazione di piazza vede un numero di cittadini enorme portare avanti idee e iniziative, con una umiltà e un rigore da far spavento.
La Spagna che parla quattro lingue diverse si è accampata, attraverso un movimento transnazionale e transpartitico denominato 15-M ("M" sta per "mayo", ovviamente) alla Puerta del Sol di Madrid per protestare, in concomitanza con le elezioni privinciali e regionali, contro una politica fallimentare di un governo ormai al lumicino. Zapatero sta per cadere, ma adifferenza di quello che potrebbe succedere in Italia se vincesse Pisapia a Milano, ha già promesso che comunque vadano le cose non si ricandiderà. Farà il portavoce della Spagna all’Estero, si mobiliterà in associazioni benefiche, scriverà libri, terrà conferenze, ma sostanzialmente si toglierà dai tre passi perché la gente è stufa di lui. Verrà un altro, che farà magari meglio e la gente gtli darà di nuovo fiducia, o magari farà peggio e la gente lo caccerà a calci come sta facendo con Zapatero. E’ così che funziona.
In Italia il minimo che possa fare un Presidente del Consiglio è fare una sorta di discorso a reti unificate sui pericoli del ritorno comunista, sugli extracomunitari e comunque contro chiunque venga a lordare la bellissima città di Milano con la sua presenza immonda, come gli untori di cui Manzoni ci parlava nella "Storia della colonna infame". E Manzoni era un cattolico. Solo che i politicanti de noàntri se lo sono dimenticato.
In Spagna i Presidenti del Governo se ne vanno via a colpi di iniziative popolari. In Spagna non hanno bisogno di Beppe Grillo e di nessun altro portavoce, sia pure ben preparato, eccellente animale da palcoscenico e dotato di mezzi di diffusione notevolissimi (non questo blog, tanto per intenderci). Non hanno nessuno che possa intercedere per loro, ciascuno parla per sé. Ho visto oggi a "Canal 24 horas" un signore su una sedia a rotelle, malridotto, che portava avanti la sua battaglia davanti a un casottino fatto di cartone. Non aveva bisogno di un blog o di un megafono per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla sua povertà. Gli spagnoli hanno fatto il "Vaffanculo Day" senza dire "Vaffanculo", non ci sono popoli viola o agende rosse. La Puerta del sol resterà presidiata fino al 22, finché dalle urne non uscirà un responso diverso.
Perché poi c’è ancora gente che mi chiede: "ma perché ti sei laureato in spagnolo?"
"Berlusconi non sarà mai presidente della Repubblica, semplicemente perché non controllerà la maggioranza del prossimo Parlamento" (Gianfranco Fini, 9 maggio 2011)
"D: Berlusconi sarà presidente della Repubblica R: Certamente, oggi gode di un appoggio personale e popolare che converte l’ipotesi in molto più di una stravaganza." (Gianfranco Fini, Intervista a "El País" – marzo 2009)
In Spagna sta andando molto di moda uno spot elettorale che, per le elezioni del Parlamento della Catalogna del 28 novembre, indica non solo che votare è un dovere e un diritto, ma che è addirittura un piacere, parola della Joventut Socialista de Catalunya.
Il filmato mostra, della durata non indifferente di un minuto e mezzo, mostra una signorina un po’ attempata ma certamente gradevole che, dopo aver espresso il voto e averlo inserito in una busta bianca, prima di depositarlo nell’urna, viene avvampata da un subitaneo e sacrosanto orgasmo per il solo fatto di aver votato, tra l’imbarazzo e lo sguardo interrogativo del presidente e degli scrutatori. La campagna prende il nome di "Votar és un plaer" ("Votare è un piacere", appunto). La signorina, dopo aver espresso il proprio voto e il proprio piacere, si ricompone ed esce dai locali elettorali.
Ve lo immaginate uno spot del genere in Italia?
Una persona che va a votare non può provare nessun piacere (quello, caso mai, è patrimonio del Presidente del Consiglio e delle sue escort), men che meno se è una donna, perché l’orgasmo dell’appartenenza ci è stato abbondantemente precluso e il massimo che ti può capitare è avere un gesto di disgusto nel votare per l’attuale opposizione che non si è mai opposta a niente, a parte se stessa.
Avremmo come minimo un Ministro che, seguendo e cavalcando la protesta dei vertici della Chiesa Cattolica, chiederebbe la par condicio, il contraddittorio (ma cosa vuol contraddire, un orgasmo??), la rettifica, la censura e la punizione del nipote di sesto grado della signora delle pulizie addetta alle scene dello spot, nonché il rogo pubblico delle trine cucite sul petto della protagonista.
Le donne che partoriscono con dolore dell’Italia berlusconiana non godono: eseguono in maniera pedissequa e acritica.
Sua Santità il Papesio, augustamente Ponteficante, è sceso a Barcellona per conferire la dignità basilicale alla Sagrada Familia di Antoni Gaudì, che son più di cent’anni che dicono che devono finire di costruirla ed è ancora lì, con la sua parvenza di formicaio incrociato con l’immagine della sabbia bagnata che costituisce i castelli che fanno i bimbi al mare sulla battigia, insomma, a me il Modernismo un mi garba.
Sulla sua strada la Papamobile ha trovato un gruppo di 200 omosessuali che al passaggio dell’incontestabile ospite si sono dati un bacio.
Voglio dire, se in Spagna si possono sposare coppie dello stesso sesso, non sarà certo uno scandalo se si baciano in pubblico.
Ecco cos’ha la Spagna in più di noi. Le regioni a minoranza linguistica sono autonome, costituiscono una minietnìa a sé, i catalani sono anche spagnoli, ma sono, prima di tutto, catalani. Appunto. Come i galiziani e i baschi. Oddìo, lì c’è sempre stato qualche problemino, sarà che i baschi hanno resistito sul loro territorio che occupavano da prima che arrivassero gli indoeuropei, figuriamoci.
Gli spagnoli si riuniscono e contestano. O mettici un po’ un toppino.
Da noi, in Italia, probabilmente sarebbe stata anche possibile la presenza di 200 gay lungo il corteo papale. Purché afflitti dalla vergogna e intenti a fustigarsi per aggravare in questa vita il doloroso inferno che li attende nell’aldilà.
Tu che stai vivendo l’estate a tutto tondo e che sei davvero glamou… trend… stronz… alla moda, sappi che è l’ora del
BACIO®
Ma sì, altro che happy hour del cavolo, con l’aperitivo cenato, se il portiere della nazionale spagnola Casillas ha baciato la sua fidanzata in diretta televisiva, tutti possono baciare chiunque, liberamente, senza falsi pvdori sentendosi delle starSSSSss.
Come hanno già fatto in tanti.
Come hanno fatto Palleschi Luana e Marmugi Otello, ritratti in questa indimenticabile istantanea (foto: Adelmi Athos).
Quando in Spagna muore uno scrittore del calibro di Miguel Delibes, forse l’unico vero autore di romanzi e narrativa del dopoguerra (civile!), c’è un senso di partecipazione, di ordine, di silenzio, di rispetto, di consapevolezza di aver perduto, in un intellettuale, qualcosa di proprio.
Così, al funerale di Miguel Delibes c’era quella solennità austera, quel senso di appartenenza tipico della Vecchia Castiglia, con cerimonia sobria nella cattedrale di pietra nuda di Valladolid.
Da noi la morte di una persona di statura e levatura simile sarebbe stata liquidata con un servizio di mezzo minuto al TG3.
Don Miguel, l’autore di capolavori come "La sombra del ciprés es alargada" (premio Nadal, 1947) e "Cinco horas con Mario", se n’è andato mentre i suoi cari gli dicevano "Miguel, estamos todos; te queremos mucho."