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In tutti i paesi europei si stringe il freno sull’uso dei cellulari in classe. In Italia, come sempre, siamo in leggera controtendenza. Ma “leggera”.
Quindi stiamo andando verso una regolamentazione (fatta di leggi, decreti, circolari ministeriali) che consente l’uso del cellulare (o del tablet, si veda il caso) solo per determinati usi. Segnatamente quelli didattici. Si potrà, cioè, usare il cellulare per fare una ricerca su internet. Non lo si potrà usare, chiaramente, per comunicazioni personali.
Bello! Però c’è un “però”. Ed il punto è che i ragazzi, oggi, il cellulare a scuola lo usano già e regolarmente. Per chattare con l’amico o l’amica del cuore, per mandarsi fotine (sostantivo vomitevole), per immortalare (e sputtanare) l’insegnante in atteggiamenti compromettenti, per cercare notizie (solitamente sul calcio e sui risultati della domenica o sul posticipo della serie A), per ascoltare la musica con le cuffiette e il cappuccio della felpa ben calcato sulla testa. Il cellulare è la naturale prosecuzione del loro essere, quindi negarglielo sarebbe come oscurare una parte del loro stesso io. Quindi lo usano a scuola perché il loro cellulare sono loro stessi e se ne fregano altamente delle regole. Sditeggiano quando e dove vogliono, e se proprio devono fare una chiamata vocale, si alzano (senza chiedere il permesso) e vanno in bagno (sempre senza chiedere il permesso). “E’ mia madre”, “Ho risposto a un messaggio”, “Stavo facendo vedere una cosa al mio compagno”, “Ma no, ho solo consultato Wikipedia” (bugia colossale! Non gliene importa niente di Wikipedia, e in questo caso fanno anche bene), insomma, c’è sempre una scusa, una attenuante, qualcosa che renda più leggero il fardello del loro usare il cellulare in classe che oltretutto non si potrebbe, anzi, non si può.
E figuriamoci adesso che si sta preparando la strada alla liberalizzazione controllata dell’uso dello smartphone o dell’iPhone che sia. Tutti a cercare materiale didattico da cui poi possono agevolmente copiare, con la complicità di qualche professore babbeo e un po’ tonto in fatto di tecnologia, che dice “Oh, hai fatto veramente un bel compito, sai? E’ tutto tuo??” E l’alunno, carogna “Oh, sì professore, ci ho messo tutte e due le ore che avevamo a disposizione, anzi, temevo proprio che non mi bastassero!” (vero niente, ha trovato una pagina su internet e l’ha copiata di brutto, ma intanto prende otto perché il professore rimbecillito non è in grado di provare l’orrido plagio). E soprattutto via alla chat coatta, allo scambio di immagini selvaggio, alle lunghe, inutili e urticanti liste di discussione su WhatsApp (tra cui quelle della classe da cui i professori sono regolarmente e crudelmente bannati). Sempre con la scusa che tanto a scuola è ammesso e che, in realtà si stava facendo una ricerca per il programma di geografia, ecco qui, professore, lo vuol vedere? -aria di supponenza e di sfida – (Tanto lo sanno perfettamente che il professore non solo non vuole, ma non può andarsi a guardare i cellulari dei suoi alunni, perché provati un po’ a toglierglielo o, peggio, a “sequestrarglielo”, non fai più vita…).
Perché, chiediamocelo con innocente candore: chi li controlla, e, soprattutto, quali strumenti e quali poteri ha il docente per controllare? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Però intanto il cellulare in classe è un segno dei tempi, perché la tecnologia sta cambiando il nostro modo di vivere, bla bla bla, ormai in rete si trova di tutto (è questo che dovrebbe impensierirci), i nostri figli sono dei nativi digitali (sì, però quando hanno rotto hanno rotto, sempre con questo cavolo di cellulare in mano), non si può fermare il progresso (e chi vuole fermarlo? Casomai si vuole fermare l’uso improprio che se ne fa) e via discorrendo.
Tutto questo negli altri paesi europei è tabù. Il cellulare in classe non si usa e basta. Ma noi continuiamo ad essere in leggera controtendenza.
PS: Non amo parlare del mio lavoro, sia nella vita privata che sul blog. Se lo faccio è per eventi o fenomeni macroscopici (come questo) o che possono destare qualche allarme sociale (come il fenomeno dei docenti che “amano” le loro alunne minorenni). Per cui non ve la prenderete se mi assumo il buon proposito di non scrivere più di “scuola” per lungo, lungo tempo.