Si fa un “selfie” nuda per il fidanzato ma lo invia a suo padre

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Si tratta certamente di un fake ma, si sa, io sono un ragazzo semplice.

L’utentessa (tiè, oggi vanno tanto di moda i femminili a tutti i costi) “nyyy nyyy”, titolare dell’account Twitter @dearfashionn ha pensato bene di far ribollire i sensi del proprio drudo e si è fatta un “selfie” (un giorno chi ha inventato questa parola morirà e io andrò a ballare sulla sua tomba vestito di rosso e con una rosa tra i denti) nuda e in posizione inequivoca. Penso che a molti farebbe piacere ricevere delle attenzioni del genere e il punto non è certo il bene o il male che, eventualmente, si possano ravvisare in un gesto del genere.

Solo che invece di mandarsi al proprio fidanzato si è inviata al padre (ah, lapsus!)

Il quale, giustamente, le ha chiesto spiegazioni (“E’ questo che fai mentre sei a scuola?”) e ha montato su un casino che lèvati.

Ma c’è di più. La ragazza, nell’intento di “recuperare la foto” (non si sa bene come, ma la disperazione fa fare questo ed altro) ha chiesto informazioni al popolo della rete trasportando il suo caso dal contesto del dramma domestico a quello dell’ilarità collettiva.

Si tratta certamente di un fake ma, si sa, io sono un ragazzo semplice.

 

Aosta: ragazza 19enne invia le sue foto nuda a un amico, ma finisce sulla prima pagina di un giornale (e questo giustifica la lunghezza del titolo)

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Vediamo se riesco a spiegarlo bene e a fare il blogger perbenino.

Allora dunque sì, vediamo un po’, si diceva, ad Aosta c’è una ragazza che il selfie lo preferisce un po’ piccante. Così si autoscatta due o tre immagini nuda (se lo può permettere, è giovane e, pare, anche carina) e le spedisce a un amico tramite WhatsApp.

Poi, com’è andata, cumm’è ‘o fatto, cumm’è ‘gghiùto, le foto sono venute in possesso di altre persone, oltre al primo destinatario che, da quello che emerge dalle informazioni in mio possesso, non era il fidanzato della giovane. Il quale fidanzato l’ha mollata su due piedi (la ragazza è giovane e se ne farà una ragione, del resto non poteva certo aspettarsi che l’accogliesse a braccia aperte al suo ritorno).

Sarebbe una storia di ordinaria diffamazione, e infatti ce ne sono i presupposti e forse anche le querele.

Per il resto è una storia sbagliata, di quelle che piacerebbero tanto al vice questore Rocco Schiavone, il personaggio nato dalla penna di Antonio Manzini, e che si ritrova ad Aosta a trapiantare le sue radici romane, i suoi dolori e anche la sua paraculaggine (leggetelo, ne vale la pena).

Tanto sbagliata che se n’è occupato un giornale. E’ qui che il conquibus si conquiba. E’ qui che la storia della ragazza smette di restare contenuta nelle mura domestiche e di andare a letto senza cena (dico la giovane, non la storia -accidenti a me e quando mi ingarbuglio con la tastiera!-) e diventa di dominio pubblico. La ragazza, si apprende, è la figlia di un politico. E la storia non viene raccontata in un trafiletto della cronaca locale, no, viene sbattuta in prima pagina.

Il perché un giornale locale (la Gazzetta Matin) si sia occupato con tanta enfasi di una ragazza nuda non lo so. O, meglio, lo so ma non lo posso dire (tanto lo capite benissimo da voi). Mi limito a sottolineare che non può essere una notizia di interesse. Il mondo è pieno di gente che vive una sessualità “mediata” (tramite Facebook, Twitter, WhatsApp…) e sbattiamo in caratteroni cubitali nero-verdi una ragazza per il solo essersi (imprudentemente, certo) mostrata e perché ha un “amico” un po’ birbantello che ha fatto un po’ il bravuccio con gli amichetti suoi una volta in possesso del materiale? O perché il padre si è infuriato (e certo che si è infuriato, cosa avrebbe dovuto fare, da padre, dirle “Brava, figlia mia, sono orgoglioso di te, domani ti compro la macchina nuova, intanto prenditi questo bel bacio in fronte“)?

E continuavano a chiamarla diffamazione.

Lolite a Teramo

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Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un breve viaggio di tre passi sul palato per andare a bussare, al terzo, contro i denti. Lo-li-ta. Era Lo, null’altro che Lo, al mattino, diritta nella sua statura di un metro e cinquantotto, con un calzino soltanto. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea punteggiata dei documenti. Ma nelle mie braccia fu sempre Lolita.”

Vladimir Nabokov, Lolita
E così anche nel teramano le hanno beccate.

Ragazzine minorenni, con ogni probabilità “di buona famiglia” (si dice sempre così quando si vuol distaccare il frutto marcio dall’albero che lo ha generato e che si suppone sano), insospettabili, che si dà per scontato che debbano pensare alla scuola, allo studio, ai turbamenti segreti per qualche ragazzino, a uscire con le amiche e invece schiaffano le loro foto per nulla caste su ask.fm.

Nude su richiesta, dunque, o, come si dice con anglicismo improponibile, on demand, contando da una parte sulla complicità dei mezzi (puoi farti una foto nuda da sola e farla circolare senza che nessuno ti veda) e sull’ignoranza dei loro limiti (nessuno è veramente anonimo su internet).

Ignoro come sia andata. Chissà, magari qualche genitore ha scoperto il “giro” e ha interessato la polizia postale per vedere fino a che livelo da girone dantesco sia profondo (“cignesi con la coda tante volte/quantunque gradi vuol che giù sia messa”), qualcuno che non ci sta a definirla una ragazzata, un qualcosa che possa essere risolto “tra galantuomini“, perché, si sa, è da “galantuomini” mettere sempre tutto a tacere quando i figli fanno le pirlate. Oppure quelle fotografie sono cadute nel calderone di una inchiesta più ampia.

Ma il senso del pudore ce l’hanno anche le minorenni, queste ragazzine che se il padre entra per sbaglio in camera loro mentre si cambiano saltano in aria e sbattono la porta, ma poi si fanno i “selfie” alle tette  perché è tanto figo.

E allora perché lo fanno? E’ semplice, lo fanno perché lo vogliono fare, perché è una loro scelta. E i genitori sempre lì a dare la colpa a internet, alla rete, ai social network, “a questo Facebook che io non so nemmeno cosa sia“. Però regalano alle loro figlie telefonini da 500 euro che si collegano perfino ai dischi volanti, perché loro vogliono WhatsApp. O, semplicemente, permettono loro di usarli solo perché qualche zia o nonna ringoglionita regala loro dei soldi perché hanno preso un bel voto in religione e quelle ci si sono comprate la quintessenza della telefonia compatibile con il pensiero neoputtanista dilagante (perché, si sa, “se no non sei nessuno“).

E non “tradiscono” solo la fiducia dei genitori. Tradiscono anche il loro portafoglio (è intestata a loro la connessione internet di casa, e loro pagano la bolletta anche perché la figlia ha voglia di farsi due cosine via webcam) e li pongono a rischio di procedimento penale (è a loro che è intestata la SIM con cui fanno mostra di sé sulla rete, e, comunque, esiste sempre la “culpa in vigilando”, ossia, se hai una figlia che zoccoleggia in rete la colpa è tua che non hai saputo vigilare sui suoi comportamenti).

Sì, lo so che questa non è certo la vita che ho sognato un giorno per (tutti) noi.

Cumme te po’ capi’ chi te vo’ bbene si tu le parle miez’americano?

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Sul “Corriere della Sera On Line” è apparso un articolo di Luisa Pronzato sul lato buono del “selfie”, che secondo me risiede nel fatto che è una parola assolutamente orrenda.

Ma a parte le mie impressioni, nelle prime tre righe e mezzo ci son già tre errori da matita blu. Le riproduco così come sono, potete confrontarle con lo screenshot che vi fornisco (poi ditene male, eh, mi raccomando…).

“Contatto? Scatto? È immediato. Ci si è appena conosciuti e s’ha da condividere il “contatto”: numero cellulare, mail, twitter, whatsup, faceboock e via di social…”

1) Intanto i nomi di aziende si scrivono con la lettera maiuscola. Si scrive “Twitter” ma “ti mando un tweet”. Sono dei nomi tutti e due, perché “Twitter” è nome proprio di persona (giuridica, in questo caso);

2) “Facebook” si scrive “Facebook” e non “faceboock” (sì lo so, “un banale errore di battitura”, come se un giornalista non avesse mai scritto “book” in vita sua -“instant-book”, “guest-book”-);

3) “whatsup” è decisamente meraviglioso. Confonde l’inglese “up” con l’abbreviazione “App” di “Application”.

Al di là della banale dozzinalità dell’ortografia, c’è un’osservazione ulteriore da fare: questi errori rappresentano il maldestro desiderio di occuparsi di una parte della rete (i social network, in questo caso), di occuparsene in visione sociologica, di darne una spiegazione, di eviscerarne in chiave intellettuale le componenti, insomma, di improvvisarsi esperti delle cose umane e internettifere, ma se bevi whisky and soda poi te siente disturbà’ e poi si péstano certi svarioni che lèvati. Ma dicono che porti bene!

Parole da odiare: “selfie”

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Siamo buffi noi italiani quando ci innamoriamo delle parole straniere.

Ora va tanto di moda “selfie“. Che, bisogna dirlo, è una parola che fa schifo di pietà, ma che è riuscita a insinuarsi nel linguaggio del web (ma non solo) e incancrenirsi, nell’uso, anche nel lessico dei giornalisti più accreditati (come vedete, su Twitter c’è cascata anche Anna Masera de “La Stampa”).

Cosa voglia dire codesto “selfie” è fin troppo chiaro. Viene dall’inglese “self”, cioè “da solo”, “autonomamente” (si vedano espressioni come “self-service”, “self-made-man”), solo che c’è quell’odiosissimo suffisso -ie che in inglese indica una sorta di diminutivo-vezzeggiativo. Si riferisce in genere a una foto (o, più raramente, a un filmato) scattata col cellulare e che ritrae lo stesso autore da solo o insieme a altre persone.

Ma noi una parola per dire tutto questo ce l’avevamo, era “autoscatto“. Evviva, le parole esistono, rilassatevi!!