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Barbara Collevecchio mi ha inviato una richiesta di rettifica.
E’ abitudine di questo blog ospitare tutte le voci di dissenso e non di offesa. Per questo qualcuno tempo fa ha perfino provato a farmi stare zitto, naturalmente non riuscendoci. E’ solo ed esclusivamente in ossequio a questa tradizione di trasparenza nei confronti dei lettori che dedico questo post lunghissimo alla questione.
Ritengo, tuttavia, la sua richiesta di rettifica irricevibile tanto nella forma quanto nella sostanza.
NELLA FORMA:
* La richiesta della Collevecchio è stata inoltrata ai sensi della legge n. 47 del 1948, la cosiddetta “legge sulla stampa”. In particolare, sottolinea la controparte, “Il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale.”.
Un blog, e la Collevecchio mi dimostri il contrario, non è stampa periodica (anzi, si caratterizza proprio per la sua aperiodicità), può essere gestito anche da chi non sia iscritto all’albo dei giornalisti o da chi non eserciti quella professione. In altre parole, non è “un quotidiano, un periodico o un’agenzia di stampa”.
Non ha neanche l’obbligo di registrazione. E la legge non è stata mai modificata in questo senso.
Mi sembra quanto meno strano che la Collevecchio ignori questi dati lampanti (dati di fatto, ripeto, quindi non soggetti a opinioni), perché ha a sua volta un blog personale e ne gestisce un altro per conto di un quotidiano nazionale.
* La richiesta originaria espressa in termini pacati e civili,
riporta un link al blog personale della Collevecchio che titola “Caso de Cataldo: Richiesta di rettifica a Giornalettismo e Chiara Lalli”. Ora, questo blog non è giornalettismo.com e io non sono Chiara Lalli. Basterebbe questo dato inequivocabile: la richiesta non è stata indirizzata a me per mettere fine a questa inutile polemica. Le polemiche si smontano coi fatti, non con le opinioni e con gli “io volevo dire”.
E dal punto strettamente formale, se è il direttore responsabile a dover pubblicare una rettifica, come prevede l’articolo di legge, cosa c’entra Chiara Lalli, ovvero il giornalista che ha esteso un articolo per cui si chiede una rettifica estensiva? Dev’essere la stagione dei saldi delle rettifiche, formula 2×1!
* Usare Facebook per inoltrare una richiesta di rettifica mi sembra quanto meno inopportuno. Proprio perché chiunque potrebbe aprirsi un account a nome di qualcun altro e spedire qualunque cosa a chiunque. Diciamo che in questi casi una raccomandata con ricevuta di ritorno o una PEC, che ha lo stesso valore e costa anche meno, sarebbero stati più opportuni. Non è una questione di essere affezionati a un burocratico “io sottoscritto nome e cognome”, ma che, perbacco, su una richiesta si metta almeno uno straccio di firma in originale. Questo sì, lo pretenderei.
* …e poi su Facebook si dànno tutti del tu. Io con la signora Collevecchio non l’ho mai fatto. Lei con me sì (“Vedi di rettificare anche tu”, la conosco? No. Viviamo nella stessa località ma questa è solo una coincidenza) . Sarò un modaiolo old fashioned, ma la trovo un’abitudine sgradevole e poco opportuna.
NELLA SOSTANZA:
Ammesso e non concesso che il testo della richiesta di rettifica pubblicato sul blog della Collevecchio possa essere in qualche modo applicato anche al mio articolo di ieri, ecco le mie osservazioni.
“Riguardo all’articolo pubblicato sul vostro giornale online da Chiara Lalli Vorrei sottolineare che mi viene rivolta una accusa molto grave e totalmente infondata.
Nell’articolo si lascia intendere che io avrei scritto un “commento” nel quale accusavo Massimo Di Cataldo di aver commesso delle violenze nei confronti della moglie-compagna, e avere di conseguenza fomentato un linciaggio mediatico contro il cantante.
Ciò non è affatto vero in quanto io ho inizialmente solo postato la notizia così com’è apparsa nei principali giornali senza minimamente commentarla.”
Ribadisco, non sono Chiara Lalli né giornalettismo.com. Il “commento” a cui fa riferimento la Collevecchio era quello che recitava “La moglie di Massimo di Cataldo pubblica su FB foto che dimostrano come lui l’ha pestata a sangue e fatta abortire”.
Questo post, ancorché non contenga un’opinione esplicita, induce “ex se” un lettore a ritenere che:
a) Massimo di Cataldo ha pestato “a sangue” la moglie;
b) Ci sono delle foto che lo dimostrano e queste foto sono state pubblicate dalla moglie su Facebook.
A rendere ancora più forte questo messaggio è l’uso dell’indicativo. Siamo abituati, quando si parla di reati o di cronaca giudiziaria, a usare l’espressione “il condizionale è d’obbligo”. Proprio perché sono i giudici di merito a dover stabilire fatti, elementi di prova e responsabilità personali. Ma, soprattutto, in presenza di una sentenza definitiva e passata in giudicato. Invece no. Quelle foto “dimostrano” e lui “l’ha pestata a sangue e fatta abortire”. Nessun condizionale.
La Collevecchio non voleva dare a intendere questo? Benissimo, ma qui nessuno vuole fare il processo alle intenzioni, tutt’al più ci si prende la libertà costituzionale di criticare i fatti (ovvero le parole realmente scritte).
“Così come successivamente ho riportato anche le smentite di Di Cataldo e la notizia che la donna non ha intenzione di sporgere denuncia. Tutte le notizie che ho riportato erano prive di commento personale ma la semplice visione dei fatti dei diretti interessati.
L’unico mio commento è stato che qualsiasi fosse la verità, si tratta comunque di un caso “patologico e clinico” e un retweet di un commento che affermava che il social media non è luogo adatto per denunce o processi..”
Il tweet della Collevecchio con la versione di Di Cataldo l’ho pubblicato anch’io. Questo blog, quindi, ritene di aver fornito ai lettori con sufficiente completezza, tutto quello che la Collevecchio, in prima battuta, ha pubblicato. E che lei ritiene essere la “semplice visione dei fatti dei diretti interessati”.
Qui i casi sono due: o i tweet della Collevecchio riportano una testuale e fedele citazione di quello che hanno riferito i protagonisti o i giornali (allora dovevano essere scritti tra virgolette con la citazione dell’autore) o riportano l’elaborazione del pensiero originale di chi li ha scritti (allora le critiche sono più che legittime, non mi risulta sia scritto da nessuna parte che si debba essere per forza d’accordo con la Collevecchio o con chiunque altro ).
“Chiedo quindi, che come prevede la La legge n. 47 del 1948 (art. 8) Legge sulla stampa, venga rettificato l’articolo che in pratica mi accusa e lascia intedere, che io abbia espresso un giudizio di colpevolezza e aizzato gli utenti ad emettere una sentenza sommaria.”
Naturalmente, e la Collevecchio lo sa bene, nessuno accusa nessuno. Ma se scrive che “lui l’ha pestata a sangue e fatta abortire” (non scrive “picchiata”, scrive proprio “pestata a sangue”, dando anche una connotazione estrema al senso dell’alzare le mani) cosa deve capire un lettore? Quello che non c’è scritto?? E perché mai quello che scrive non può essere oggetto di critica?
Sull’aizzare gli utenti, naturalmente, la Collevecchio sbaglia uscio, sono gli utenti che hanno scritto spontaneamente i commenti. Ma li hanno scritti anche (non solo, ma ANCHE) sulla base del contenuto del messaggio originale. E il senso del mio “I commenti all’intervento di Barbara Collevecchio non si sono fatti aspettare” mi sembra chiaro. Non sono stati in nessun modo “stimolati” o provocati. Sono sorti spontanei sulla base di un messaggio che si prestava a una e una sola interpretazione.
“Trovo molto grave l’accusa che mi viene rivolta senza tra l’altro alcun fondamento di verità; cosa dimostrabile dalla timeline dei miei post.”
Bene, allora la nostra gentile interlocutrice ci dica dove questa accusa le viene rivolta. Non lo farà perché avendo usato il copia-incolla di una richiesta di rettifica intestata ad altri non può applicarla meccanicamente a tutte le risorse che la criticano. Personalmente ho scritto che “Si tratta di un modo brutto e insinuante di presentare dei fatti” e lo penso tuttora. Questa non è un’accusa ma un’opinione personale, a cui sono soggetti tanto gli scritti della Collevecchio, oltretutto pubblicamente reperibili, come i miei, come quelli di chiunque altro.
Nota di colore: bello anche l’uso di “timeline”. Ma “cronologia” era vietato??
“Chiedo quindi che venga immediatamente pubblicata una rettifica che evidenzi molto chiaramente la mia totale imparzialità nel riportare sia la notizia che le successive smentite.”
Quel commento è di mano della Collevecchio. Può darsi che ella intendesse riportare una notizia in maniera asettica, ma il messaggio genera, indubbiamente, nel lettore un sentire ben diverso. Punto. Poi le eventuali intenzioni possono essere chiarite in un dibattito sul web in modo che tutti abbiano la possibilità di vederle e farsi un’opinione. Ad esempio sul mio blog è possibile postare commenti, come mai la Collevecchio non lo ha fatto, preferendo affidarsi alla citazione di un articolo di legge?? Io una risposta ce l’avrei, ma, come ho detto più volte, non sono per i processi alle intenzioni. E come mai, una volta resasi conto che quel post poteva essere equivocato non nel contenuto ma nelle intenzioni, non ha provveduto a rettificarlo? Eppure poteva. Bastava cancellarlo e scriverne un altro.
Collevecchio mi scrive: “il tuo articolo è falso”.
No, non lo è. Il mio articolo si riferisce a quello che lei ha scritto. Come può essere falso? Se il mio articolo è falso vuol dire che lei NON ha scritto i due post a cui mi riferivo. Perché non me lo ha detto prima?
Successivamente; “io non sono responsabile né dei RT né dei commenti. Ho postato smentita e anche la non denuncia. Trova altri pretesti”
Non ho nessun pretesto se non quello di esprimere la mia opinione su quello che vedo, sento e leggo. Convengo senz’altro che la Collevecchio, come quanunque altro utente Twitter non sia responsabile dei re-tweet. Ma è CERTAMENTE responsabile dei commenti. O meglio, non ne è responsabile in quanto estensore, ma in quanto intestatario dell’account.
Se un commentatore della Collevecchio dovesse diffamare Qualcuno, e questo Qualcuno dovesse sporgere querela, sarebbero punibili sia il diffamatore che la Collevecchio, perché “Se il delitto di diffamazione è commesso col mezzo della stampa le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche al direttore o vice-direttore responsabile, all’editore e allo stampatore, per i reati preveduti negli articoli 57, 57 bis e 58″ (art. 596 bis Codice Penale, adesso un articolo di legge l’ho citato anch’io e l’equilibrio è stato ripristinato).
So cosa si può obiettare: “Twitter non è stampa”. Però questa volta l’art. 595 CP che disciplina la diffamazione parla di “col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. E Twitter è un mezzo di pubblicità. Per cui sì, Barbara Collevecchio è responsabile di quello che è scritto nei suoi commenti su Twitter (come su Facebook, come sul suo blog personale), se non altro perché può tranquillamente cancellarli. Non vuole farlo? Non ha tempo per farlo? Lo trova assurdo? Benissimo, accetti le possibili conseguenze.
Per questi motivi, che mi sembrano più che bastevoli, e per quel tanto di dignità che mi rimane, nonché di rispetto nei confronti di chi mi legge (“Chi mi segue sa”, dice ancora la Collevecchio) ritengo opportuno non rettificare alcunché di quello che ho scritto, che riconfermo nella sua totalità.