Oggi, giusto perché non so cosa dirvi, vi informo (ma lo avete visto anche da soli) che ho cambiato il vestitino al blog. Il colore rosso mi aveva sinceramente stufato e l’ho sostituito con questo arancione e verde, un po’ più vivace. Ma siccome ho svariati colori ancora a disposizione, è molto probabile che li cambi ancora a seconda del mio personalissimo umore quando voglio e quando mi va, paraponziponzipà. Per ora mi pare bello così.
Ho finalmente cambiato il font degli articoli. Nulla di eccezionale (è un semplice e banale Tahoma -o Verdana, ora non mi ricordo, li confondo sempre), ma adesso finalmente il blog si legge perbenino. Godranno del cambiamento in meglio soprattutto gli utenti che leggono da PC, perché ho visto che gli effetti su smartphone e tablet non sono poi così incoraggianti. Mejor algo que nada. Insomma, via, per oggi ho fatto un bel lavorino.
Allora, pare proprio che la prossima versione del browser Google Chrome penalizzerà, evidenziandoli come NON SICURI, tutti i siti che si appoggiano sul tradizionale protocollo http://. Per ovviare a questo problema, ed evitare così che il blog venga penalizzato dal motore di ricerca, ho generato un certificato SSL. Non chiedetemi di che cosa cavolo sto parlando perché non lo so nemmeno io.
Ve l’avevo detto che ci sarebbe stato da schiantarsi dalle risate.
Un mio commento sul blog “Disinformatico” di Paolo Attivissimo, inserito verso le 13,30 di ieri, per tutto il pomeriggio e buona parte della sera non è apparso nella cronologia. Tanto da indurmi a segnalare la cosa su Twitter, segnalazione che mi è valsa, come è noto, l’esclusione dal nòvero dei fans di Paolo Attivissimo (e chi l’ha mai detto che io sono un suo fan?), l’espulsione da tutte le scuole del Regno, la cacciata dal Paradiso terrestre e tutta una serie di condanne accessorie, naturalmente alla frequentazione di gironi danteschi di varia fatta e natura. Attivissimo ha mille pregi, ma è incredibilmente permaloso (e la permalosità non è un reato, per carità), e questo lo ha indotto a definirmi una “persona piccola e triste”, cosa di cui parleremo altrove, se del caso.
Successivamente (e solo successivamente, si badi bene), il post è apparso come per miracolo, naturalmente in buon ordine cronologico. E’ una cosa facilmente dimostrabile: ieri quando ho fatto lo screenshot del commento con l’apprezzamento di Attivissimo, quel commento portava il n. 67 (andate pure a controllarlo nell’articolo precedente).
Oggi porta il n. 69. E’ segno che due commenti sono stati inseriti nel frattempo. Uno è esattamente sattamente il n. 64, quello rimasto in “sospeso”.
Questi i fatti, che non sono minimamente in discussione.
Ovviamente di cosa parlano i seguaci di Paolo Attivissimo? Di Medici Senza Frontiere? Del debunking al film complottista?? Di qualcosa che abbia anche la pur vaga attinenza con il tema della discussione del giorno??? No. Parlano di me. L’argomento non è più quello proposto dal post originario, ma si è spostato sulla mia umile personcina che non ha mai fatto del male a nessuno, a parte quando ho detto la verità su Medici Senza Frontiere e quando ho alzato il ditino per dire che un mio commento non era stato (ancora) approvato (cioè ancora una volta una circostanza vera) e si è aperto il cielo e si è squarciata la terra. Quali sono gli argomenti? C’è un certo “harlequin” (minuscolo nell’originale, sic!) che dice che il 90% dei miei tweet sono polemici. Non dice la cosa più ovvia che potrebbe dire: “nel 90% dei casi non mi trovo d’accordo con i tweet di valeriodistefan”. La “colpa” non è di una divergenza di vedute, no, sono in assoluto i miei tweet (con tanto di percentuale, segno deve averli letti proprio TUTTI) a essere polemici, senza neanche dire un’altra cosa anche questa lapalissiana: “Nel suo account Twitter, l’utente valeriodistefan può scrivere quello che vuole perché è a “casa sua””. Quello che il seguace medio di Paolo Attivissimo rivendica per sé (eh, la moderazione, tu non puoi fare come vuoi, il responsabile è il guru, chi ti credi di essere, tu non sei in casa tua) non lo riconosce ad altri, anzi, lo critica.
Prosegue “harlequin”: “il 90% dei suoi tweet non hanno commenti nè “mi piace””. E qui c’è davvero di che stupirsi. Perché da quando in qua i “like”, o i “mi piace” sono indice della validità o della dignità all’interesse di un qualsiasi contenuto? Da quando c’è Facebook. Ed è questa cultura facebookiana che si è inoculata nella visione del fan medio di Paolo Attivissimo: se hai tanti commenti e tanti like sei bravo e scrivi cose interessanti, e poi viene Babbo Natale giù dal camino che ti porta i doni perché sei stato buono, se non hai “like” viene la Befana e ti porta il carbone perché scrivi cose polemiche. A me i “like” non sono mai interessati. E’ facile scaricarsi la coscienza con un clic. Più difficile argomentare le proprie posizioni contrarie. Ce n’è anche per il blog, che, sempre secondo “harlequin” avrebbe solo il 10% di articoli commentati. Ora, questo blog ha oltre 4000 post. Li ha consultati tutti per poter affermare una cosa del genere?? Non lo sapremo mai. Quello che sappiamo è che “harlequin” termina con questa domanda cosmologica: “davvero è il caso di continuare a parlare di lui?“ (cioè di me) Ma veda un po’ lui. Se ritiene opportuno usare il suo tempo e le sue energie per criticarmi vuol dire che -almeno per lui- sì, è “davvero il caso”. Se no può starsene zitto o parlare di altro.
Poi c’è un altro che si fa chiamare “Grezzo” (nome e cognome mai, sempre e solo pseudonimi) che scrive: “Ehm, e a giudicare dai suoi screenshot pare usi ancora Windows XP… “ Notevole argomentazione, non c’è che dire. Sì, ho una macchina con una (vecchia) partizione Windows XP. La uso per gli screenshot e per altre cosette ancora. Siccome ho comprato quel sistema operativo (con soldi che non chiedo a nessuno) mi sembra giusto che io lo usi almeno finché mi serve o mi è utile. Invece no, invece c’è questo ditino puntato di chi, bontà sua, è arrivato a Windows 10 o addirittura a un Mac e considera delle mezze calzette chi non si aggiorna, chi non evolve, chi non ha l’ultimo grido in fatto di grafica, suono, video, effetti speciali, frizzi, lazzi, triccheballàcche e tutto quanto fa spettacolo. In breve, sono i fan del cannibalismo informatico, sempre in barba all’informatica sostenibile, che ti giudicano per quello che usi e non per quello che dici. Come quelli che guardano come vai vestito per la strada.
L’altra sera, su Twitter, ho avuto uno scambio di messaggi con Paolo Attivissimo. E ora sono qui a pavoneggiarmi.
Lui aveva trovato un lancio dell’agenzia ANSA che riportava, nel titolo, un evidente refuso (“Trumo” per “Trump”). Pochi giorni dopo individuava un “Gualtierio” per “Gualtiero”. Piccole cose. Peccatucci di pochissimo conto. Che però per Paolo Attivissimo sono rivelatori di una pasticcioneria più diffusa che renderebbe sciatti perfino i contenuti. Ho difeso l’ANSA nella discussione perché mi sembravo veramente errorucci da poco, anche se nel titolo fanno un effetto maggiore che non nel corpo dell’articolo o in altre parti della pagina (“il refuso, quando è sistematico, è sintomo di sciatteria che si estende al resto del prodotto.”)
Il mondo del giornalismo italiano è pieno di queste ridicolaggini. Ma mi sono chiesto se questo tipo di errori, in posizioni strategiche, non siano solo il frutto di una banale disattenzione (in fondo la p di “Trump” è vicina alla o e scrive “Trumo” è veramente un batter d’occhio) ma siano addirittura volute per monitorare i siti on line dei giornali succhia-succhia, quelli che riprendono immediatamente il lancio d’agenzia e non fanno nemmeno un lavoro di verifica sulle fonti, sui fatti e, perché no, sull’ortografia.
In fondo, uno dei capisaldi dell’ecdotica, cioè della critica testuale è proprio il fatto che a separare o ad unire in una sola famiglia più fonti scritte è l’errore. Attraverso l’errore si può capire chi ha copiato da chi, per cui se io immetto un errore in un testo scritto per il web (come questo articolo, ad esempio) e voglio vedere in quanti me lo copiano con un semplice copia-incolla, dopo un po’ esce fuori che “Trumo” è stato copiato da una miriade di siti (fonte: Paolo Attivissimo via Twitter)
Oggi ho provato a fare una ricerca col solo termine “Trumo” e l’unica a non aver ancora corretto è stata proprio l’ANSA.
Un culo è un culo. E un culo che sia un culo si chiama “culo” proprio perché è un culo. Non si chiama “lato B” o “le terga”. O “sedere”, giusto per addolcire.
Ciò premesso, accade anche in questa Roseto, piccolo mondo di un mondo picccolo come la chiamerebbe Giovannino Guareschi, in questa ridente cittadina che sempre meno ha da ridere, che un consigliere comunale, nonché segretario locale del PD, tale Simone Aloisi posti (“un po’ per celia un po’ per non morir”, direbbe la Butterfly) su Facebook un selfie che lo ritrae sdraiato su un lettino, con accanto un culo femminile altrove definito “scultoreo” (per noi è un culo e basta). Pochi minuti e il popolo di Facebook, che, si sa, è implacabile sia quando dà dei giudizi positivi che quando dà dei giudizi negativi, si è tuffato a mani basse a difendere il consigliere comunale, oppure a stigmatizzare il contenuto sessista dell’immagine. Alla fine le spiegazioni di Aloisi: “Noto che da uno scherzo tra amici si è scatenato un polverone più grande del previsto, ovviamente chiedo scusa se ho potuto urtare la sensibilità di qualcuno ma di certo non era questa la mia intenzione, è chiara una cosa: il mio ruolo mi impone di mantenere un certo self-control, da oggi in poi cercherò di ricordarmelo. Non ho intenzione di cambiare per colpa della politica, continuerò a scherzare come ho sempre fatto”. Insomma, scherzava e poi, come spessso succede, il gioco gli è sfuggito di mano. Tanto che, adesso, pentito, il post è stato rimosso dal suo profilo Facebook (già, ma se scherzava e se non trova nulla di male in quello che ha fatto perché non l’ha lasciato?).
Fin qui i fatti. Per carità, può capitare a tutti “un momento di fosforescenza” (come scriveva Eduardo De Filippo in “Napoli Milionaria”) e di goliardia senza freni. E, in fondo, dicevamo, non c’è proprio nulla di male in quello che ha fatto l’esponente locale del PD. Già, è vero: non c’è niente di male. Ma non c’è nemmeno niente di bene. Voglio dire, che valore ha una azione di questo genere? Nessuno. Non è una cosa morale o immorale, no, è una cosa del tutto a-morale, che non ha un perché, non ha una causa, non ha una spinta all’origine, non ha niente di niente se non l’effetto dirompente di provocare delle reazioni (ma, in fondo, mi viene da pensare che la bravata sia stata organizzata a bella posta proprio per questo, per vedere di nascosto l’effetto che fa). In fondo tra fotografarsi con un culo a fianco e andare in giro vestite di tutto punto, attopatissime, con un tacco veriginoso, l’andatura ancheggiante e il seno strippato al punto di esplodere, non c’è molta differenza. Tutti e due gli atti hanno un solo scopo finale: quello di essere guardati.
E allora scatta la domanda successiva: cosa me ne frega a me di con chi vai a trascorrere una giornatina sul mare e se questa amica ha, per inciso, un gran bel culo? Ma saranno ben affari tuoi e del tuo privato. Io cosa c’entro? Io mi trovavo su Facebook a leggere il tuo profilo perché, oltretutto, c’è la non piccola discriminante che sei un personaggio pubblico. Tutto lì. Invece mi ritrovo questo cupolone che non dice nient’altro che “Guardami, sono qui.” Va bene, lo vedo che ci sei, e allora?? Niente, nessuna risposta oltre alla mera e banale constatazione dell’esistenza.
La rete, per fortuna, ha la memoria lunga. Ma anche i rosetani che vanno a votare a volte non scherzano.
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A distanza di pochi minuti dalla messa in linea di questo articolo, l’amico Pasquale Bruno Avolio mi comunica che il post originale non è stato rimosso da Facebook (grazie, prendo atto e correggo) e che la proprietaria del culo ha rivelato coram populo la sua identità. Prendo atto anche di questo e mi nauseo.
Il ddl contro le “fake news” (o “bufale”, come amano chiamarle gli attivissimi della lingua italiana) è al Senato.
Tragico ma vero, un pugno trasversale di senatori è riuscito a portare in aula un testo che più raffazzonato non si può e che fa acqua da tutte le parti. Il tutto allo scopo dichiarato di evitare la diffusione di notizie false e che possano suscitare allarme sociale nei media.
Di fatto la situazione è ben diversa, e i primi a farne le spese saranno i blog e i forum. Ma lo vedremo man mano analizzando alcune parti del ddl che mi sembrano determinanti (ci divertiremo!)
Primo firmatario del documento è Adele Gambaro. Eletta tra le file del M5S è stata successivamente espulsa con una votazione via internet dal blog di Beppe Grillo. Ha fatto anche altre cose degne di nota, come votare la fiducia al governo Letta e, perché no, un pochino anche a quello di Renzi. Così, tanto per non farsi mancare nulla.
E’ una donna, dunque, che è stata eletta mediante le strategie del web e che da un blog ha avuto la sua delegittimazione.
Non sorprenda, dunque, che il nome della Gambaro figuri in testa all’elenco di chi appoggia e sottoscrive in aula il testo normativo.
C’è anche la simpaticissima Serenella Fucksia (astenuta nel dicembre 2014 sul voto del Jobs Act, astenuto al disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati, anche lei espulsa dal Movimento) che nel 2013 difese Roberto Calderoli che aveva definito un “orango” l’allora Ministro Kyenge. Ce ne occupammo allora proprio qui nel blog. Wikipedia (sempre lei) scrive che “Ha, inoltre, più volte criticato la mancanza di un vero confronto di merito sui contenuti legislativi e denunciato preoccupazione per «i fanatici della rete»,definendolo «l’aspetto più critico del Movimento cinque stelle»”.
Meglio dunque porre mano a questo web e cercare di appoggiare l’operato della collega.
E che dire di Anna Cinzia Bonfrisco? Che nel 2007 fu quella che in piena aula di Palazzo Madama diede dell'”assassino” al magistrato D’Ambrosio (“Sei un assassino, assassino. Sei un criminale. Oggi è il tuo giorno”).
Come non ricordare, poi, la storica frase pronunciata nella trasmissione televisiva “Agorà” dalla senatrice Laura Puppato? «Le nostre riforme elimineranno la presenza fisica dei militanti leghisti». A parte la non democraticità di un enunciato del genere sulla bocca di chi di democratico si vanta di appartenere addirittura ad un partito intero, c’è da dire che all’enunciazione non sono poi seguiti i fatti. E questo è sotto gli occhi di tutti.
Ma tra i sottoscrittori colpisce soprattutto la presenza della firma di Rosaria Capacchione, giornalista e Senatore della Repubblica, costretta a vivere sotto scorta a causa della sua attività contro la camorra, e che ora si è buttata a difendere un ddl dal testo liberticida, azione che certamente non fa onore alla sua sofferenza e, come accade per tutti gli altri cofirmatari, ai soldi (pubblici) con cui viene pagata per fare il suo lavoro di parlamentare.
Last, but not least, evidenziamo, tra il gruppo dei proponenti, il nome di Antonio Razzi, ormai più famoso per l’imitazione di Crozza che come parlamentare. L’amico della Corea del Nord, che ha definito il suo dittatore un “moderato” e che ha negato l’esistenza nel paese di campi di prigionia («ci sono serre di pomodori grandissime, mai viste così grandi, saranno quelle, le scambiano per lager».).
La parola chiave dell’introduzione al testo del ddl è “controllo”.
E’ un dato che fa pensare (o lo vedi se anni e anni dedicati a fare le concordanze dei testi son serviti a qualcosa?) soprattutto se lo si associa a tutte le lodi sperticate che il legislatore ha fatto al lato positivo della medaglia di internet. Il testo è chiaro, ed è un ritornello sentito e risentito: la “libertà di espressione” non può essere “sinonimo di mancanza di controllo”.
Sembrerebbe quasi che ci sia una sorta di vuoto legislativo da riempire a tutti i costi con un qualcosa che normasse quello che normato non è. Invece le leggi ci sono: se una notizia falsa lede la dignità di una persona (ad esempio: “Tizio ha rubato le ciliegie dall’albero nel campo del vicino”) quella persona può sempre agire in giudizio per diffamazione.
Perché, dunque, c’è bisogno di “controllo”? E perché sottolineare che il “controllo”, nel campo dell’informazione, significa avere il diritto a una informazione corretta? Sono cose che il mondo della rete conosce perfettamente: i giornali per deontologia professionale, i blogger perché hanno delle responsabilità oggettive nei confronti di chi legge.
La rete si autoregola: una notizia falsa e 100 notizie, post, riferimenti, link che ne evidenziano la menzogna. Funziona così. Solo chi non la conosce ha bisogno di regolamentarla. E le bufale si smontano con i fatti. Da sempre.
L’articolo 1 del testo presenta una incongruenza evidente: inizia con il classico “Chiunque” delle norme penali e finisce, al comma 3, per stabilire chi è escluso dall’applicazione della norma stessa, ovvero le testate registrate on line.
In breve, rischia 5000 euro di ammenda chiunque pubblichi notizie “false, esagerate o tendenziose”, ma se il chiunque è una testata registrata in Tribunale, non rischia proprio un bel niente.
Il ddl, dunque, si rivolge a quei prodotti editoriali di rete come il blog o come i forum.
E qui si aprirebbe già un maremagnum di domande.
In primo luogo CHI stabilisce e con QUALI CRITERI se una notiza è falsa, o anche semplicemente esagerata? Il magistrato che dovrà applicare la norma, non ci sono dubbi. E non ci sono dubbi anche che pioveranno sui tavoli dei magistrati tonnellate di rimostranze e di denunce (si sa, la gente intanto ti querela, “poi si vedrà cosa succede”…)
E poi: se un blog riprende una notizia falsa pubblicata, ad esempio, da un quotidiano on line, perché dovrebbe essere punito chi lo cura e non il quotidiano che ne è fonte? E’ vero o non è vero che tutti i cittadini (e i soggetti giuridici) sono uguali davanti alla legge? E si potrebbe andare avanti ancora. Ad esempio ci si potrebbe chiedere legittimanete se diffondere o pubblicare una notizia falsa su Facebook, Instagram o Twitter (che sono, a modo loro, delle piattaforme di blogging) rientri o no in quanto previsto da questo articolo.Nulla di nuovo sotto il sole.
L’articolo 2 allarga le fattispecie di delitto. Diciamo che mentre l’articolo 1 punisce la pubblicazione “semplice” di notizie false, esagerate o tendenziose, l’articolo 2 si occupa di quelle notizie false che possono destare pubblico allarme, fuorviare settori dell’opinione pubblica o aventi ad oggetto campagne d’odio.
E qui la pena massima è sempre dei famosi 5000 euro di ammenda a cui, però, si aggiungono 12 mesi di “reclusione”.
In breve, si affaccia nel testo di legge la parola “galera” (o qualche suo improvvisato equivalente, lo vedremo più avanti). Mentre in Italia il reato di ingiuria è stato addirittura depenalizzato ed è venuta meno l’ipotesi detentiva, potrei rischiare la “reclusione” se solo scrivessi (come ho già scritto) che l’omeopatia non funziona. Che è una notizia vera, ma siccome c’è gente che afferma esattamente il contrario e che è pronta a giurare che su di lei l’approccio omeopatico ha funzionato a dovere, il mio affermare l’inefficacia dell’omeopatia potrebbe destare allarme negli adepti, che costituiscono un settore dell’opinione pubblica e via discorrendo. Non parliamo poi dei colossi farmaceutici paladini dell’omeopatia che con questa legge andrebbero soltanto a nozze.
E’ ovvio che quello dell’omeopatia è solo un esempio, e, per carità, non pretendo nemmeno che sia calzante. Ma “reclusione” in casa mia ha un significato ben preciso e in Italia qualcuno rischierà di nuovo il carcere per una notizia. Non saranno più i giornalisti di professione, saranno i poveri cristi, gli incazzati o i malati di protagonismo digitale. E non dovrebbe essere illecito penale l’essere malati di protagonismo, se no io sarei già condannato all’ergastolo.
E poi mettiamo i puntini sulle “i”. Quel brav’uomo del professor Mario Simoni che mi insegnava diritto al liceo, mi spiegava che in Italia l'”ammenda” va con l'”arresto”, e la “multa” con la “reclusione”. “Ammenda” e “reclusione” non possono andare insieme.
L’articolo 3, poi, è il più eccentrico di tutti. Introduce l’obbligo per chi apre un blog, un forum, un sito web o una qualsiasi altra “piattaforma informatica destinata alla pubblicazione”, di comunicare al tribunale, entro 15 giorni dall’apertura, nominativo, domicilio, codice fiscale e indirizzo di PEC di chi lo gestisce. Il tutto allo scopo manifesto di “contrastare l’anonimato”.
Anche qui vagonate di comunicazioni ai Tribunali nello sciagurato caso in cui la legge dovesse entrare in vigore come tale e così come è approdata alla discussione in Senato. Il numero di siti e pagine web aperti ogni giorno in Italia è ancora considerevolmente elevato e un obbligo del genere manderebbe in tilt le cancellerie degli organi di giustizia ovunque diffusi, impegnati a doversi gestire tonnellate di messaggi di PEC.
E poi perché mai si dovrebbe “contrastare l’anonimato”? L’anonimato è un diritto soggettivo specifico. Se io immetto della informazione in rete ho tutto il diritto di non farmi riconoscere (magari usando uno pseudonimo, così si adopera lo pseudonimato) che non significa non essere punito o punibile. La magistratura può facilmente accedere ai dati di chi ha registrato un sito web, anche se questi dati non sono pubblicamente disponibili.
La gente maschera il proprio numero di telefono ogni giorno se non vuole farsi riconoscere, e nessuno ci trova niente di strano.
Dunque i dati vanno non solo comunicati ma anche pubblicati in modo visibile sul sito stesso. Vogliono solo sapere chi sei senza fare la fatica di venirti a cercare.
E non si sa bene che cosa ne sarà di tutto il maremagnum di siti, forum, pagine e blog pubblicati fino al momento dell’entrata in vigore della legge (quando e se sarà!), saranno anche loro obbligati a pubblicare i loro dati? A scrivere una PEC al Tribunale per dire “io esisto”? Veramente il Tribunale, quando ha avuto bisogno di contattarmi per il blog mi ha trovato senza nessuna difficoltà. Ma non sia mai che l’esperienza faccia scuola.
Occorre dunque correre ai ripari e munirsi di un bel paio di mutande di bandone per parare il colpo di Lorsignori. Ne riparlerò. Ora, scusate, ma ho il mal di mare (buark… ohimé…)
La mia corrispondente in Siberia (sì, lo so cosa vistate chiedendo, come si faccia ad avere una corrispondente proprio nei ghiacci della Siberia, e di conseguenza fatevi un po’ di più i cazzi vostri) ieri mi ha chiesto se uso Tinder.
Pensavo che Tinder fosse una barretta di cioccolato, il Tinder Buendo, il Tinder Cereali e il Tinder con più latte e meno cacao, ma so da pochi giorni che Tinder è una applicazione dedicata principalmente all’acchiappo-hard in rete. La si scarica sull’Android, immagino che ci si iscriva lasciando i propri dati (se no non si vede perché la diano gratis) e quelli della persona che si vorrebbe incontare (che abbia almeno la nostra età e che abiti più o meno vicina a noi), si fa l’upload di una nostra foto e quello la manda ad un tot di persone (credo privilegiando il dato geografico). Se la controparte clicca sulla richiesta di contatto (viceversa può cestinarci con una X) e noi le rispondiamo ecco che abbiamo avviato una chat e che possiamo andare direttamente a patteggiare minimo una trombatina compensatoria, e senza nemmeno parlare troppo, perché tanto si sa che entrambe le persone sono lì per quello, poi, caso mai, si vedrà.
Ecco, il punto non è che mi dia fastidio Tinder come accessorio per trovare facilmente il ragazzo o la ragazza, l’amante, l’amica o l’amico particolare, no, da quel punto di visto magari ce ne fossero di questi accrocchi (anche per trovare persone da contattare se magari vivi in un luogo nuovo e sconosciuto e hai bisogno di amicizie nuove) perché poter dire a una persona che è interessante per te è e continua ad essere una delle cose più difficili della vita. No, ecco, quello che mi urta è la mancanza di colloquio. Ora, capisco che per trombare non sia una conditio sine qua non, per cui, come diceva Brancaleone, prendimi/dammiti cuccurucù, e chi se ne frega se io faccio il meccanico e tu stai per laurearti in filosofia teoretica. Però magari qualcosa oltre al “mi passi la sigaretta?” (il “per favore” è un optional) bisogna pur dirla. Come si fa a riempire quei momenti di vuoto e di corpi sudaticci che si asciugano sotto le lenzuola sgualcite se non si parla un po’??
E, soprattutto, cosa le è venuto in mente alla mia corrispondente siberiana di chiedermi se uso Tinder??
Era un po’ che non parlavo della Boldrini, quand’ecco arrivarmi un tweet dall’ANSA in cui mi si comunica l’esistenza di un video in cui la Boldrini ammette di usare Skype.
Devo dire la verità, l’ANSA è stata un po’ impietosa con la Boldrini, perché ha preso un frammento del suo intervento lasciando il contesto precedente a metà (il filmato è stato ripreso durante un incontro sul tema “Una Costituzione per la rete?” e verrebbe solo da rispondere “No, grazie, la gente già conosce poco di suo quella del proprio paese”) e si è solo soffermatta sul fatto che sì, la Presidente della Camera, cioè lei, usa Skype perché ha una figlia che vive all’estero e la sera muore dalla voglia di sapere come sta.
Ora, non si capisce bene, ancora una volta, dove stia la notizia di interesse pubblico. Sul fatto che la Boldrini abbia installato una applicazione (per PC, Tablet, Smartphone o quant’altro) e la usi per comunicare con chi vuole lei, sfruttando il fatto che l’applicazione medesima permette lo scambio di videochiamate? Ma, di grazia, questa non è una notizia. Skype è il principale vettore telefonico mondiale e mi sembra più che normale che tanta gente lo usi. Beppe Grillo, buonanima, ci faceva una parte di un suo spettacolo dimostrando che bastava una connessione internet e chiamavi tuo zio in Brasile a prezzi stracciati con Skype, e quando lui lo faceva io telefonavo già con VoipStunt e spendevo meno di lui.
E, comunque sia, dov’è l’aspetto rivoluzionario del fatto? In che cosa consiste la pubblica utilità del fatto che la Boldrini usa Skype per contattare la figlia? Io uso WhatsApp per comunicare con mia moglie e VoipStunt per telefonare all’estero, ma non mi pare che importi qualcosa a qualcuno.
E se c’è un particolare che colpisce è proprio il ritardo con cui i rappresentanti delle istituzioni si avvicinano alle cosiddette “nuove tecnologie” (che evidentemente sono “nuove” perché sono sconosciute per loro, non perché lo siano in senso assoluto), Skype è relativamente vecchiotto, quando Grillo ne parlava era il 2006 ed era già diffuso in Italia da almeno un paio d’anni.
Ora aspettiamo che la Boldrini installi Viber per telefonare gratis e che qualcuno lanci la notizia in prima pagina.
Matteo Renzi è il primo Presidente del Consiglio Incaricato attualmente con riserva in multitasking che abbiamo mai avuto.
Mentre procede alle consultazioni trova il tempo e la voglia di sditeggiare qualcosa su Twitter. Non so voi, ma io mi sento piuttosto inquietato da questo atteggiamento. Non che non abbia diritto ad avere il suo sacrosanto account Twitter e a scriverci quello che ritiene più opportuno (lo ha fatto Letta, lo fa la Boldrini), ma, cazzo, in quel momento sta svolgendo una delicata funzione istituzionale, che ci giochi più tardi con lo smartfonino. Se lo facesse un insegnante durante l’interrogazione perderebbe il posto subito.
Cosa aveva di tanto urgente da comunicare “Urbi et orbi”? Voleva solo dire: “Mi spiace per chi ha votato 5Stelle. Meritate di più, amici.”
Prima di tutto a me non è affatto dispiaciuto aver votato 5 Stelle, anzi, l’ho fatto ANCHE per non votare il partito da cui proviene e che non mi rappresenta. E poi “amici”? Ma “amici” di cosa? Io non sono affatto amico di Renzi e non voglio esserlo, ma, soprattutto, lui non è per nulla “amico” mio, mi dispiace (anzi, no).
E’ questo linguaggio piacione, falso amicone, sornione, da gatto che fa le fusa, insinuante, circuente, mellassoso, stucchevole -e ora basta perché ho finito il Dizionario dei Sinonimi e dei Contrari- a infastidirmi.
“Meritiamo di più”? E chi sarebbe il “di più”? Lui? Il suo governo?? La riforma elettorale redatta a quattro mani con Berlusconi?? La promessa di una riforma al mese??? No, ce lo dica perché son curioso di saperlo.
“Ma vi prometto che cambieremo l’Italia. Anche per voi.” Ma cosa vuol dire questo? E’ il classico discorso che si faceva da piccini sul pezzettino della merendina: “Te lo do lo stesso anche se non sei mio amico”. Ma grazie. Cosa si deve fare anche l’inchino?? Miglioreranno la scuola e nella scuola migliorata potranno andarci ANCHE i figli di chi ha votato 5 Stelle? E’ solo l’inizio della confusione totale tra diritti e concessioni.
Così, tra quest’assurdità s’annega il pensier mio.
In molti in queste ore mi segnalano l’articolo di Daniele Virgillito su Wired.it “Come ho fregato tg, politici e giornali con qualche riga su Wikipedia”.
C’è l’auto-da-fe di questo freelance, un outing anche abbastanza compiaciuto, che si è divertito ad attribuire citazioni false a personaggi celebri, magari appena defunti, senza attendere che il rigor mortis della notizia li ricatapultasse nell’oblio.
Il sito web sostienilacultura.it fa capo a Wikimedia Italia, l’associazione dei supporter italiani di Wikipedia e dei suoi fratelli gemelli, nonché corrispondente nel nostro paese di Wikimedia Inc.
Vi si trovano informazioni su come donare del denaro (ovvio!), come devolvere a loro il 5 per 1000 dell’IRPEF (beh, certo…) e molto altro.
Pubblicano anche il loro bilancio. Gentili.
Andiamo un pochino a vedere quanto ha incassato Wikimedia Italia.
In una pagina web (quella che trovate a corredo di queste note) leggo che in quattro anni sono stati ricevuti più di 470.000 euro in donazioni. E sticazzi. Sono una media di poco meno di 120.000 euro l’anno.
Come dire che tutto quello che riesce a mettere da parte un metalmeccanico con una vita di stenti e di lavoro, ammesso che mai ci riesca, Wikimedia Italia lo percepisce in un anno.
Ma andiamo a vedere nel dettaglio il bilancio consuntivo del 2012: le DONAZIONI ammontano a 45.686,22 euro. Siamo ben sotto la media pomposamente dichiarata degli ultimi quattro anni. E’ il 38,88%.
L’altra voce di una certa consistenza, audite audite, sono le sponsorizzazioni. Ma chi ha sponsorizzato Wikimedia Italia e per che cosa non è dato di saperlo. Questa forma di associazionismo che disprezza la pubblicità su Wikipedia e la rifugge come la peste registra € 36.300,00 in entrata alla voce corrispondente.
E le voci più piccole? Eccole: € 91,00 per vendita gadget. Càspita, nemmeno le magliette per una squadra di calcio dei pulcini della parrocchia! Ma per gadget e volantini sono stati spesi € 1.460,64. Cioè 16 volte tanto quello che è stato incassato in quel capitolo di spesa. Tutti soldi che dovevano andare alla cultura libera.
Ma quella dei gadget non è l’unica voce in uscita per l’autopromozione. Per quello sono stati spesi in totale € 6.675,44.
Che se andiamo a vedere sono quasi esattamente l’ammontare delle nuove iscrizioni (l’esatto importo delle quote associative è di € 6.770,00). Quindi, la gente si associa e con quei soldi si realizzano spilline, cappellini, magliette, la videoguida Wikiquote e la Campagna pubblicitaria 5 per 1000. Per carità, non ci sarebbe nemmeno nulla di male se solo uno all’atto dell’iscrizione lo sapesse, perché magari spera che i suoi soldi vadano a sostenere la cultura libera.
Altra cosa che fa pensare è la voce “Interessi bancari”. Ben 20,71 euro.
Tenendo conto che avevano un fondo cassa (o “Avanzo di gestione esercizi precedenti”) di € 172.627,73 i casi sono tre: o non hanno trovato una banca con condizioni particolarmente favorevoli, o sono andati in scoperto più volte mangiandosi gli interessi, o tutti questi denari non li tengono in banca.
Anche la voce “Spese domini internet e aggiornamento software” merita una riflessione: € 9.085,85 di spesa.
I domini internet wikimedia.it e sostienilacultura.it sono gestiti da una ditta di Viterbo che si chiama Olisys.it. Non sono evidenziate sul web le tariffe di hosting e/o di housing dei domini. Quindi non posso dire quanto costi gestire un sito e in quale modalità. Ma è certo che per distribuire un bilancio in PDF e ospitare alcune pagine in HTML non ci vuole un server dedicato.
E tutto quell'”aggiornamento” software?? Ma non sono i paladini della cultura libera? Installino programmi free (gratuiti) e open source e sono a posto. Hanno macchine Windows o Mac?? Benissimo, allora non si lamentino se devono pagare, Linux è lì apposta. Nemmeno una scuola pubblica spende quella cifra per aggiornare una ventina di computer di un laboratorio telematico.
Al fin della fiera, dei 172.627,73 euro residui delle gestioni precedenti, ne avanzano 115.412,80. Un tonfo spaventoso di oltre il 33% di rimessa.
Ho gentilmente congedato IBS dall’elenco dei miei fornitori ufficiali.
Loro, per la verità, non lo sanno ancora, ma non comprerò più i loro prodotti.
Ho fatto una serie di ordinazioni da consegnare a altrettanti destinatari come regalo di Natale. A una persona avevo regalato 3 DVD. Nel pacco ce n’erano solo due. Io non potevo saperlo perché il pacco, appunto, era stato recapitato a questa persona e non a me. L’addebito, però, era stato effettuato per intero.
Per carità, ho scritto a IBS e stanno facendo di tutto per risolvere il problema a loro spese. Però la cosa è scocciante. Non mi va che il destinatario dei miei regali riceva qualcosa che ho ordinato prima di Natale, che è stato spedito dopo e che verrà recapitato dopo la polvere.
Inoltre avevo in sospeso un ordine da parecchio tempo. Tre librettini della Sellerio, tra cui “Capodanno in giallo” che IBS mi dava disponibile in tre settimane. Tre settimane per reperire un libro regolarmente disponibile in Italia.
Per prima cosa ho annullato l’ordine che IBS mi teneva in sospeso da troppo tempo.
Poi mi sono rivolto a libreriauniversitaria.it, dove ho ripetuto lo stesso ordine (“Capodanno in giallo” disponibile in 1-2 giorni) e che me l’ha spedito in tre giorni. Grazie!
L’interfaccia del sito è molto chiara e “friendly” (oggi se una cosa non è “friendly” non la si prende nemmeno in considerazione!). Rispetto a IBS, libreriauniversitaria.it fa pagare le spese di spedizione. Per ordini di valore superiore a 24 euro sono di solo 1 euro, e con lo sconto del 15% lo si può tranquillamente recuperare, e la spedizione avviene -reperibilità del prodotto permettendo- in tempi accettabili.
Tomba di Giorgio Caproni - Questo file è licenziato in base ai termini della licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Unported
Su Twitter ho visto una cosa strana.
L’editore Chiarelettere pubblicizza l’hastag #primolibro2014. In soldoni, si tratta di dire quale sia il libro con cui abbiamo iniziato l’anno nuovo, ormai già sgualcito di una settimana. L’anno, non il libro.
Alla domanda di Chialettere ha risposto nientemeno che “Giorgio Caproni” (utente @CaproniGiorgio), dicendo “da oggi le MIE poesie” (il maiuscolo è mio).
Ora Giorgio Caproni, poeta insigne, è morto nel 1990. Come faceva a scrivere su Twitter??
Ma no, Valerio, non capisci. E’ solo un account per rendergli omaggio. In effetti gli ultimi post sono, per lo più, citazioni da poesie di Caproni. Anzi, da una sola, quella dell’Annina e della bicicletta. Ma perché si deve usare il nome, l’immagine e l’opera di un Poeta come Caproni per farsi vedere su Twitter??
Le “mie” poesie?? Ma di che cosa stanno parlando??
Una signora mi ha detto che il mio blog sta cominciando a diventare noioso.
Senz’altro è vero, ma io sono vecchio e rincoglionito (sicché tendo sempre più spesso a reiterare sempre gli stessi discorsi). Inoltre sono acciaccato, malandato, menomato, zoppo, pensionato d’accompagnamento, in breve, “infelice”, come avrebbe detto il mi’ nonno Armando e questo mi rende vieppiù rimuginante e ripetitivo.
Del resto, cosa volete, anche gli argomenti di cui parlo son tutt’altro che popolari.
Se parlassi di sesso, delle gravidanze delle star, se vi invitassi a donare due euro all’Associazione Nazionale contro l’Unghia Incarnita (Onlus!!!!), se vi rimbalzassi i coglioni con l’ultimo telefonino in pura plastica a soli 535 eurini e ci state larghi, a quest’ora avrei molte più visualizzazioni.
Invece vi parlo di privacy (e il bello è che non la penso nemmeno come voi!), vi parlo di diffamazione (reato odiosissimo ma v’importa ‘na sega a voi, quella degli altri è diffamazione, la vostra è critica!), vi parlo di copyright (e anche lì v’importa ‘na sega a voi, voi la roba la scaricate, peggio per chi ci capita!), vi parlo di Wikipedia e di quanto sia improponibile, ma a voi Wikipedia vi garba di molto, e poi via, Di Stefano, perché questa continua crociata contro Wikipedia? Ora avresti anche rotto i coglioni a criticarla ogni volta che chiede i soldi alla gente.
Crociata?? Io non faccio nessuna guerra, e Wikipedia non è custode del Santissimo Sepolcro.
Vi rompo i coglioni quando parlo del loro vizietto di chieder soldi alla gente? Beh, anche loro rompono i coglioni a chieder soldi a ogni pie’ sospinto, ci mancherebbe altro che non li si possa criticare (ah, no, giusto, la mia è diffamazione, la critica è la vostra).
E poi non mi piacciono Jovanotti, la Boldrini e Saviano. No, via, non va bene così. E avete ragione, sto cominciando a diventare noioso. Sapete cosa c’è?? Che vi pigliate uno spazio web dove vi pare, ci installate WordPress o quello che vi garba a voi, e il blog ve lo fate per conto vostro, così la smettete di rompere i coglioni a me.
L’altro giorno c’è stato un accesso stravagante sul mio classicistranieri.com.
E’ un signore che ha utilizzato un link anonimo per cercare di nascondere i suoi dati. Nulla di male, lo può fare. Anche se non vedo cosa ci sia da nascondere se si naviga in un sito che offre cultura. Certo, oggigiorno la cultura è una cosa da cui bisogna vergognarsi, quindi è meglio che non si sappia troppo in giro.
Ma la cosa curiosa è che di questo signore si sa che si è collegato da Mestre (Ve), che ha usato un Mac con sistema operativo Safari.
Alla faccia dell’anonimato (che è qualcosa di molto, molto più serio)!
Twitter è qualcosa di meraviglioso, peccato che l’ho scoperto troppo tardi.
140 caratteri, praticamente un palpito. Un blogghettino minimale e, soprattutto, niente ansia di avere tanto “follower” (si chiamano così i fans su Twitter) perché, tanto, tutto è pubblico e chiunque può leggere tutto di chiunque altro.
Insomma, semplice, immediato, veloce, accessibile da quasi qualunque piattaforma (esistono blogger come Yoani Sánchez che aggiornano il proprio blog attraverso gli SMS), trasparente, ma soprattutto arma di discussione e di critica nei confronti dei politici (io ho risposto a Laura Puppato e Matteo Renzi). Su Twitter, molto più che su Facebook, ognuno si ritrova davanti al popolo del web.
Al punto che, tempo fa, la deputata laburista Stella Creasy e la blogger Caroline Criado-Pérez, oltre a tre giornaliste, sono state molestate su Twitter nel Regno Unito con l’invio di tweet volgari, offensivi e denigratori, e addirittura alcune minacce di morte.
Sono cose che fanno male. Molto male.
E così, svariate migliaia di utenti ha pensato di chiedere a Twitter di inserire un pulsante antimoltestia. Che non si sa bene come funzionerà dal punto di vista pratico. Cioè, io ritengo di essere stato molestato da qualcuno, clicco sul pulsantino e Twitter mi rimuove il contenuto suppostamente denigratorio e fa tottò all’utente? Sarebbe terribile.
Comunque sia, il direttore generale di Twitter Tony Wang ha commentato: «Mi scuso personalmente con le donne che sono state insultate su Twitter e per quello che hanno sopportato»
Di che si scusa? Non è colpa sua. Non le ha mica scritte lui quelle minacce. Può sentirsi colpito perché la sua piattaforma è stata usata per scopi non propriamente umanitari, ma da qui a scusarsi c’è una bel salto!
Esiste un principio giuridico ormai vigente in tutto il mondo (tranne in Italia, dove, si sa, siamo in leggera controtendenza, specialmente con la sentenza Google) per cui il provider non è responsabile dei contenuti immessi dall’utente. Cioè YouTube non risponde del copyright eventualmente violato dai suoi iscritti.
E poi aggiunge: «La gente merita di sentirsi al sicuro su Twitter».
E certo. Ma se una persona può segnalarmi così, just for, io non mi sento affatto al sicuro.
Io, come tutti gli altri, saremo alla mercè di qualche buontempone, o di qualche integralista, o di qualche personaggio con la sensibilità alle stelle, che se io scrivo “Chi non mangia la Golia o è un ladro o è una spia” e quello/a non mangia la Golia e si sente offeso/a perché non è né un ladro né una spia (si veda il caso), mi sbottoncina e poi, se mi va bene, devo riferire a Twitter il perché e il percome (il mio inglese scritto è pessimo, abbiate pietà!).
Saremo l’uno il Grande Fratello dell’altro, basterà un clic per cancellare pensieri, parole, opere e omissioni. Per la colpa degli altri.
Cliccare sull'immagine (da www.beppegrillo.it) per ingrandirla
Poi uno dice “ma ci sarà qualcosa che ti dà noia di Beppe Grillo”?
Eccoci, pronti a fare autocritica dall’interno: sul blog è apparsa (chissà da quanto tempo, ma io l’ho vista solo ora -abbiate pazienza, in sei mesi di ospedale di cose ne accadono tante fuori, e le cose sono tante ad accadere ma io sono solo uno a scrivere) la scritta che definisce la risorsa web di Grillo come “Il primo magazine solo on line”.
Cazzo è un “magazine”? Dovrebbe essere una sorta di giornale, di periodico, di quotidiano, ma è proprio questo che non mi piace. Questo blog che leggete non è né un giornale, né un periodico, anzi, è proprio caratterizzato da una forte aperiodicità, non pretende di dare delle notizie ma di riportare il mio pensiero. Questo è il senso del blog. E’ talmente poliedrico che sfugge a qualsiasi denominazione. Ergo, se gliene affibbi una (“magazine”, addirittura) lo pieghi a quello che non è.
Un blog è qualcosa di agile ma allo stesso tempo rozzo, primordiale e immediato. E’ un giornalino della parrocchia. “Magazine”?? Ma via… no, grazie, abbia pazienza, Grillo, oggi son disturbato di stomaco.
La rete, questa sconosciuta. Questo mezzo di comunicazione che produce paura, come tutto quello che non si può fermare, come tutto quello che vorremmo non ci fosse, come tutto quello che permette alla gente di sfuggire ai controlli tradizionalmente intesi. E se la rete è sconosciuta, la rete diventa, automaticamente (e non potenzialmente) dannosa.
Non esiste ancora, soprattutto ai più alti vertici dello Stato e, più in generale, nella visione del legislatore, l’immagine della rete come società, per cui le leggi che valgono nella società sono trasferibili perfettamente anche nella rete, no, la rete è diventata, nell’immaginario politico prima ancora che in quello dell’opinione pubblica, luogo privilegiato di interesse per i comportamenti del singolo. Tutto ciò che è fatto in rete assume una valenza amplificata, come se fosse più grave di ciò che succede nella vita quotidiana.
Una precisazione: io non ce l’ho affatto con la presidente della Camera Boldrini, come la frequenza di post su di lei potrebbe far credere. Molto semplicemente non condiviso una virgola di quel che dice, fa, pensa. Lei ha tanti mezzi per diffondere il suo pensiero, io ho solo il mio blog. Abbiate pazienza.
Laura Boldrini, dunque, ha scritto sulla sua pagina Facebook queste osservazioni che riporto, integralmente, evidenziandole in grassetto.
La violenza contro le donne continua a mietere vittime. In questi giorni altri due casi di femminicidio: Cristina Biagi uccisa il 28 luglio, Erika Ciurlia il giorno dopo. Una violenza che non ha confine e che passa anche attraverso la rete, non solo in Italia.
La violenza a cui si riferisce la Boldrini, probabilmente, è da cercare in alcuni interventi pubblicati prima dei delitti dai presunti assassini su Facebook. Interventi che facevano chiaramente presagire quello che sarebbe avvenuto di lì a poco e che nessuno è stato in grado di scongiurare (ci sarà ben stato qualcuno che avrà visto quei post tre ore prima dell’omicidio, no? Macché, tutti zitti, tutti facebookianamente omertosi). Ma il punto non è la rete, evidentemente, quanto, piuttosto, tutte le modalità di comunicazione possibili tra un assassino e la sua vittima designata. Quante telefonate, quanti SMS avrà ricevuto la donna prima di morire? Ma, ecco, del telefonino non parla più nessuno, quello non fa paura. Eppure è lo strumento preferito dagli stalker. Una volta si usavano le lettere anonime di minaccia. Si usano ancora, non so quante ne riceveranno i deputati della Camera, ma se ne parla pochissimo. Facebook, dunque, come quintessenza del pericolo in internet, ma non solo.
In Inghilterra, ben 60mila persone hanno firmato una petizione on line perché su Twitter venga inserito un ‘tasto’ per segnalare abusi …e violenze verbali. Dopo la mobilitazione di massa, il social network si è impegnato a provvedere. A portare avanti questa battaglia è stata Caroline Criado- Perez, una nota attivista per i diritti delle donne, vittima di pesantissime minacce sul suo profilo.
La rete fa quello che l’Italia non riesce nemmeno a recepire. Sono bastate 60.000 persone perché Twitter facesse suo uno slancio di indignazione fortissimo, e tutto questo in pochissimi giorni.
In Italia “Il fatto quotidiano” sta portando avanti una raccolta di firme contro lo sfregio della Costituzione perpetrato da parte dei partiti di Governo. Le firme raccolte ad oggi sono 160.000. Eppure non c’è stata nessuna risposta a livello istituzionale. Che cosa avrebbe da dire la presidente Boldrini su questo?
Per quale motivo non viene inserito un “tasto” legislativo che permetta di mantenere inalterato il senso della nostra carta?
Sono 160.000 persone, dicevo, e il loro numero è destinato ad aumentare. Eppure è come se non ci fossero. La rete, attraverso la quale hanno manifestato la loro adesione, è “virtuale”. E’ come se non esistessero. E il problema è Twitter??
Anche nel nostro Paese, molti, specialmente donne, subiscono minacce on line e alcuni giovani sono arrivati a togliersi la vita a causa del dileggio in rete. La mobilitazione collettiva, in Inghilterra, ha aiutato ad ottenere risultati per aumentare la tutela sul web. In Italia questo tema viene percepito, da alcuni, come un tentativo di censura. Cosa ne pensate dell’esperienza inglese?
Sarebbe stato confortante avere i dati che riguardano le persecuzioni di reati come l’istigazione al suicidio (che mi pare ancora perfettamente contemplato nel nostro codice penale), sapere cioè quante persone, dopo un giusto e regolare processo, sono stati riconosciuti colpevoli di crimini come quelli richiamati dalla Presidente Boldrini.
Ma questi dati non ci vengono proposti. Come mai?
E perché la cosiddetta “tutela del web” viene vista come un tentativo di censura? Perché diventerà troppo facile per chi usa Twitter segnalare qualcuno per una parola fuori posto o, ancor meno, per una opinione non gradita. Si premerà il bottoncino e quello sparirà, non avrà più la possibilità di esprimersi su quella piattaforma. Non è uno strumento di tutela, è uno strumento di delazione e di giustizia sommaria. Ecco cosa penso dell’esperienza inglese.
Abbiamo leggi per tutelarci e magistrati per applicarle. Adesso.
Mara Carfagna è stata minacciata in rete. Le hanno scritto cose indubbiamente sgradevoli sulla sua pagina Facebook, tipo “Ti verremo a prendere a casa”. Lei ha dato mandato ai suoi legali di querelare gli autori del gesto. Tutto questo va bene. E’ un suo diritto sacrosanto farlo.
La Boldrini, da parte sua, ha commentato su Twitter: «Ho telefonato a Mara Carfagna per esprimerle la mia solidarietà. Chi usa il web per minacciare snatura la Rete e la sua libertà».
Chi usa il web per minacciare, naturalmente, non snatura né la Rete, né tanto meno la libertà che essa offre, snatura prima di tutto se stesso e può essere perseguito a norma di legge. Punto. La libertà in rete è semplicemente connaturata al rispetto delle stesse regole che valgono per la società civile. Né più né meno. Viceversa rischieremmo una sorta di zona franca dove tutto è ammissibile, o un posto controllato in modo speciale.
Infatti la Gelmini, a sua volta, evidenzia: «Quest’episodio ci richiama al dovere di regolamentare in modo efficace il comportamento da tenere in rete». Perché, che comportamento si deve tenere in rete? No, ce lo dica, così lo sappiamo anche noi e, se del caso, ci adegueremo alla bisogna. Non bisogna offendere? Diffamare?? Minacciare??? Ma questi sono già reati perfettamente contemplati dal nostro codice penale. O vogliamo dire che una diffamazione è più diffamazione di un’altra solo perché compiuta sul web? Anche questo è contemplato, non c’è bisogno di ulteriori regolamentazioni.
Ancora una volta un episodio deprecabile ha dato seguito a reazioni deprecapili. Speriamo solo che il 49% dei lettori del Corriere che si è dichiarato “divertito” dalla lettura di questa notizia si diverta ancora di più a sostenere davanti a un giudice che “tanto è su internet”!
E’ una delle tante notizie-bufala che circolano nel web in questi giorni sull’avvenuta morte di Nelson Mandela, che avvenuta non è affatto.
Con periodicità pressoché quotidiana, siti di notizie e social network, sulla base di qualche falsa pista e con la bramosia di essere i primi, si accaniscono (e non solo terapeuticamente) nell’ultima fase della vita di questo galantuomo e pretendono di avere il controllo sul suo trapasso e su quando il Sud Africa piangerà il suo ex Presidente.
E’ un modo di procedere tipicamente da web: intanto le notizie si dànno, poi se non sono vere si è sempre in tempo a cancellarle.
Dimenticando che Nelson Mandela è sempre meglio tenerselo vivo, ancorché attaccato ai tubi della terapia intensiva. Non muore la storia, no.
Non mi preme tornare sulla morte di Margherita Hack, perché è una tragedia troppo grande da sopportare per le fragili gambine della cultura italiana, ma su come questo evento abbia dato il via a una serie di ripercussioni a livello di divulgazione della notizia da far veramente temere per l’informazione italiana.
Il quotidiano Libero, nella sua versione on line (e ormai lo sa tutto il web, ma pazienza, non è mia intenzione arrivare primo), ha intitolato “Scienziati: è morta Margherita Hack, icona dell’astrofica mondiale”. “Astrofica” e non “astrofisica”, dunque. Un refuso che ha creato una ilarità involontaria di effetto contrastivo rispetto alla notizia. Pazienza, la frittata era fatta.
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La spiegazione del quotidiano è stata piuttosto lacunosa, in verità. Quell’ultim’ora sarebbe stata ripresa dai Feed RSS dell’agenzia di stampa ADN Kronos, che avrebbe, a dire di Libero, commesso originariamente l’errore. Logico che se A scrive una cosa, anche B che copia da A riproduca integralmente l’errore.
A parte il fatto che qualsiasi documento che provenga da un Feed RSS può essere editato, ossia scritto, corretto, emendato, salvato e modificato, a parte questo, dicevo, la giustificazione di Libero sembra un po’ come quella di Pierino che si si vede affibbiare un 4 perché ha copiato il compito da Gigetto ed è stato Gigetto quello che ha sbagliato, lui ha copiato solo, quindi a Gigetto spetta il 4 mentre Pierino prende 8 perché l’errore non era suo. Già, però ha fatto l’errore di copiare senza guardare quello che copiava. Ancora oggi la pagina è in linea immodificata.
Un rimando alla notizia riporta “Muore Margherita Hack, la lady delle stelle”, con tag che riportano al refuso e ad altri argomenti correlati. Meno male, “l’astrofica delle stelle” sarebbe stato un po’ indelicato.
Ma c’è di più. Sulla notizia riguardante la morte della Hack c’era un sondaggio che riguardava lo stato d’animo dei lettori. Una trentina di clic erano di lettori che si autodichiaravano “allegri”.
Essere “allegri” per la morte di un personaggio della levatura della Hack è come essere felici per la morte di Nelson Mandela! Ma, si sa, la persona di colore fa paura, e il ministro Kyenge, colpevole, agli occhi di Libero, di voler eliminare il reato di clandestinità, non fa eccezione. Già, ma perché non se ne va via?
Ho sempre pensato che la parola “virtuale” sia stata inventata da qualche terrorista o da qualche cercatore di soldi facili. A volte, lo devo ammetere, i due concetti coincidono.
Il virtuale non esiste. Se io uso un computer uso un coso di plastica, metallo, silicio e quant’altro che è lì, è reale, altro che virtuale. Chi commenta un post di un blog, di Facebook di Twitter è una persona in carne ed ossa e sentimenti (certo, volgarissimi, a tratti), così come chi quel post lo scrive. La rete stessa non è virtualità. Valgono nella rete le stesse regole che valgono nel mondo fisico. Ad esempio se scrivete cazzate da qualche parte potrebbe anche darsi che a qualcuno venga il ghiribizzo di querelarvi. Se ricevo una mail dal mio commercialista che mi dice che devo pagargli la parcella io la parcella gliela devo pagare, non posso attaccarmi al fatto che si è trattato di una comunicazione non personale.
Poi ci sono gli amori o le relazioni virtuali. “Sai, ho un amico virtuale” fa la signora all’amica mentre sono al supermercato. E quella “Davvero??? Dài, dài, dimmi che sono curiosa come una scimmia…” Si vede che la gente pensa che le persone che hanno questo tipo di trasporto siano fatte di polvere. La rete è solo il “luogo” in cui due persone si conoscono. E’ come trovarsi al bar. Poi magari decidono di proseguire la loro conoscenza.
Niente di nuovo, del resto, quando non c’era internet c’erano gli amici di penna, e quando non c’erano nemmeno loro ci si sposava per corrispondenza.
Però la virtualità è stata associata proprio al concetto non tanto di “comunicazione mediata” ma di “comunicazione con un interlocutore immaginario”, che è una coglionatura bella e buona. Caso mai può essere, tutt’al più, “non presente nello stesso luogo e/o tempo”. Ma perché, la gente quando parla al telefono l’interlocutore lo vede?
In nome della virtualità si sono inventate tante cose. Intanto gli psichiatri si sono fatti depositari di una nuova patologia da curare, la sindrome da dipendenza da internet. Così, voglio dire, la gente che sta un po’ troppo connessa (già, ma troppo quanto? Chi è che stabilisce, come accade con l’alcool, qual è la dose giornaliera per un uso sicuro per sé e per gli altri di internet? Nessuno, naturalmente. Ma pretendono di curarti e tu devi dar loro anche i soldi) si ritrova catalogata come patologia quello che è un semplice comportamento.
Però… “professore, mio figlio sta sempre attaccato al computer, dalla mattina alla sera, che dice, lo faccio curare da uno specialista??” Ma quella non è dipendenza, è essere dei genitori pirla. Tuo figlio portalo anche fuori qualche volta. Oppure toglielo internet. Cazzo, non puoi delegare la tua funzione educativa nei confronti di tuo figlio a uno psichiatra o a qualche pasticchina.
E poi “hai un blog?? Ma come fai a stare tutto il tempo davanti a un computer?? Ah, io non ce la farei” Ma non hai bisogno di starci “tutto il tempo”, basta scrivere ogni tanto. Ma se ti piace scrivere, comunicare, dare qualcosa a qualcuno, far circolare le tue idee, quella è una dipendenza da internet, devi essere curato. E loro lo sanno benissimo che il problema non è internet, ma il fatto che tu pensi e scriva. Il sistema mal l’accetta, per questo ti dicono “Vieni, vieni, ci pensiamo noi!” e poi quelli che hanno pensato a te si sfondano su Facebook e buttano via la chiave!
Sei su Twitter?? Peggio ancora. Il fatto che Twitter possa essere gestito da un cellulare, che tu possa mandare degli aggiornamenti via SMS (magari disponendo di mezzi assolutamente esigui), oppure attraverso uno Smartphone, viene visto come un sintomo di malattia. Tu, naturalmente, non sei affatto malato, lo sai benissimo. Ma se uno si inventa che esiste una malattia, poi si può anche arrogare il diritto di curarti, di rimproverarti che stai sempre a guardare se ti sono arrivate risposte ai tuoi tweet, che non ti relazioni con gli amici “reali”, e va beh, ma magari è gente che spara una valanga di stronzate e, voglio dire, poi ci credo che uno preferisca fare o parlare d’altro.
Qualcuno di voi mi ha segnalato “Grafemi” il blog di Paolo Zardi e, nella fattispecie l’articolo “Cinquanta sfumature di grigio – oh!”
L’autore analizza il romanzo “Cinquanta sfumature di grigio” (best seller mondiale dello pseudo erotismo preferito dal pubblico femminile) e lo fa in un modo, a suo dire, altro e originale: analizzando le occorrenze delle singole parole nell’intero testo mediante l’ausilio di un programma informatico. Ovvero cercando di leggere il testo non come una mera sequenza analogica ma andando a ritrovare quelle parole chiave che, sparse nel testo, costituiscono ossessioni (volontarie o involontarie), ripetizioni o vere e proprie parole-spia che possono suggerirci una analisi più approfondita di un autore, all’interno di un suo singolo lavoro (un romanzo, come in questo caso) o della sua intera produzione.
Scrive a un certo punto Zardi: “Ora, invece, è possibile, con un semplice programma (che possiedo solo io: me lo sono scritto con le mie mani)…”
Ora, il programma che ha scritto Zardi può darsi benissimo he non lo abbia nessuno. Forse lo ha scritto a suo esclusivo uso e consumo e non ha voluto darlo a nessun altro. Più che legittimo, ci mancherebbe altro.
Ma non è l’unico software che genera un elenco di occorrenze partendo da un testo dato.
Il più conosciuto è DBT (Data Base Testuale), di Eugenio Picchi, dell’Istituto di Linguistica Computazionale di Pisa. Lo usai nel periodo 95-97 per la mia tesi di laurea.
Lo si può avere gratis scaricandoselo e chiedendo il codice di sblocco all’ILC stesso.
Poi c’era un programma molto bello, realizzato dal Prof. La Greca dell’Università di Salerno, si chiamava “Verbum”, era arrivato alla seconda edizione ma aveva un difetto, funzionava sotto DOS. Così quando il putiferio Windows 9X e seguenti si fece strada il programma ebbe vita breve. Ma funzionava bene. Ce l’ho ancora e in emulazione DOS-ambiente Linux va che è una scheggia.
Questo per quel che riguarda quel che c’è in Italia (e da svariati anni, ormai).
Quel che c’è da rimproverare a Zardi, ictu oculi, è il fatto di aver condotto l’indagine sulla traduzione italiana del romanzo e non sulla sua versione originale.
Non ho motivi di dubitare della fedeltà del traduttore all’originale di questo testo tanto severamente imprescindibile per la letteratura di ogni tempo e paese, però è possibile che una forma inglese sia andata a confluire in una forma diversa italiana, proprio perché la traduzione non è un’operazione per cui “a X corrisponde sempre Y” (se no avrebbe ragione Google Translator).
Altra obiezione da rivolgere a Zardi è quella di aver analizzato solo le occorrenze delle parole e non le concordanze. Voglio dire, sarà vero che una delle forme di interiezione più ricorrente sia “Ah!” (79 volte) ma un conto è che si riferisca alla sfera sessuale (come è più che prevedibile), un conto è che significhi “Ho capito!”
Son piccole cose, per carità. E non vale nemmeno la pena dirle per due trombatine editoriali.
Caterina Marini è consigliera della circoscrizione centro del Partito Democratico.
Una sera sua sorella la chiama al telefono per dirle che mentre si recava in camera sua è stata fortemente spaventata dalla vista e dalla presenza di un ladro. Ansia più che comprensibile.
La Marini, renziana ed ex portavoce della segretaria della federazione pratese, sfoga la sua rabbia su Facebook con queste parole “La telefonata di mia sorella mi ha lasciato senza parole: mentre andava in camera si è trovata faccia a faccia in casa con un ladro…. Che città di merda è questa… Extracomunitari ladri stronzi dovete morire subito” e, in un commento “Era un magrebino. Agile come un gatto. E datemi di razzista non me ne frega un cazzo. La gente ha solo discorsi”.
Poi capisce che forse ha esagerato (o qualcuno le dice che il suo post ha provocato più di qualche mugugno) e toglie il messaggio dalla sua bacheca.
Troppo tardi. La disciplina interna del PD si è mossa. “Con quelle dichiarazioni Caterina Marini è di fatto fuori dal Partito Democratico perché violano chiaramente i nostri principi fondanti che da sempre si rispecchiano nell’anti-razzismo, nella non-violenza e nel rispetto della convivenza. Tali affermazioni hanno giustamente colpito la sensibilità delle forze politiche, associative e civili che tutti i giorni lavorano a quell’idea d’integrazione irrinunciabile in una moderna ed evoluta società. Non spetta direttamente a me emettere delle sanzioni e ho già chiesto l’apertura di un procedimento disciplinare presso la commissione di garanzia. Tuttavia appare evidente la violazione del codice etico che Caterina Marini ha sottoscritto in due momenti: in primo luogo prendendo la tessera del Partito Democratico e anche una volta eletta come consigliera di Circoscrizione”. Questo quanto scrive Ilaria Bugetti.
In effetti un po’ pesine erano, quelle frasi. Ma oltre al giudizio politico, al procedimento disciplinare che preluderà certamente all’espulsione, arriva il controsenso, la beffa, l’assurdo, la commedia.
Un ulteriore commento di Ilaria Brugetti, secondo quanto riportato da “Il Fatto Quotidiano” di oggi, a pagina 8, in un articolo di Daniele Vecchi è stato: “Perché noi dobbiamo dare il buon esempio. Se sei un personaggio pubblico e impegnato in politica non puoi permetterti di scrivere su Facebook. (…) Con tutto quello che abbiamo detto di Berlusconi serve coerenza.”
Ora, sinceramente sfugge anche al lettore più superficialmente interessato alla vicenda il perché un personaggio pubblico dedicato alla politica non debba, anzi, non possa permettersi di scrivere su Facebook. Evidentemente una persona, qualunque persona, finché non commette reato scrive su Facebook o dove vuole quel che vuole. Molti politici ben più “visibili” della Brugetti e della Marini lo fanno. Forse non si dovrebbero scrivere QUEL TIPO di frasi, ma per il resto non si vede perché una politica non possa condividere la foto degli spaghetti che ha cucinato per cena con i suoi “amici”, se le sembra buono farlo.
Allora mi sono detto, andiamo un pochino a vedere e facciamo una ricerca su Facebook sotto il nome “Ilaria Brugetti”. Ecco cosa appare:
Allora uno dice: “Sarà certamente una omonima”. Macché, la pagina “Per Ilaria Bugetti Segretaria provinciale Pd” serve o è servita, evidentemente, a sostenerla nel cammino politico.
Non ho nulla contro la propaganda. E’ giusto che la Bugetti la faccia se ritiene che i 475 “mi piace” raccolti le siano utili. Ma chi dava il buon esempio non doveva non potersi permettere il lusso di scrivere su Facebook? Già, e come mai allora gli altri due account riportati sono inequivocabilmente risalenti a lei? Non sono due omonimie, ogni account è intestato a una persona nata il 9 novembre 1973, la somiglianza delle due foto associate ai profili è evidente, e uno dei due profili sembra essere nato proprio per raccogliere le richieste di iscrizione eccedenti i 5000 “amici” (tetto massimo stabilitoda Facebook per un privato). Inoltre si parla del Partito Democratico e della vita politica di Prato. Cosa vogliamo di più??
Vogliamo solo che il buonesempismo sia una realtà.
Il Brasile, terra meravigliosa e paese ingiustamente considerato “in via di sviluppo”, senza poi chiarire in sviluppo rispetto a che cosa, è cornice di una delle proteste di consistenti, violente e sanguinolente di questo noiosissimo inizio di millennio.
Dovremmo imparare molto dal Brasile, specialmente da questo manifestante che, armato soltanto di un cartello e di una testa per pensare, ricorda a tutti che per protestare è necessario uscire da Facebook e entrare nelle piazze.
In Italia, naturalmente, accadrà soltanto che chi è su Facebook ci rimane, perché essere su Facebook è un po’ come tenere il culo su una poltroncina che è sempre nostra per piccina ch’ella sia.
La rete ci fa incontrare. Poi, quando ce n’è bisogno, si va fuori.
Vista del Comune di Spoltore - da www.wikipedia.org
Difendersi dalla diffamazione e dall’ingiuria è estremamente semplice.
Se ci si sente offesi da qualcuno si invocano gli articoli 594 (ingiuria) e 595 (diffamazione) del Codice Penale, si va dal magistrato, si espongo i fatti, si querela chi ha profferito quelle parole, si firma il relativo verbale e cominciano le indagini. Se no basta anche scrivere per conto nostro quel che è successo, autenticare la firma in comune, e spedire il tutto per raccomandata.
A Spoltore, comune in provincia di Pescara, a pochi chilometri da dove io vivo, le cose sono un po’ più complicate.
L’amministrazione comunale guidata dal Democratico Luciano Lorito ha emesso una delibera, per cui “Previa consultazione col legale di fiducia dell’ente”, la dirigente del Settore Servizi alla Persona e Contenzioso sarà incaricata di monitorare ogni mese blog, social network (Twitter, Facebook e quant’altro) per vedere se esistano delle offese che vadano a ledere la dignità dei dipendenti comunali e degli amministratori.
In caso affermativo, dice i documento “si procederà senza ulteriori avvivi e/o atti”.
Le domande sorgono innocenti e spontanee:
a) Perché questa azione di controllo e di ricognizione è dedicata solo al web? Non potrebbe darsi che le offese di cui sopra possano venir veicolate, ad esempio, attraverso la stampa, la radio e la televisione? E quelli chi li controlla??
b) Quanto costa al contribuente un team che vada a setacciare TUTTE le risorse descritte, premesso che una sola persona non potrebbe farlo?
c) Non esiste forse l’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di opinione (di cui fa parte il diritto di critica) con OGNI MEZZO??
d) Si potrebbe dare il caso che cittadini che hanno solo CRITICATO l’operato dell’amministrazione comunale di Spoltore usando il web come veicolo del proprio pensiero possano trovarsi un giorno indagati SOLO perché il sentire di chi è addetto al controllo vede quelle CRITICHE come delle OFFESE?
Dunque la Boldrini, da quando è stata eletta Presidente della Camera, avrebbe ricevuto un numero significativo di messaggi telematici di minaccia e/o a sfondo sessuale.
Ha buttato lì una considerazione sull’opportunità di nuove regole, ma non si è capito bene se queste nuove regole devono essere studiate espressamente per la rete o per il reato di stalking.
In ogni caso è un flop, perché parte dal concetto (tragicamente sbagliato) che la rete non sia regolamentata. Per la rete valgono le stesse regole già presenti nei codici della società civile. I reati di minacce e diffamazione, nonché quello di molestie (anche sessuali) si possono commettere (anche) tramite la rete.
Quindi si va dal magistrato e si presenta una querela (viceversa questi reati non possono essere perseguiti).
Se poi si ritiene che le leggi attualmente in vigore non siano adeguate per tutelarci c’è il Parlamento in cui si può discutere in maniera democratica se inasprire le pene o meno o se inserire nuove fattispecie di reato. E la Boldrini è, si veda il caso, la Presidente di uno dei due rami del Parlamento.
E chissà in quale àlveo dorato hanno vissuto i nostri parlamentari, che hanno così tanta paura della rete da voler intervenire sui reati commessi suo tramite. L’odore di censura comunque c’è. E si sa che ciò che non si conosce ci sfugge e allora bisogna pure ingabbiarlo in qualche modo, perché ciò che non si conosce ci fa paura.
E allora si può concepire tranquillamente una critica come un’ingiuria perché il solo fatto che venga diffusa con un mezzo a noi sconosciuto ce la fa ingigantire e vivere in modo abnorne.
Oggi, tra l’altro, è la giornata mondiale della libertà di stampa. Ma ce ne siamo tranquillamente dimenticati (già, come sarà???).
Oggi potrei raccontarci diverse cose. Ad esempio potrei dirvi di uno sfondone giornalistico sul caso giudiziario di Salvatore Parolisi.
Oppure riferirvi del falso (e sottolineo falso) allarmismo creatosi all’indomani della sentenza relativa alla Commissione “Grandi Rischi”, che pretende di trasformare dei condannati in primo grado in dei novelli Galileo Galilei, e chissà come si permettono. Forse perché avrebbero dovuto dire “…eppur si muove!” alla popolazione de L’Aquila. Si sottintende la terra.
Ma vi dico che il blog chiuderà tra breve tempo.
Quanto, esattamente, non lo so. Ma è più che probabile che questo sia uno degli ultimi “post” a essere messo in linea nel blog per come lo conoscete adesso.
Il motivo è molto semplice. Il Senato della Repubblica, con una manovra che non esito a definire inaccettabile, sta modificando in aula le norme che riguardano la diffamazione.
Non mi preoccupa né mi interessa minimamente affrontare un giudizio, penale o civile che sia, per una eventuale diffamazione. Del resto non ho mai diffamato nessuno. Purché la controparte venga a spiegare e difendere le proprie ragioni nella sede prescelta in un pubblico dibattimento davanti a un giudice terzo e non usi la diffamazione come un pretesto.
Quello che sì, mi dà profondamente fastidio, è l’estensione dell’obbligo di rettifica entro 48 ore (o, comunque, un tempo poco congruo) a tutti i siti web. Compresi i blog.
E’ una vecchia storia che si ripete. Stavolta, però, sembra ci stiano riuscendo davvero. Oppure può darsi anche che non ci riescano, non me ne frega un accidente. Non è quello il punto.
Il punto è che equiparare qualsiasi sito web a una testata giornalistica sotto il profilo della regolamentazione è un assurdo che si dimostra ictu oculi.
Il punto è che un Pinco Pallino qualsiasi, per il solo fatto di sentirsi oltraggiato, prima ancora di una sentenza della magistratura in merito (che potrebbe anche dargli torto), può obbligarti a pubblicare una rettifica che non puoi neanche commentare. Non importa se il contenuto delle tue presunte frasi diffamatrici sia vero o falso.
Puoi anche aver scritto per puro errore che il personaggio Tale conviva “more uxorio” con il personaggio Talaltro.
Se uno dei due personaggi si sente offeso, perché, si veda il caso, è un cattolico che crede nei valori della famiglia, e invece si è sposato, può chiedere una rettifica.
A quel punto il blogger deve pubblicarla. E non può nemmeno commentarla. Ad esempio spiegare perché è incappato nell’errore, ed eventualmente scusarsi.
Se non lo fa, cioè se non pubblica la rettifica, si rischia una sanzione variabile dai 5000 ai 100.000 euro.
Non sono i soldi che fanno paura, anche se, lo riconosco, dover pagare 100.000 euro può essere seccante, ma il fatto che la gente possa tenerti per i coglioni chiedendoti di rettificare un’informazione inviandoti la richiesta, che so, durante la settimana di ferragosto, così tu non ci sei, magari non guardi la posta elettronica, non hai un PC a disposizione o, semplicemente, ti stai godendo le vacanze.
Questa norma, se entrerà in vigore, scatenerà una guerra senza confine che non si svolgerà nelle aule giudiziarie, ma sul filo di una ulteriore, odiosa, pervicace e tenace intimidazione.
Le conseguenze per la libertà di parola, opinione, critica, satira ed espressione sono sotto gli occhi di tutti: si affiderà la legittimità di una informazione al personale sentire del soggetto, che potrà agire semplicemente SENTENDOSI diffamato, poco importa che lo sia davvero oppure no.
Direte voi: ma la norma non è stata approvata in aula e non è in vigore. Aspetta, prima di chiudere baracca e burattini.
Avete ragione, certo, ma si dà il caso che:
a) questa è roba mia;
b) è preoccupante anche solo il vivere in un paese dove questa norma è stata concepita e arrivata sul tavolo del legislatore.
Quelli di Wikipedia stanno continuando a gridare lor lai. Ma lo sanno benissimo anche loro che continueranno a fare quello che hanno sempre fatto. Perché un server negli USA non si nega a nessuno, perché loro sono inquerelabili, perché hanno i soldi, bla bla bla…
Ma noi siamo persone e abbiamo ancora il dono dell’indignazione.
Il blog non sparirà, semplicemente sarà azzerato con nuovi contenuti. Citazioni, incipit di romanzi, fotografie e immagini di pubblico dominio, insomma, tutto quello che si potrà continuare a dire, che è ben poco.
Dobbiamo questa bella idea all’intesa tra PDL e PD che sull’obbligo di rettifica per tutti hanno trovato un’intesa perfetta.
My name is franca, i saw your email today and became interested in you, i will also like to know you better,i want you to send an email to me so that i can send you my picture for you to know whom i am,i believe we can move from here.I am waiting for your mail . Remember the distance or colour does not matter but love matters a lot in life
Ma che bello.
Franca (o franca.love) ha visto la mia e-mail e si è subito interessata a me. Dev’essere gratificante vedere un indirizzo e-mail e innamorarsi virtualmente del suo proprietario. Mi vuole mandare una sua foto (gentile!) e mi ricorda che non importano distanza o colore della pelle, ma che l’amore, quello sì che che conta nella vita.
Ce la prendiamo tanto con Beppe Grillo perché, in fondo, siamo noi quello lì ritratto nudo con un PC davanti alle parti Gentili sulla copertina dell’olandese “De Groene Amsterdamner”.
Siamo noi che ci mostriamo su Facebook, siamo noi che abbiamo qualcosa da dire sui blog, siamo noi che andiamo a sbirciare in casa dell’altro dal buco della serratura mascherandoci dietro il presunto anonimato di uno schermo, siamo noi che abbiamo pensieri da esprimere, che crediamo in qualcosa (foss’anche Wikipedia), o che, magari, non ci crediamo e lo diciamo lo stesso. Anzi, magari proprio per quello.
Quest’uomo fa paura perché i soliti benpensanti non possono concepirsi nudi davanti a un elettorato. Qualcuno potrebbe accorgersene.
E in fondo la pur non aggraziata nudità di Grillo ci ricorda che basta poco. Un PC, una cuffia con microfono, una connessione internet.
Di tutto il resto non abbiamo bisogno.
E se qualcuno ne ha bisogno non c’è da prenderlo troppo sul serio.
Zoosk è una applicazione per Facebook che collega ad una risorsa web costituita da un sito per single.
La pubblicità dice che è il sito di incontri on line n. 1 in Italia. E va bene. Non ho nulla contro i siti di incontri on line, così come non ho nulla contro il fatto che la gente si conosca on line, ci mancherebbe anche altro.
Ma qualcuno mi spieghi perché nella pubblicità di Zoosk che appare su Facebook uno devo anche sapere CHI tra i suoi contatti usa o ha usato Zoosk.
In breve, perché io devo essere informato di chi si è iscritto a un sito di incontri (per curiosità, sfida, momento di tristezza o leggerezza assoluta?) quando dovrebbero essere solo affari suoi?
Estratto dalla sentenza - Tratto dal sito web dell'avv. Fulvio Sarzana
Un imputato romano è stato assolto per non aver commesso il fatto dall’accusa di accesso a siti pedopornografici e detenzione del relativo materiale.
Tra le (altre) motivazioni che il Tribunale di Roma ha addotto “vi è che l’accesso ad un sito pedofilo può essere accidentale e non costituire reato, che la natura pedopornografica di immagini detenute da un imputato deve essere rigorosamente provata”, secondo quanto dichiarato dal brillante difensore dell’imputato, l’Avv. Fulvio Sarzana.
Tralascio volutamente la questione relativa alle modalità di raccolta del materiale probatorio, e in particolare dei log del provider usato per la connessione, che non sarebbe stata svolta secondo quanto previsto dai relativi articoli del codice di procedura penale, non perché non costituiscano ulteriori elementi su cui si è basata la sentenza di assoluzione, ma perché secondaria per quello che desidero sottolineare. Ne faccio menzione solo per una doverosa completezza di “cronaca”.
Dunque, il fatto di possedere una rete Wi-Fi senza protezione, o con una password che avrebbe potuto in teoria essere bypassata da terzi, può dare luogo (e in effetti così è stato) a una assoluzione per un supposto crimine informatico.
In breve, l’indirizzo IP di provenienza di un collegamento non basterebbe, di per sé, a ricondurre al colpevole di un reato informatico. Quel PC potrebbe essere stato usato da altre persone della famiglia o dell’entourage degli amici e dei conoscenti. Se poi la rete WiFi viene tenuta libera in accesso a chiunque e senza password a collegarsi a quel sito pedopornografico o a commettere un reato qualsiasi (ad esempio una diffamazione) potrebbe essere stato chiunque, non necessariamente l’imputato, o chi in effetti aveva in custodia del collegamento, men che meno l’intestatario della linea telefonica o dell’ADSL o quant’altro.
Sarebbe un po’ frettoloso concludere che basterà una rete WiFi o avere una famiglia per dimostrare che non esiste una netta corrispondenza univoca tra il collegamento fatto dal PC di Tizio e l’effettiva responsabilità penale di Tizo, ma una cosa è certa, da oggi il popolo del web si sentirà più legittimato e protetto nel delinquere quotidianamente, e potrebbe anche non avere tutti i torti.
Ho fatto un’ordinazione on line. Tutto bene, compro in rete da molto tempo e non ho mai avuto problemi. Solo che nella mail di conferma dell’ordine c’era scritta una cosa un po’ inquietante:
“Per evitare inconvenienti, indichi come indirizzo per la consegna un LUOGO PRESIDIATO, ossia un luogo dove ci sia qualcuno che possa ritirare il pacco, per esempio una casa con la portineria, un ufficio, un negozio ecc.”
Un luogo PRESIDIATO?? Devo chiamare le forze dell’ordine per ritirare un pacco? E poi cosa succede se invece di una casa con portineria, o un negozio, un ufficio o quant’altro ho una “casa-e-basta”? Una di quelle cose che esci la mattina e torni nel pomeriggio e se arriva il corriere e non ti trova ti lascia un avviso così lo richiami per fartelo consegnare quando ci sei? Che succede se uno vive in un luogo non PRESIDIATO?? Non lo possiamo sapere.
Né possiamo sapere a quali “inconvenienti” uno possa andare incontro per il semplice fatto che lavora o che è fuori di casa come sarebbe ed è suo preciso diritto.
Speriamo di essere “presidiato” a sufficienza quando mi spediranno il tutto. Solo che vorrei sapere chi sarà il “Presidente”.