La riforma Bonafede

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Della cosiddetta “riforma Bonafede” della giustizia si parla poco, anzi, pochissimo. Non è, in effetti, una riforma che apporti quegli auspicati cambiamenti epocali nel sistema penale italiano.

Ci sono aspetti che non rivelano una particolare originalità o efficacia, come la decisione di notificare via PEC al difensore, oltre la prima notifica cartacea all’interessato, tutti gli atti del processo. In breve, hanno scoperto che esiste la PEC, che ha lo stesso valore di una raccomandata con ricevuta di ritorno, e che può risolvere il problema della perdita del documento cartaceo o del ritardo della notifica da parte del servizio postale. Insomma, la PEC esiste ed esiste da almeno un decennio. Si tratta/si trattava soltanto di usarla e superare le farragginoserie del sistema. Le cose erano semplici, più che semplici. Eppure è stato interesse dell’amministrazione della giustizia mantenerle complicate, finché non è arrivata una normativa in proposito (e va detto fra parentesi, ma dovrebbe essere ovvio, che la riforma Bonafede è ancora in fase di discussione e non è ancora operativa).

Altro punto di discussione sono le riduzioni dei tempi delle indagini preliminari e, conseguentemente, quelle dei processi. Il PM che non stia nel termini temporali indicati avrà delle sanzioni di carattere disciplinare. Ma finché il legislatore parlerà in termini ordinativi e non prescrittivi nei confronti dei magistrati che la tirano per le lunghe (cosa significa che i termini indicati sono “perentori”?) non si caverà un ragno dal buco e ci sarà sempre chi preferirà rischiare un procedimento disciplinare interno (che potrebbe anche risolversi in un nulla di fatto).

C’è poi la riforma del processo di appello per i reati puniti con la pena edittale fino a 10 anni, che saranno giudicati ancora in composizione monocratica, e non da tre giudici come finora è accaduto. Ora, qual è il senso di ricorrere in appello, a parte quello di farsi ridurre l’entità di una condanna e di guadagnare tempo sulla prescrizione? Senz’altro quello di essere giudicato da più persone, rispetto alla composizione del tribunale monocratico, per una ragione molto semplice: tre teste ragionano meglio di una. Se si riesce ad insinuare nella corte il “ragionevole dubbio” è molto più probabile che questo vada a vantaggio dell’imputato che potrebbe uscirne assolto. E poi perché porre uno sbarramento per i reati puniti con 10 anni di reclusione? Cosa deve aver commesso un cittadino per essere giudicato da una triade di giudici, un omicidio stradale? E se ha commesso un reato cosiddetto “minore”? E’ vero che ci sono reati e reati, ma non è vero che esistono cittadini e cittadini.

Nello scarso ed annoiato dibattito sulla riforma del ministro Bonafede, infine, si è inserita di recente la proposta del Partito Democratico di prevedere tempi di prescrizione più lunghi per i condannati in primo grado e più brevi per chi sia stato assolto. Non si vede il perché si debbano distinguere cittadini in base alla sentenza di primo grado, che se è assolutoria, può essere ribaltata in appello, se è di condanna, idem con patate. Un colpevole assolto in primo grado (per esempio per mancanza di prove) avrà più possibilità di un colpevole condannato di sfangarla e di arrivare indenne alla prescrizione del reato. Lo stesso Davigo, che ebbe a dichiarare

“Bisognerebbe abolire la prescrizione” (1)

pone seri dubbi di costituzionalità sulla proposta del PD. Insomma, la riforma Bonafede non parte sotto i migliori auspici e si prospetta come un pastiche inestricabile dal quale sarà difficile riuscire a disimpantanarsi.

(1) Confronta ADN-Kronos dell’11/12/2019

Dal 1 gennaio siamo tutti meno liberi

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Non c’è niente da ridere o da festeggiare. Dal 1 gennaio andrà in vigore la legge che sospenderà sine die i tempi di prescrizione una volta emessa la sentenza di primo grado. Con la benedizione del ministro Bonafede, con l’approvazione incondizionata di Marco Travaglio, con l’inerzia del PD e con i cori di luoghi comuni da parte dell’opinione pubblica, primo fra tutti quello per cui “bisogna preservare le vittime di reato”, la preferita di chi dimentica che nel processo penale le parti sono alla pari, hanno pari diritti e pari dignità e sono perfettamente uguali davanti al giudice (non si può privilegiare il sacrosanto diritto della parte offesa rispetto al diritto dell’imputato, altrettanto sacrosanto, di avere un processo in tempi certi e non sospesi, e di essere dimenticato dopo un periodo ben determinato). O come quelli che vedono un colpevole ovunque, in qualsiasi circostanza, dimenticando che si è colpevoli solo in presenza di una sentenza definitiva passata in giudicato, e non pensando, o non sapendo proprio per niente, che se uno commette un reato a vent’anni quando è giovane e scapestrato, non può essere definitivamente giudicato quando ne avrà quaranta, quando sarà, verosimilmente, un marito e un padre di famiglia, solo perché magari si tratta di un reato cosiddetto “minore” e le procure si prendono tempi eonici per trattarlo perché c’è sempre qualcosa di più importante di cui occuparsi. Ma cosa ci può essere di più importante della definizione dello status di un cittadino che si ritrova macchiato a lunghissima scadenza il certificato dei carichi pendenti? La prescrizione, va da sé, non è solo un diritto. E’ la dichiarazione di impotenza dello Stato, che non riesce a rispettare le prescrizioni costituzionali sul giusto e rapido processo. E dal primo gennaio tutto questo non c’e più. Nessun “mea culpa”. Solo l’imposizione imperiosa e prepotente di un governo che non è capace di affrontare una vera e radicale riforma della giustizia e del processo penale. Tutti meno liberi. Tutti meno tutelati nel bene supremo della giustizia sbilanciata dalla parte delle procure e dei tribunali. Via, via…

Cassazione: se il destinatario dell’offesa non è identificato o identificabile non c’è reato di diffamazione

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“L’interpretazione giurisprudenziale sul punto è rigorosa, richiedendo che l’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione, in mancanza di indicazione specifica e nominativa ovvero di riferimenti inequivoci a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto, deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa, quale si desume anche dal contesto in cui è inserita (…); con la conseguenza che ove non sia possibile tale deduzione il reato di diffamazione non può ritenersi integrato.”

Cassazione – Sentenza n. 49435/2019

Diffamazione: un reato subdolo

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Parlo spesso di diffamazione perché è uno dei reati più subdoli che il nostro ordinamento giudiziario preveda.

E perché è l’unica terra di confine tra quello che si può dire e quello che non si può dire. Sul web come ovunque.

Davvero, non ce ne sono altre. Esistono soltanto la verità, l’interesse pubblico e la continenza verbale. Se io rispetto tutti e tre questi parametri posso dire quello che mi pare.

Ma proprio perché la diffamazione è estremamente subdola come reato, non è possibile sapere con assoluta certezza dove finisca la critica e dove cominci l’attacco gratuito e personale alla dignità della persona.

La Cassazione si è espressa con sentenze contrastanti sull’uso del classico “vaffanculo”. Ci sono contesti in cui l’ha dichiarato non offensivo, e altri in cui l’ha stigmatizzato. Ma non sappiamo con esattezza quando “vaffanculo” si può o non si può dire. Ad aver voglia di saperlo e di dirlo, intendo.

La definizione di un reato dovrebbe essere legata a parametri oggettivi. Io rubo qualcosa se lo sottraggo a qualcuno senza il suo consenso. Ma se quella persona mi dà il suo consenso io non sto rubando proprio nulla.

La lesione dell’onorabilità personale, invece, viene lasciata, più che altro alla sensibilità dei singoli. A quella delle vittime in primo luogo e a quella dei magistrati inquirenti e dei giudici di merito in seconda battuta. Non ci sono confini nettamente delimitati entro i quali io offendo o non offendo. Quello che io avverto come offesa può darsi benissimo che altri lo avvertano come interlocuzione.

La diffamazione è la più redditizia forma di investimento che esista. Per citare in sede penale una persona per diffamazione non si spende assolutamente nulla. Tutt’al più si impiega un po’ di tempo a redigere una querela. Non c’è nemmeno bisogno di un avvocato. Basta esporre le cose con obiettività, allegare il materiale che si ritiene opportuno (nei casi di diffamazione via internet questo è estremamente facile), citare i testimoni, portare il tutto dai carabinieri (che di solito sono molto grati ai cittadini che risparmiano loro l’onere di redigere gli atti e glieli consegnano già redatti con la sola mancanza della firma da apporre in loco) e il gioco è fatto.

Davvero, non c’è altro. Se vi va male avrete perso un po’ di tempo. Se vi va bene potete ragionevolmente contare (prima o poi) su un risarcimento danni e sul pagamento dell’onorario del vostro avvocato.

Poi la vostra querela viene passata al Pubblico Ministero, il quale può decidere di mandarla avanti (ad esempio inoltrandola alla Procura competente per territorio) o di chiedere l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari (a questa richiesta vi potete opporre, ma non avrete grandi possibilità di riuscita).

Quindi si arriva al processo vero e proprio. Primo grado, secondo grado e Cassazione. Magari il maramaldo che vi ha diffamati patteggia in sede penale e voi non potete nemmeno costituirvi parte lesa. Nessun timore, potete agilmente costituirvi in sede civile (dopo aver esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione) e spillargli una (bella?) dose di quattrini (tanto è quello il conquibus, ed è anche giusto che lo sia, non vedo perché non possa e non debba esserci un risarcimento se viene accertato un reato).

Strumento di tutela subdolo e imperfetto, dunque. Ma è l’unico a nostra disposizione. Anche per far capire a chi ci perculeggia che Internet NON è quella zona franca da ogni diritto che ci piacerebbe fosse.

(Toh, m’è venuto proprio benino questo post, nevvero??)

Non Focaccia; non questi che m’ingombra

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C’è qualcosa che ancora non torna nell’intricata vicenda Cancellieri, e che mi spinge a tornarci sopra (del resto sono sul MIO blog e parlo un po’ di quello che mi pare, va bene??).

La Procura di Torino ha deciso di non contestare al Ministro della Giustizia alcun reato. Bene.
Gli atti saranno trasmessi, per un approfondimento, alla Procura di Roma. Bene.

Letta difende la Guardasigilli fino a che non ci saranno novità e la Guardasigilli non si dimette perché non ha commesso nessun reato. Male. Male assai.

Perché in Italia abbiamo l’assurda pretesa di far dimettere un politico -o un tecnico prestato alla politica, come nel caso della Cancellieri- SOLO se ha commesso un reato. E a volte nemmeno in quel caso.

Il fatto che il “penalmente rilevante” faccia la differenza è, di per sé, aberrante. Perché anche se non costituisce reato, il fatto che un ministro della giustizia abbia detto alla famiglia di una detenuta, sua conoscente ed amica, di disporre pure di lei per qualunque cosa, è e rimane un fatto grave che dovrebbe giustificare le dimissioni.

Il Ministro della Giustizia svolge le sue funzioni nei confronti di chiunque, non solo di quelli che gli chiedono di svolgerle in un certo modo.

Il Ministro della Giustizia è uguale per tutti. Se non sa garantire questa uguaglianza alla popolazione detenuta se ne deve andare. Non importa se abbia commesso un reato o meno.

Ci sono tante cose che non costituiscono reato ma che possono essere riprovevoli per chi le compie. Per esempio, se un insegnante va a scuola a fare lezione in abiti sporchi e trasandati, se non si lava da giorni, se puzza di sudore e di alcool, se ha il fiato come una fogna di Calcutta, se rutta in classe e all’intervallo si accende un mozzicone ciucciato di sigaro toscano genitori e dirigenti sarebbero preoccupati sulla sua effettiva capacità di portare avanti la sua funzione.

Eppure non è un reato non lavarsi, avere l’alito pesante e indossare abiti sporchi. Non lo è nemmeno fumare il toscano.

Nel caso Cancellieri è il senso dell’etica che è andato perduto. Quello stesso senso che fece dimettere la Idem per molto meno e che ora tutti hanno miracolosamente smarrito.

 

PS: Spiegazione del titolo: “Farina” è Vanni de’ Cancellieri. Il verso è il 63 del XXXII dell’Inferno.