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Ieri sera, in un’Italia sonnacchiosa e disattenta, è stata approvata
alla Camera la proposta di Legge Costa che modifica le disposizioni di
legge in tema di diffamazione (trovate il testo della proposta qui).
Lo scarno comunicato del sito istituzionale recitava:
Ora, cosa ci sarà scritto nella proposta approvata? Come cambieranno le disposizioni del Codice Penale e delle leggi dello Stato in tema di diffamazione? Andiamo un po’ a vedere cosa dice e che cosa succederebbe se questo testo venisse confermato nella sua approvazione anche al Senato e entrasse in vigore.
Guardiamo i cambiamenti all’articolo 595, che attualmente disciplina la diffamazione semplice e quella aggravata:
“All’articolo 595 del codice penale, i commi primo, secondo e terzo sono sostituiti dai seguenti:
« Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo 594, comunicando con piu persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la multa da euro 1.500 a euro 6.000.
La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato.
Se l’offesa è arrecata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, si applica la pena della multa da euro 3.000 a euro 8.000.
Si applicano le disposizioni di cui al comma 3 dell’articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, e successive modificazioni, nel caso in cui l’autore dell’offesa pubblichi una completa rettifica del giudizio o del contenuto lesivo dell’altrui reputazione.
Alla condanna consegue la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da un mese a sei mesi, nelle ipotesi di cui all’articolo 99, secondo comma»”.
Il primo elemento che salta agli occhi è che sparisce la possibilità per il giudice di comminare la reclusione. Si parla solo di multa.
Tuttavia la diffamazione non è stata depenalizzata. Si finisce pur sempre davanti a un giudice (di pace, magari) e si subisce un processo al termine del quale si può essere assolti o condannati.
Non c’è una soluzione al problema della congestione dei processi per diffamazione nei tribunali e nelle aule di giustizia italiani. C’è solo un passaggio di carte dal giudice monocratico (che finora si occupa della diffamazione aggravata) al giudice di pace.
Il passacartismo è uno sport molto praticato nella giustizia italiana.
Ma c’è una cosa nuova che dice che “nel caso in cui l’autore dell’offesa pubblichi una completa rettifica del giudizio o del contenuto lesivo dell’altrui reputazione” si applicano le disposizioni di cui al comma 3 dell’articolo 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.
Che cosa dice? (O andiamo un po’ a vedere, eh??): “L’autore
dell’offesa non e punibile se provvede, ai sensi dell’articolo 8, alla pubblicazione di dichiarazioni o di rettifiche.”
Oh, bene, dice uno, se mi accorgo di aver scritto qualcosa di offensivo posso rettificarlo (e se possibile eliminarlo), pubblicare delle dichiarazioni della controparte, insomma, modificare e integrare la notizia dal contenuto suppostamente diffamatorio e non essere punito (se dimostro di averlo fatto prima dell’apertura del dibattimento).
E invece no. O, meglio, non è così semplice. Anzi, funziona proprio in modo terribile. Perché per capire bene dobbiamo andare a vedere come viene disciplinato, secondo il nuovo testo, l’istituto della rettifica.
Intanto la nuova proposta di legge prevede che la rettifica venga fatta «senza commento». In breve, si pubblica la rettifica secondo il testo stabilito dalla controparte richiedente, ma non ci si può aggiungere nulla di proprio. Niente.
Neanche un “mi dispiace”, un “pubblico la rettifica ma ribadisco il mio pensiero”, una integrazione, qualcosa che faccia pensare a un contraddittorio nel merito.
Ma quello che fa spavento è quanto segue:
«Per la stampa non periodica l’autore dello scritto, ovvero i soggetti di cui all’articolo 57-bis del codice penale, provvedono, su richiesta della persona offesa, alla pubblicazione, a propria cura e spese, su non piu di due quotidiani a tiratura nazionale indicati dalla stessa, delle dichiarazioni o delle rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro reputazione o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale.
La pubblicazione in rettifica deve essere effettuata entro sette giorni
dalla richiesta con idonea collocazione e caratteristica grafica e deve
inoltre fare chiaro riferimento allo scritto che l’ha determinata»
Quindi:
a) la rettifica deve essere pubblicata “a richiesta della persona offesa” (non vale, dunque, rettificare qualcosa di propria iniziativa);
b) la rettifica deve essere pubblicata a spese del presunto diffamatore su due quotidiani a tiratura nazionale. Per intenderci, se avete offeso qualcuno su un blog o su Facebook, non vale che pubblichiate la rettifica sul blog o su Facebook, cioè nello stesso luogo in cui la presunta offesa avrebbe avuto origine. No, dovete pubblicarla a vostre spese sui quotidiani che la controparte vi indicherà. Per cui se date dello scemo a qualcuno potreste ritrovarvi una richiesta di rettifica da pubblicare su
“Repubblica” e “Corriere della Sera”. E potrebbe costarvi molto, ma molto di più che affrontare un processo;
c) rientrano tra gli elementi costituenti il reato di diffamazione anche le immagini: quindi occhio con l’uso disinvolto di immagini “photoshoppate”;
d) per richiedere una rettifica non importa che i pensieri e le azioni attribuiti a un soggetto siano effettivamente diffamatòri nei loro confronti (cosa che viene stabilita da un giudice e non da un sentimento individuale), basta che
siano “ritenuti lesivi” di “reputazione” o “contrari a verità”.
Splendido, vero? Non ne parla nessuno.
Un giorno la rete si sveglierà e si ritroverà a parlare del solito blogger che farà da capro espiatorio riempendo i social network di espressioni di solidarietà di cui il giorno dopo nessuno si ricorderà più.