Ma il cancro non è uno spettacolo

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E’ tempo di outing. Nadia Toffa, Sabrina Scampini, Daria Bignardi, personaggi più o meno pubblici che hanno avuto un tumore (per il 100% donne) hanno deciso di raccontare la loro esperienza attraverso la TV o attraverso una intervista (le più discrete) alla stampa nazionale. Cosa spinga una persona che ha avuto un’esperienza così orribile come la scoperta di un cancro e le relative cure devastanti a metterci la faccia e andare in televisione a parlarne non si sa. Probabilmente è qualcosa che fa bene, che mette a nudo, che vuol dire “guardate, sono qui, con la mia parrucca e il mio fisico provato”, o, forse, più semplicemente, significa “ce l’ho fatta”. A prescindere dal fatto che quella persona ce l’abbia fatta veramente o meno.

Nadia Toffa è stata la prima in ordine di tempo ad apparire sullo schermo delle Iene per dire al suo pubblico (e non solo al suo, evidentemente) che è stata male, ma che in due mesi ha scoperto di avere un tumore, ha fatto la diagnosi, si è operata, si è sottoposta alle chemioterapie e radioterapie di rito ed è clinicamente guarita. Tempi da record, prima ancora di affermare che radio e chemioterapie sono le uniche armi per curare un tumore, proprio lei che fa parte dell’équipe di una trasmissione che ha rivendicato la presunta validità delle cosiddette cure “alternative”, dalle cellule staminali ai frullatoni di aloe, passando per l’Escozul (dalla contrazione dell’espressione castigliana “Escorpión azul”), il veleno degli scorpioni cubani azzurri (poi mi spiegheranno perché proprio quelli cubani, nelle altre nazioni non sono diffusi?), di cui io stesso avevo cominciato ad occuparmi quando la dottoressa Ester Pasqualoni, barbaramente assassinata nel giugno scorso, mi faceva pervenire preoccupanti lettere da La Habana da tradurre in italiano e mi chiedeva aiuto per dissuadere i pazienti che volevano farne uso. Perché c’è gente che ha bisogno di molto più di due mesi, e che arriva alla fine delle terapie stremata e senza forze, altro che parrucchina trendy e buonumore dal tubo catodico (ammesso che esistano ancora televisori col tubo catodico). Perché se prendi l’Escozul e non fai la chemio o la radio poi peggiori e probabilmente muori.

Perché di cancro si muore nella stragrande maggioranza dei casi. Queste donne rampanti, che teletrasmettono se stesse attraverso l’etere, che entrano, “sfondandola”, nella TV e nelle case degli altri, o non hanno idea di quello che è loro capitato (cosa che non voglio neanche pensare) o hanno avuto un gran culo a guarire in tempi rapidissimi e a riprendersi la loro vita.

La Scampini ha riferito: “E’ vero che ti senti una guerriera, e ogni volta che entri in un reparto di oncologia tu hai intorno a te tante guerriere.” Ed è questo che non torna. Questa immagine da guerriera che si vuol lanciare a chi guarda e a chi legge. E’ vero che un cancro si combatte, ma è anche vero che in una guerra molti guerrieri cadono in battaglia e c’è chi non ce la fa a tornare a casa, ai suoi affetti, alla sua famiglia, alla sua attività lavorativa, alla sua vita di sempre, perché bene che ti vada un cancro la vita te la cambia per sempre. Ma come si fa anche solo lontanamente a pensare che “Sì, è vero, ho avuto un cancro, ma adesso è tutto a posto, sto bene, sono guarita, giriamo pagina e facciamo finta che non sia successo niente”? Guerrieri di che? Se mi diagnosticassero un tumore io mi cagherei sotto, altro che guerriero! Vuol dire che queste tre donne saranno mille volte migliori di me, ma che cos’è, un gioco a chi è più bravo o un dramma personale? Il guerriero è quello che sa di poter morire da un momento all’altro nello scontro con il nemico. Perché anche il nemico ha armi molto efficace e ti può uccidere quando vuole. E allora non guarda in faccia a nessuno. Madri di famiglia, bambini, figli, padri, colleghi di lavoro, amici cari. E nessuno che sarà più lo stesso, dopo.

C’è una critica anche per Daria Bignardi. Che riferisce nella sua intervista: “Chi è ammalato considera la propria malattia il centro del mondo, ma anche se ho rispetto per chi sta soffrendo in questo momento, parlare pubblicamente della malattia in generale, o peggio ancora della mia, non mi interessa.” E allora non si sa perché abbia rilasciato pubblicamente informazioni sul suo vissuto, sulla parrucca che indossava (la testimonianza inoppugnabile, per chi ha a che fare con te, che sì, hai avuto o stai curando un tumore), e poi “ Si ammalano milioni di donne, a cui va tutto il mio affetto”. Ma perché, gli uomini non si ammalano di tumore? Nemmeno un pochino di affetto anche per loro?? Il cancro è una malattia squisitamente al femminile? E perché mai? Tutte domande che non troveranno una risposta. Inventeranno una parola come “femminicancro” prima o poi. E farà molti più danni di “femminicidio”, questo è certo, perché avrà per oggetto la donna-guerriero che ce la fa sempre e comunque.

Dicevo all’inizio di questa eccessiva spettacolarizzazione del problema. Ed è vero che non tutti quelli che si ammalano di cancro hanno a disposizione una rete di Berlusconi e un programma seguito come “Le Iene” o “Quarto Grado” (addirittura in prima serata quest’ultimo). Se io mi ammalassi di cancro (già, e perché non dovrebbe capitare proprio a me?) mi riterrei già fortunato ad avere a disposizione un blog attraverso il quale veicolare i miei pensieri e le mie emozioni. E mi chiedo che cosa sarebbe stato se il tumore avesse colpito qualcuno della redazione di “Report” o di “Presa diretta” su una rete del servizio pubblico nazionale. Perché per la gente la televisione di denuncia è solo ed esclusivamente “Le Iene”, e allora la notizia di una malattia a una dei presentatori, giovane, piena di vita, carina e nota per aver scavato nelle magagne della realtà che ci circonda, salvo poi intoppare nel veleno degli scorpioni cubani, è un evento che fa audience sul serio.

Ma il cancro non è uno spettacolo.

La banconota da 300 euro

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C’è un racconto di Mark Twain (ma cosa ve lo racconto a fa’? Sapete assai voi!) che si intitola “La banconota da un milione di sterline”.

Parla di una banconota (il massimo della logica!) del valore di un milione di sterline (ma va’?) che due eccentrici signori acquistano alla Banca d’Inghilterra per metterla in mano a un poveraccio che vive di stenti ed espedienti. Con una scommessa: uno dei due pensa che il meschino avrebbe avuto difficoltà a cambiare quella banconota, e che la sua vita sarebbe ulteriormente peggiorata perché nessuno si sarebbe fidato di un vagabondo che portasse in dote tale valore, l’altro, invece, assai più ottimista, pensava che negozianti e venditori gli avrebbero comunque spalancato le porte facendogli credito sulla fiducia.

Ora non v’illudete, non mi ricordo niente di come finisce la storia (a parte il fatto che il malcapitato si fidanza) che lessi quando ero poco più che infante.

Però ci ho ripensato leggendo di quella retata storica di falsari associati a delinquere che gestivano il 90% del denaro falso circolante nel mondo (sono quegli annunci esagerati delle forze dell’ordine. Se fosse vero il 90% delle banconote false nel mondo dovrebbe sparire, e invece no). Sono riusciti perfino a stampare una banconota (falsa perché inesistente) da 300 euro, spacciandola a un credulone tedesco. Che gliel’ha regolarmente cambiata! Ora, per pensare a una banconota, realizzarla, stamparla, portarla in Germania, abbindolare un ghiozzone e farsela cambiare vuol dire che non si è dei criminali incalliti associati a delinquere di stampo danaroso, vuol dire che si è dei geni (cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, colpo d’occhio e rapidità di esecuzione). Questi della banconota da 300 euro (realizzata peraltro in ùnice copia, chè le opere d’arte non si duplicano, nossignori) sono riusciti a superare un genialità perfino il cavalier Antonio Trevi che vendette la fontana romana omonima a un boccalone americano, con la spalla di Nino Taranto che parlava in fiorentino. QUesta è gente che non dovrebbe andare in galera, dovrebbe essere messa a disposizione della Guardia di Finanza e delle forze dell’ordine per debellare il rimanente 10% mondiale di traffico di denaro falso, esattamente come gli hacker arrestati aiutano i sacerdoti impegnati CONTRO la pedofilia (ce ne sono, pochi ma ce ne sono, non è che tutti la praticano!)

Ulteriore beffa: nella retata è rimasta impigliata anche la mamma della bambina di Caivano precipitata da un balcone del proprio palazzo dopo essere stata abusata sessualmente. Un pesce piccolo, perché le è stato imposto soltanto il divieto di dimora. Si ipotizza che comperasse diversi quantitativi di soldi falsi che poi rivendeva ad altri che le spendevano in negozi, supermercati, e viandare. Trasmissioni come “Chi l’ha visto” e “Quarto grado” ne avevano fatto un po’ l’icona della purezza e della semplicità, una giovane mamma che ha perso la propria figlia in circostanze così tragiche e misteriose era preda da telecamere, adesso del caso non parla più nessuno.

Saranno cose da prima pagina, ma la genialità napoletana non si mette in galera!

Il romanzo popolare di Elena Ceste

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E’ un po’ di tempo che non faccio “outing”.

Quindi dichiaro davanti a persone di specchiate fede e moralità quali reputo i lettori del mio blog, che io guardo “Chi l’ha visto?” il mercoledì su RAI3 e anche “Quarto grado” il venerdì su Rete Quattro. E’ l’unica coincessione che faccio ai canali di Berlusconi ma lo guardo.

Mi piacciono questi programmi che vanno a rimestare nel torbido e che per farlo hanno bisogno della qualifica di “televisione di servizio”. Sono letteratura, non televisione. Letteratura di genere “minore”, certo, come erano i romanzi di Carolina Invernizio o i racconti di cappa e spada, come il giallo Mondadori comprato ogni due settimane all’edicola. O come “Urania”. O “Segretissimo”. O “Il giallo dei ragazzi”, per chi se lo ricorda (e ci vuole una memoria di molibdeno tungstenato a ricordarselo).

Il genere è quello del romanzo popolare. La quotidianità si fa racconto, e allora è avvincente anche quando viene ricostruita decine e decine di volte (si veda il caso, perché non esistono risvolti giudiziari consistenti).

Il caso di Elena Ceste è stato sviscerato fino all’inverosimile. Oggi il marito è stato raggiunto da un avviso di garanzia per omicidio volontario (non si sa se anche per occultamento di cadavere). Il cadavere, o quel poco che ne restava, è stato trovato giorni fa.

Mi aveva sempre colpito la religiosità di questa donna che ha fatto quattro figli e che ora rischiano di trovarsi, oltre che senza madre, anche senza padre. Una religiosità che semprava costituire una zavorra al suo poter vivere in maniera libera. Quasi sicuramente questa donna aveva tradito il marito, e il senso di colpa ha fatto sì che o lei si suicidasse o che venisse ammazzata. Ed è il senso della “vergogna”, del “peccato” a farla da padrone. Come se non dovesse/potesse esserci anche un senso del “perdono” da parte di un marito che, se la sera del litigio non si fosse messo a guardare “Don Matteo” alla televisione, magari avrebbe fatto meglio. E’ morta nuda perché la nudità è lo stato in cui l’uomo e la donna furono cacciati dall’Eden, dopo aver mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (boia come sono ganzo!). Aveva chattato su Facebook (mal gliene incolse!), aveva ritrovato persone che aveva conosciuto, aveva approfondito la conoscenza, magari aveva anche consumato qualche rapporto sessuale con una o più di queste persone, ma ci sono tante cose, in primo luogo il perdono e, nel caso, la separazione e il divorzio. Ma per chi ha una vita di fede questi non sono rimedi a cui ricorrere, sono marchi di infamia, sono stigmi. E allora si va a morire, nudi, per aggiungere vergogna a vergogna e per farla finita con quello che si è vissuto come un’onta incancellabile.

Bella storia, sì. Poi magari vi parlo anche di Roberta Ragusa.