Much ado about Pussy Riots

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Va bene, va bene, hanno condannato le Pussy Riot a due anni di reclusione. E tutta l’opinione pubblica è indignata e grida contro l’attentato alla libertà di espressione, contro l’intolleranza nei confronti dell’espressione artistica, lo sberleffo al potere, la mancata concessione della sospensione condizionale, l’esagerazione dell’entità della pena.

E bravo moralismo italico di terza mano! Ci indignamo tanto per tre ragazzine che con modalità un po’ sguaiatelle sono andate a incappucciarsi di colori sgargianti e a cantare una canzoncina nemmeno tanto orecchiabile contro Putin in una chiesa ortodossa russa (dove, immagino, c’era gente che si faceva gli affari suoi) e non ci indignamo che in Italia il primo che fa la linguaccia a qualcuno o che scrive qualcosa su un blog rischia tre anni di carcere??

Sono state condannate per teppismo e per incitamento all’odio religioso. La libera espressione del pensiero non c’entra niente. Non è l’esercizio di un diritto di critica, che può sconfinare verso la diffamazione secondo il parere personale e l’interpretazione soggettiva di un giudice (e anche lì ci sarebbe da discutere sul fatto che un’espressione possa essere interpretata in un modo o in un altro a seconda non dico dell’umore, ma almeno dell’estrazione culturale, politica e religiosa di chi deve giudicare), queste tre hanno travalicato un diritto per affermare una prepotenza. Che non è quella di criticare Putin come vogliono con la loro arte canterina, ma quella di farlo rompendo le scatole a gente che prega per fatti suoi.
Un conto è prendersela con la Chiesa Cattolica come istituzione (e loro l’hanno fatto con quella ortodossa), un conto è andare in chiesa mentre c’è la donnina che dice il rosario a punkeggiare abbéstia perché va di moda lo sberleffo incappucciato, magari alla vecchietta che non ci capisce nulla e che aveva l’unica colpa di esser lì a sgranare due pateravegglòria.

Ora pare che una di loro sia sfuggita all’arresto, non so in quale modo, e tutto sommato non mi interessa, ma diàmine, non è Julian Assange. Lo dimostra il fatto che una folla sterminata di ragazzine vogliono diventare Pussy Riot, mentre di marcire una ambasciata equadoregna non gliene frega niente a nessuno.

Attaccare i poteri costituiti è un esercizio che ha bisogno di dignità e di voglia di mettersi in discussione. Di porre sopra il piatto della bilancia delle idee anche tutto quello che si si ha e che si è, se necessario. E poi, se del caso, sparire in silenzio, e possibilmente senza mettersi un preservativo in capo.

Questo non mi sembra proprio il caso.