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Pubblico Ministero
Diffamazione sui social per Chiara Ferragni e Fedez: il Pubblico Ministero chiede l’archiviazione
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Sia detto prima di tutto. Io non ho la benché minima idea di chi siano Fedez e Chiara Ferragni. Riprendo questa notizia non tanto perché mi interessino i personaggi in sé o la loro difesa, quanto perché mi interessa commentare la decisione del pubblico ministero di archiviare la loro querela per diffamazione.
In breve i fatti: il 23 ottobre scorso (giusto un anno fa) una certa Daniela Martani scrisse su Twitter a proposito di questi due Fedez-Ferragni: «Io ve lo dico da anni che sono due idioti palloni gonfiati irrispettosi della vita delle persone e degli animali. Per far parlare di loro non sanno più cosa inventarsi. Fare una festa a casa era troppo normale altrimenti chi glieli mette i like». I destinatari di queste offese, ritenendo che l’autrice del post abbia abbondantemente travalicato i confini del diritto di critica, hanno sporto querela.
Il Pubblico Ministero titolare dell’inchiesta, Caterina Sgrò, ha chiesto l’archiviazione perché «sui social accade che un numero illimitato di persone, appartenenti a tutte le classi sociali e livelli culturali», abbia «la necessità immediata» di «sfogare la propria rabbia e frustrazione» (…) «fuori da qualsiasi controllo» anche con «termini scurrili, denigratori, ecc., che in astratto possono integrare il reato di diffamazione, ma che in concreto sono privi di offensività». Sempre secondo la Sgrò il «contesto dei social in genere, frequentato dai soggetti più disparati», «priva dell’ autorevolezza tipica delle testate giornalistiche o di altre fonti accreditate tutti gli scritti postati su internet» al punto che, la «generalità degli utenti non dà peso alle notizie che legge». Le eventuali «espressioni denigratorie» «godono di scarsa considerazione e credibilità» e «non sono idonee a ledere la reputazione altrui».
Risulta di tutta evidenza che se così fosse i social network si trasformerebbero ipso facto in una sorta di zona franca e in un luogo di assoluta impunibilità. I legali della coppia hanno presentato opposizione sostenendo che «la diffusione di un messaggio diffamatorio» (…) «integra un’ipotesi di diffamazione aggravata». Viceversa «si rischierebbe di trasformare i social network in una vera e propria zona franca in cui tutto è concesso», arrivando a «imbarbarire i costumi e le abitudini di vita delle persone». E hanno ragione.
Marco Cappato rinviato a giudizio per l’aiuto a Dj Fabo
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“Così lo impiccheranno con una corda d’oro/è un privilegio raro/rubò sei cervi nel parco del re/vendendoli per denaro” (Fabrizio De André, Geordie)
E siamo all’assurdo che in uno Stato (rappresentato da un pubblico ministero) che chiede allo Stato (rappresentato dal Giudice per le Indagini Preliminari) di archiviare la posizione di Marco Cappato per aver aiutato a morire con dignità Dj Fabo o come lo vogliono chiamare, solo accompagnandolo in Svizzera, in una clinica dove tutto questo è possibile, lo Stato dica di no, che si farà a un processo e lì Marco Cappato si difenderà. “Il processo“, scrive Cappato nell’amaro tweet di oggi che dà la notizia ai suoi sostenitori “sarà anche l’occasione per processare una legge ingiusta“. Purtroppo o per fortuna, Marco, in Italia si processano le persone, non le leggi. Quelle si applicano, e finché non sarà il legislatore a porre mano al testo di revisione di leggi già esistenti. E fa certo bene avere dei sostenitori, tanta gente vicina. Ma la gente che ti dà una pacca adesso, stasera si siede a tavola con la sua famiglia e non ci pensa più (“anche se piangeranno con te/la legge non può cambiare“). Sono ben altro dalle vite che vengono poco a poco centellinate ed erose in un’aula di giustizia. Anche tu “cercavi giustizia ma trovasti la legge“.
Diffamazione: un reato subdolo
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Parlo spesso di diffamazione perché è uno dei reati più subdoli che il nostro ordinamento giudiziario preveda.
E perché è l’unica terra di confine tra quello che si può dire e quello che non si può dire. Sul web come ovunque.
Davvero, non ce ne sono altre. Esistono soltanto la verità, l’interesse pubblico e la continenza verbale. Se io rispetto tutti e tre questi parametri posso dire quello che mi pare.
Ma proprio perché la diffamazione è estremamente subdola come reato, non è possibile sapere con assoluta certezza dove finisca la critica e dove cominci l’attacco gratuito e personale alla dignità della persona.
La Cassazione si è espressa con sentenze contrastanti sull’uso del classico “vaffanculo”. Ci sono contesti in cui l’ha dichiarato non offensivo, e altri in cui l’ha stigmatizzato. Ma non sappiamo con esattezza quando “vaffanculo” si può o non si può dire. Ad aver voglia di saperlo e di dirlo, intendo.
La definizione di un reato dovrebbe essere legata a parametri oggettivi. Io rubo qualcosa se lo sottraggo a qualcuno senza il suo consenso. Ma se quella persona mi dà il suo consenso io non sto rubando proprio nulla.
La lesione dell’onorabilità personale, invece, viene lasciata, più che altro alla sensibilità dei singoli. A quella delle vittime in primo luogo e a quella dei magistrati inquirenti e dei giudici di merito in seconda battuta. Non ci sono confini nettamente delimitati entro i quali io offendo o non offendo. Quello che io avverto come offesa può darsi benissimo che altri lo avvertano come interlocuzione.
La diffamazione è la più redditizia forma di investimento che esista. Per citare in sede penale una persona per diffamazione non si spende assolutamente nulla. Tutt’al più si impiega un po’ di tempo a redigere una querela. Non c’è nemmeno bisogno di un avvocato. Basta esporre le cose con obiettività, allegare il materiale che si ritiene opportuno (nei casi di diffamazione via internet questo è estremamente facile), citare i testimoni, portare il tutto dai carabinieri (che di solito sono molto grati ai cittadini che risparmiano loro l’onere di redigere gli atti e glieli consegnano già redatti con la sola mancanza della firma da apporre in loco) e il gioco è fatto.
Davvero, non c’è altro. Se vi va male avrete perso un po’ di tempo. Se vi va bene potete ragionevolmente contare (prima o poi) su un risarcimento danni e sul pagamento dell’onorario del vostro avvocato.
Poi la vostra querela viene passata al Pubblico Ministero, il quale può decidere di mandarla avanti (ad esempio inoltrandola alla Procura competente per territorio) o di chiedere l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari (a questa richiesta vi potete opporre, ma non avrete grandi possibilità di riuscita).
Quindi si arriva al processo vero e proprio. Primo grado, secondo grado e Cassazione. Magari il maramaldo che vi ha diffamati patteggia in sede penale e voi non potete nemmeno costituirvi parte lesa. Nessun timore, potete agilmente costituirvi in sede civile (dopo aver esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione) e spillargli una (bella?) dose di quattrini (tanto è quello il conquibus, ed è anche giusto che lo sia, non vedo perché non possa e non debba esserci un risarcimento se viene accertato un reato).
Strumento di tutela subdolo e imperfetto, dunque. Ma è l’unico a nostra disposizione. Anche per far capire a chi ci perculeggia che Internet NON è quella zona franca da ogni diritto che ci piacerebbe fosse.
(Toh, m’è venuto proprio benino questo post, nevvero??)
Condannato Giuseppe Ayala: diffamazione nei confronti di Salvatore Borsellino

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E a proposito di diffamazione, è stato condannato in primo grado Giuseppe Ayala, ex Pubblico Ministero ed ex politico.
E’ stato ritenuto colpevole di diffamazione per aver definito Salvatore Borsellino una persona con problemi “di sanità mentale”, e averlo associato alla figura di Caino.
Nonostante il parere contrario del pubblico ministero, è arrivata la condanna a 2000 euro di multa, oltre a un risarcimento di 15000 euro a favore della famiglia Borsellino e al pagamento delle spese processuali.
Ayala ricorrerà in appello (bene, è un suo diritto). Nel frattempo anche la legge può cambiare.