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Dopo la sentenza di primo grado emessa per la morte di Stefano Cucchi c’è stato un selvaggio corricorri a dàrgli all’untore fin dalla chiusura dell’udienza.
L'”untore” in questo caso può essere sia il giudice (la povera madre di Cucchi ha detto “me l’hanno ammazzato una seconda volta”) che l’imputato di turno che esce assolto in un gioco perverso delle parti.
Se è certo che alcuni degli imputati sono entrati come gravemente indiziati di reato e usciti come persone prosciolte da ogni accusa, è altrettanto certo che Cucchi è entrato in carcere da vivo e che ci è uscito da morto.
Se la sentenza da un lato afferma che Cucchi sia morto di malasanità, dall’altro lascia aperta ogni incertezza sui segni inequivocabili dei colpi ricevuti dal giovane.
Certa sinistra emotiva ha fatto a brandelli la sentenza (le cui motivazioni saranno rese note solo tra una novantina di giorni) mentre certa destra moralista ha anticipato quelle motivazioni dicendo che sì è andata bene così e che i poveri servitori dello stato non potevano essere condannati (cielo, e perché no?)
È sicuro che alcuni imputati sono stati assolti per non aver commesso il fatto. Cioè per la formula più ampia di assoluzione prevista.
Poi ce ne sono altri che sono stati assolti perché le prove erano insufficienti o contraddittorie. E quelle prove contraddittorie tra accusa e parte civile sono proprio quelle che riguardano la morte di Cucchi come ipoteticamente derivante dalle percosse subite.
Pare impossibile ma in Italia per condannare qualcuno c’è ancora bisogno di prove.