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Le notizie e le tematiche di discussione hanno il potere di ripetersi a cadenza più o meno annuale.
E siccome le lezioni scolastiche sono terminate (che è ben altro dal dire “è finita la scuola!”) si ricomincia a parlare di bocciature. Ricomincia, cioè, quel carosello trito e ritrito di contrapposizioni ideologiche e dibattiti radiotelevisivi, per cui ci si chiede se la bocciatura scolastica sia o no un sinomimo di fallimento della scuola, della società civile (mai della famiglia o dell’alunno, sia chiaro!) e che senso abbia bocciare degli alunni in un clima di integrazione, convivenza, accettazione del diverso, multietnicità, pluralità di modalità operative, integrazione con il territorio, analisi delle dinamiche comportamentali, frizzi, frazzi, triccheballàcche, ricchi premi e cotillons.
A Pontremoli, all’istituto “Giorgio Tifoni” sono stati bocciati cinque alunni in una stessa classe. Una prima elementare.
Tre sono stranieri, uno è un disabile.
Sul “Giornale” un articolo di Giordano Bruno Guerri titola: “Bocciare i bimbi di sei anni? Orrore che segna per la vita.” E aggiunge: “Ricevere un rifiuto in prima classe segna per sempre. Ed è un fallimento per il sistema scolastico”
Ora, si dovrebbe quanto meno dimostrare, già dal titolo:
a) che bocciare un alunno in prima elementare sia necessariamente un “orrore“;
b) che questo “orrore” debba per forza segnare, e per giunta per sempre;
c) che questo “orrore” sia la sintomatologica del fallimento dell’intero sistema scolastico addirittura.
La tesi sociale che sottende a queste suggestioni è nota. Si tratta di una mentalità diffusa ma, non per questo, incriticabile: i bambini, in quanto bambini, non devono essere bocciati.
Perché c’è questa visione del bambino come di qualcosa di puro, di incontaminato, da proteggere a tutti i costi. Di più, da giustificare a tutti i costi.
A sei anni anche mio padre (che adesso ha 73 anni) e mio nonno (che oggi ne avrebbe 111, poveròmo) sono entrati in una scuola elementare. Per uscirne definitivamente dopo due anni. Cioè quando ne avevano otto o nove al massimo. Ed essere avviati al lavoro. Dei campi, per inciso. Non hanno mai avuto nessuna difficoltà a dire, anche in età matura, “Io ho la terza elementare”. Oppure “Quando andavo a scuola la maestra mi puniva” (anche perché il mi’ babbo, che si chiama Sergio, alla maestra tirava delle sacrosante borsate in faccia). Quando hanno lasciato la scuola elementare non erano tanto più grandi dei bambini di sei anni di oggi. Eppure hanno abbandonato gli studi senza sentirlo come un orrore, e non si sono mai sentiti inferiori a nessuno. Mio nonno (poveròmo) amava leggere libri di storia. Per inciso ne ha letto anche uno scritto da Giordano Bruno Guerri. Con la terza elementare.
Il “trauma”, probabilmente, lo diamo noi, che pretendiamo di formare la società cosiddetta “civile” quando diamo per scontato che un bambino è bravo per forza, comunque vadano le cose, perché è un bambino. Quando diciamo che “bocciare” significa essere giudicati e puniti ingiustamente e non, ad esempio, avere una seconda possibilità.
Ci indignamo per forza davanti alla bocciatura di cinque bambini di sei anni. Senza considerare il fatto che, ad esempio, il mondo è pieno di genitori di bambini extracomunitari o, comunque, stranieri, che iscrivono il bambino direttamente in prima elementare anzitempo per evitare di pagare la retta dell’asilo (non per cattiveria o spilorceria, ma magari perché non hanno i soldi). E allora per la formazione del bambino è importante, magari, ripetere quell’anno perché, si veda il caso, non è stata raggiunta quella maturazione e non sono state acquisite quelle abilità che si richiedono per la prima elementare. Per esempio la conoscenza della lingua. Invece di dire “Riproviamoci, abbiamo tutto il tempo, ci sono nuove opportunità per imparare” si dice “Poverino, ti hanno voluto bocciare perché sei povero e straniero!” (come se uno dei bocciati non sia italiano, normodotato e non so se e quanto ricco). “Uno di loro è disabile”, scrive Guerri nel suo articolo. Non usa il termine “diversamente abile”, di sinistra e buonista matrice. Perché se l’alunno fosse “diversamente abile”, vorrebbe dire che avrebbe comunque delle abilità diverse da quelle che gli vengono richieste. Scrive proprio “disabile”. E la bocciatura di un “disabile” può suonare come uno schiaffo dato intenzionalmente a quel bambino. Non, si badi bene, il segnale che anche quel bambino, per disabile che sia, possa essere bocciato se, si veda il caso, non raggiunge gli obiettivi minimi che i suoi insegnanti si sono prefissi in un Piano Educativo Individualizzato (cioè scritto ed elaborato apposta per lui). Perché può succedere. E per mille motivi. E tutti validi.
Ogni atto amministrativo, e quindi anche la bocciatura di un alunno, deve essere adeguatamente motivata. Perché a quelle motivazioni ci si può appellare (nei Tribunali Amministrativi Regionali, sia chiaro, e non nei chiacchiericci di paese, o, peggio ancora, in quelli dei social network) se si ritengono ingiuste. E un consiglio di classe prima di essere attaccabile sotto questo punto di vista ci pensa bene almeno dieci volte.
Prosegue ancora Giordano Bruno Guerri:
“Bocciato in prima elementare significa che il piccolo fa il suo ingresso nel mondo degli adulti (questo è la scuola) ricevendo un ceffone; gli viene detto – non dai compagni, ma dai Grandi – che non è abbastanza bravo in quella cosa che gli hanno spiegato essere la più importante; significa che rimarrà in quella scuola, ma con i bambini più piccoli, mentre i suoi compagni abituali, ormai una classe avanti, lo prenderanno in giro «per sempre»; che neppure i suoi genitori sono in grado di proteggerlo da una decisione tanto grave degli insegnanti, e che quindi i genitori sono deboli e impotenti, mentre gli insegnanti che non lo stimano sono forti e hanno ragione.”
Allora: il mondo della scuola non è il mondo degli adulti (il mondo degli adulti a sei anni?), il mondo degli adulti il bambino lo ha già sperimentato, con la famiglia e con le esperienze della scuola materna (gli adulti sono anche lì). No, il bambino entra nel mondo della conoscenza, dell’insegnamento, della cultura, dell’educazione, dell’acvquisizione degli strumenti che lo renderanno indipendente, capace e riflessivo. La scuola è una palestra, non un battesimo o un rito di ingresso. E in una palestra si può anche non essere abbastanza allenati da raggiungere un determinato obiettivo. Si può anche dire, o sentirsi dire che non ce la si fa a sollevare quel peso che sollevano tutti gli altri, tanto vale provarci e riprovarci finché non ci si riesce. Non è un disonore. Non è un ceffone. E’ un aiuto.
E perché un bambino dovrebbe rimanere nella stessa scuola? Può cambiarla, se i genitori pensano sia stato fatto loro un torto ingiusto. L’Italia è piena di scuole private e pubbliche pronte ad accogliere chiunque voglia far modificare a un bambino il proprio percorso di studi. E la scuola è proprio quel luogo in cui il “per sempre” ha un valore incommensurabile. Perché non afferisce alle prese in giro dei compagni più grandi (a quel punto potrebbe addirittura costituire un punto d’onore non far parte del gruppo dei “promossi” se i “promossi” sono dei bulletti in erba pronti a prendersela con il più debole solo perché gli adulti hanno stabilito fosse bene per lui ripetere l’anno), ma alle possibilità che una persona ha di crescere.
E perché mai i genitori dovrebbero “proteggere” un bambino da una decisione “grave” degli insegnanti, se è la scuola stessa ad essere un coacervo di sinergie (Dio, quanto odio la parola “sinergie”! Ma una volta tanto si può usare anche quello che si odia) che comprende l’istituzione, gli insegnanti e le famiglie? Le famiglie non sono avulse dalla scuola. Ci sono, devono svolgere il loro ruolo e il loro compito. Che non è quello di proteggere i propri figli da insegnanti cattivi e implacabili, ma quello di contribuire alla loro crescita nel rispetto dell’autonomia educativa dei ruoli. E’ troppo facile pensare che se le cose vanno bene il merito sia del bambino (perché è bambino) e se le cose vanno male la colpa sia dell’insegnante (perché è adulto, ma soprattutto insegnante). Perché, detto sia per inciso, non è mai il singolo insegnante a bocciare un alunno, ma la decisione è sempre e comunque collegiale. C’è un Dirigente Scolastico che garantisce della sua regolarità e che controfirma un verbale. O una pagella. Non sono sogni o illusioni, semplicemente le cose funzionano così.
“Gli insegnanti (…) sono forti.” Con lo stipendio che prendono? Non credo proprio.
E’ solo l’inizio. Tra un po’ rifletteremo sugli Esami di Stato e sul perché gli insegnanti siano così cattivi che non permetteranno nemmeno agli studenti di telefonare a casa con il proprio telefono (risposta: perché per i casi di emergenza c’è quello della scuola), che, anzi, viene addirittura SEQUESTRATO (perché si usano questi participi passati con rimembraze da strategia del terrore o stato di polizia) e che non permette nemmeno al povero candidato ormai preda del terrore e dell’emozione, di potersi collegare a Internet quel tanto che basta per fare un copia e incolla da Wikipedia e “prendere uno spunto”, per un “piccolo aiuto”.
Ma cosa vorranno mai dai “nostri ragazzi” queste commissioni così severe degli esami di maturità, che siano anche maturi?