Du’ etti e mezzo o giù di lì di castagnaccio. Diaccio.
Codesta mia felice composizione mi fu suggerita dal ricordo della buonanima di Sbolenfi Argìa (1) (o Caporali Loredano, sinceramente ora la memoria mi si fa fallace) mentre ero sul camerino. Ancor oggi mi dichiaro debitor devoto.
(1) Ciavete poco da fare quella faccia, Argìa Sbolenfi ha un’importanza fondamentale per la storia della letteratura italiana, sapete??
SONETTO A ROVESCIO All’incomparabile memoria di Olindo Guerrini
Un giorno calerai, stecchita, nella fossa. Appena il tonfo sordo della cassa, poi sol la terra che il tuo legno smussa.
E quei capelli bianchi e rinsecchiti che pettinavi allora, lisci e grati del solo tuo respiro, saran muti.
Muti i tuoi occhi, un giorno spalàncati sul nostro amor stupìto. E noi, cheti, tra i nostri fior di carne invigoriti e la passion che avemmo, innamoràti.
Tu mi lasciati un giorno in primavera era di maggio e lo ricordo ancora. "Addio", dicesti e ti mettesti all’opra con un altro. E quindi adesso crepa!
Mi lavo i denti, sì, ci son problemi? Nemmeno in bagno mi dài pace. E remi contro alle mie ansie e al sagrificio di spazzolarmi in bocca il dentifricio. Dal mezzo, sì, dal mezzo l’ho strizzato, ti fa strano? L’hai sottolineato in blu, vero errore da zero tondo. Lo so, il Colgate si spreme dal fondo, ma cosa voi che importi? Dài, aspetta… lo so, non alzo più la tavoletta del viccì, che sarà mai? Ti fa schifo anche l’odore, ormai. Son tuo marito, guàrdami, non un mangiapane a ufo! Siamo una cosa sola, ti rammenti? "Ti prendo come sposo", e adesso menti? E’ un matrimonio, non un more uxorio… Non puoi lasciarmi qui, sul coluttorio!
E sia, allora. Non ci parliamo più! Me l’hai detto testè, in modo acconcio, garbata, ma decisa. Metti il broncio la lagrimina e il mento un po’ all’insù;
ti è sempre stato facile assentire con quello smilzo sorrisetto artato. I tuoi silenzi hanno predetto il fato nell’imbarazzo infìdo del non-dire.
Allora, ormai va preso come un dato che siamo altro e che non c’è da farci che un saluto, magari un po’ ammezzato.
E che il “Ti chiamo io! Tu non provarci…” detto con il tuo tono assai affrettato, non celi più la fretta del lasciarci.
Férmati amor mio… fammi respirare! Possibile che non ci sia da fare null’altro che il meccanico scopare che sa di mandorle, mandorle amare, che chiude le parole nelle bare della "petite mort", senza parlare… Ma dimmi un po’ anche tu, ti piace il mare? E nell’autunno i funghi da cercare? Hai una frase saggia da citare? O un libro vecchio da rispolverare e pagine stampate da annusare… Te l’assicuro, no, non sono tare, è quello che di più possiamo dare al ritmico e incalzante fornicare in un motel, sulla Firenze-Mare, con tuo marito sempre a lavorare mia moglie no, non può immaginare, ma c’è qualcosa oltre il tuo ansimare? Spegni un po’ quel cazzo di cellulare!
“Oddio, amor mio, ci sono -senti?-… vengo! Non ti fermare, ch’io di te mi pungo. Trafitta, si’, e solo a te mi pongo nuda e intrisa. Nel mio pensier non fingo, son tua, mio bene. E giunta al fine, piango!”
Mi parli e poi mi chiedi se ho capito. Non sono scemo, no. Rincorbellito dai discorsi, quello sì, parecchio. Finisco col sentirmi un po’ più vecchio quando arrivo ai bordi dei ricordi.
E tu non scordi, no, l’umano imbroglio del parlare: “Ascolta, te ne prego, lascia che ti spieghi…” Ripeti, dici, accenni e poi ripieghi, affermi, alludi, chiòsi e a volte neghi. Ed io sto zitto, come soglio, chè il tuo spiegar m’è duro, e non lo voglio!
(C) 2010 – Valerio Di Stefano
Ti prendo e ti porto via. Come Leònida alle Termòpili, come si fa con le sìlfidi, che sembran novelle amàzzoni che i loro dardi scòccano. Come mi gàrbano le sdrùcciole! (o allora? O ammàzzami!)
Ti prendo e ti porto via perché è una poesia mica brodo di fagioli, e se dei Crisma non ci son più olii bisogna che finisca il mio poema chè l’a capo, già si sa, è uno stilema.
Ma temo il consonante ch’ora s’appressa innante, ratto, rapido, fulminante la frèva, dici, no, non scotto massì, ciavrai almen trentotto e otto.
Non ho paura, no, ma ti prendo e ti porto via vorrei far la rima con Ammanniti ma mi girano i santissimi (sapessi come… uh, parecchio…)
Quello sopra è un madrigale composto in risposta al componimento poetico che segue, firmato dall’onnipresente Baldanzi Adelmo detto "Cauterio", alias "Single a 30 anni", dunque non prendetelo troppo sul serio:
Io non ho paura quando novello Serse assalti le termopili della residua mia virtù spazzando via sprezzante gli Opliti del Pudore
E non avrò paura se l’animo tuo ardente gabella per poesie testicoli un po’ buffi nobilitàti (e male!) con l’uso dell’”a capo”
l’unico mio terrore più del lampo e la tempesta più del cielo che mi cade sulla testa più della febbra che guasta il dì di festa più del poeta privo di rime in -esta
il terrore di finire nella categoria “pazze” che lì, veramente, mi girerebbero le ovaje.
Orbene, avrete tremato e trepidato per la mia esistenza in vita, visto che v’ho lasciati con alcuni post piuttosto noiosetti anziché no, ma poi vi spiegherò che senso hanno, ammesso che abbia un senso quello che stanno combinando intorno alla rete in nome dell’immancabile copyright, but that’s another story.
Stamane ero intento a divertirmi un tantinellino e a riordinare e rinforzare la sezione delle mie audioletture.
Mi faceva piacere riunirle, anche se alla meglio, in un luogo unico, ovviamente quelle sparse un po’ per ogni dove continueranno a starci, ma insomma, ne valeva la pena, perché ne ho aggiunte svariate.
Le trovate tutte (più o meno, ma manca qualcosa, e me ne dispiace) qui:
mentre tra le aggiunte c’è qualcosa in provenzale di Jaufre Rudel (la leggendaria "Vida", che non è sua, va da sé, e il famoso "Quan lo rius de la fontana") e non chiedetemi cosa mi abbia preso di mettermi a leggere nella lingua dei trovatori, a me piace e a qualcuno piacerà. Poi c’è Giacomino Leopardi, e non avete idea di quanto mia sia piaciuto "La sera del dì di festa", c’è quasi di che mettersi a piangere, e dire che al liceo l’odiavo il gobbetto di Recanati, "La pioggia nel pineto" di Rapagnetta, un sonetto del Marino (tanto per far vedere che esiste anche lui), e tragli spagnoli i soliti Unamuno, Machado e quella trombetta spelacchiata di Góngora.