La morte del commissario Montalbano

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Andrea Camilleri in una foto di Marco Tambara pubblicata dall’edizione inglese di Wikipedia

Montalbano sautò due a due i gradini della porta del Commissariato di Vigàta. Era arraggiato nìvuro. Adelina, non si sapi per quali scanosciuto motivo, a matino non era arrivinuta a farci il café, e lui si era arrisbigliato con un nirbuso che gli faceva girare i cabasisi.

Montalbano trasì e s’addiresse direttamenti verso il gabbiotto di Catarella.

“Catarella…. Cataré…!! Chiossà unni minchia si è stracatafuttuto. Catarella….”

“Ah, dottori dottori… ah dottori dottori… ah dottori dottori….”

Quando Catarella diceva per più di due volte “Ah dottori dottori…” erano duluri assà’. Quando apparve a Montalbano gli arrissimbiò sudatizzo e malatazzo, come se gli fosse andata in facci ‘na sicchiata d’acqua gelida.

“Che è successo Catarella??”

“Ah, dottori dottori…” (ed erano quattro) “…una disgrazia disgraziata! Una catastrofi inimmaginifica, una malasorti! Il dottori Augiello fu Domenico detto Mimì…”

“Che gli succediu”?

“Morì… cioè, morse!”

Montalbano arriflittì un momento e apprezzò la preziosa sintesi di stampo alfieriano del suo sottoposto.

“Cataré’, ma che minchia stai dicendo… ma se aieri assìra se ne stava spaparanzato tra le vrazza d’una bella fimmina… vuoi dire forse che Beba lo ha accoltellato per vinditta?”

“Nònsi dottori, forsi la signora Beba due curtiddrate ce le avrebbe date volentieri di buon grado a quel fimminaro, ma ammatino stava accuricato nel suo letto e non s’arrisbigliò…”

“Ma è una cosa tremenda… chiamami subito Fazio!”

“Impossibbili dottori. Il dottori Fazio non attrovasi in loco imperocché anche lui, mischineddro, morse. Cioè murìu…”

“Cataré’, ma che è successo, è uno dei miei soliti sogni che mi tormentano??”

“Nossignuri, dottori, è la rialtà riali e concreta. Un’ecatombi mai vista nè sintuta!!”

Va bene, senti, chiamami Livia al tilèfono.

“Io non ce lo chiamo il signori Allivia”.

“Cataré’, ma ti sei rimminchionito tutto d’un colpo? Chiamami Livia a Boccadasse.”

“Ah, dici la so’ zita? Non arrisulta possibbili in quanto anch’ella defunse e attròvasi morta cadavere putrescente. Ah, dottori, dottori…”

Montalbano sinni stitti quàlichi minuto assittato su una seggia a riflettere se fosse tutto vero o se fosse invece lui e non Catarella ad essersi rimminchionito.

“Catarella, ma tu stai bene, almeno??”

“Tanticchia, dottori. Ma a sera sarò defunto macari iu. E pure vossia. ‘Ccà non c’è più nuddru, dottori. Il dottori Pasquano, Galluzzo, Adelina, la signura Ingrid, bonànima… non potrà manciari nemmeno da Enzo, che attròvasi allittato in punto di addiventare macari iddru catàfero sticchito.”

Ma che era, la rubrica dei necrologi di Televigàta? Montalbano s’arricordò per un momento di “Pinocchio”, quando il burattino va alla casa della Fata dai capelli turchini, e trova tutti morti. Ma non era cascione di fare troppi riferimenti littirari.

Gli vinni una fitta gelida al vrazzo mancino, come un principio di sintòmo.

“Egli è -riprese Catarella come avrebbe detto lo stesso Collodi- che il Maestro e Dottori e Profissori Andrea Camilleri, detto Nené, nato a Vigàta il 6 settembri 1925…”

“Catarella, non ti mettere a fare l’ufficiale d’anagrafe come il compianto Fazio, vieni al busìllisi!!”

“Egli in quanto lui, dottori, ha smesso di sognare a tutti quanti noiàutri. E noiàutri, in quanto frutto della so’ criazione, che sarebbi la fantasia stessa di lui medesimo, non esistiamo più! E io sono rimasto assùlo a guardare il commissariato in attesa che addivenisse vossia pirsonalmente di pirsona.”

Montalbano gli asciugò una lacrima furtiva.

Poi niscì. Sentiva il bisogno di fàrisi la solita passiata molo molo, ma tanto a casa non avrebbi attruvato nenti da manciari nè per il jorno nè per la sira. Tanto valiva arricarsi al vicino ufficio postali, dove Montalbano si fece dare un modulo per un tiligramma. Scrisse con grafia tremolante: “All’editore Sellerio – Palermo”. Pensò tanticchia e poi vergò sulla carta poche righe: “Si è compiuta la vita del Maestro Camilleri. Sono morto. Con deferenza, Salvo Montalbano”.

Pruì il modulo alla impiegata. Pagò con gli ultimi spiccioli rimastigli in tasca e si allontanò a passi sempre più incerti verso la casa di Marinella dove qualcuno lo vitti trasire, ma nuddru lo vitti nèsciri nelle ore successive.”

“Aveva un che di precursore”, dissi l’editore Sellerio, archiviando definitivamente il telegramma che gli avevano consegnato.

Biblioterapia

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Ora va tanto di moda la “biblioterapia”.

E’, appunto, un afflato modaiolo e trendy, l’ultima soluzione prête-à-porter dell’atelier della psicologia da quattro soldi.

Non ho mai visto nessuno guarire con la lettura (e intendo da una vera e propria patologia, non dalla tristezza per essere state abbandonate dal fidanzato, per quella più che “Cime tempestose” basta una passeggiata lungo il mare). Tutt’al più si tratta di una inversione di terapia. Vi ricordate il fulminante incipit de “La Coscienza di Zeno”, quando il dottor S. raccomanda al suo paziente “Scriva, scriva… vedrà come arriverà a vedersi intero!”

Ecco, non si scrive più. E’ in arrivo un assalto di strizzacervelli pronti a sostenere che leggere fa bene. Ma non avevo bisogno che arrivassero loro a dirmelo. La mia maestra delle elementari, la Laura del Quaglierini, non faceva altro che ripeterlo: bisognava leggere, e libri seri, non i giornalini. Ampliava la mente ed educava al bello scrivere. Ecco, non sarebbe abbastanza ancora adesso?

I libri, va detto subito, NON curano. In quanto oggetto fisico (di carta stampata), non hanno alcun effetto terapeutico, men che meno per le parole che vi sono scritte dentro. Siamo noi che li carichiamo di simboli e di aspettative. Nient’altro.

Conosco un tale che in uno dei momenti più oscuri della sua vita si è letto svariati titoli di Erich Fromm. Io probabilmente non riuscirei a fare altrettanto neanche nei momenti in cui sprizzo gioia da tutti i pori. Fromm probabilmente lo ha aiutato a uscire dal pantano in cui si trovava, ma chi l’ha detto che aiuterebbe anche me se mi trovassi in una situazione analoga? Eppure i volumi sono gli stessi, e i contenuti perfettamente identici.

Da giovane non mi piacevano gran che i romanzi di Agatha Christie. Ne lessi un paio senza particolari entusiasmi (eccezion fatt per “Assassinio sull’Orient Express”, che è il giallo dei gialli). Adesso, a 50 anni, ne sono entusiasta. Ma gli scritti della Christie sono sempre stati quelli, non è che siano entusiasmanti adesso o che fossero noiosi allora, no, sono io che, caso mai, ho sviluppato un gusto che mi ha permesso di apprezzarli. Leggere “Poirot sul Nilo” a 50 anni? E sia.

Una volta, quando vivevo da solo, passai tre giorni a casa con una piccola influenza. Antibiotici, Tachipirina, sudare come un finlandese nella sauna e, dulcis in fundo, una notte di tuoni, lampi e pioggia. Compagnia insostituibile un romanzo di Camilleri con Montalbano e relativa ghenga. Dopo tre giorni la febbre era sparita. Ma è stato certamente per merito degli antibiotici, non del pur pregevole libro di Camilleri, anche se febbre, nottata persa (e figlia femmina!), temporale notturno e giallo alla mano fanno molto atmosfera.

Tra i libri di culto della biblioterapia, figura il classico volume di Robin Norwood, “Donne che amano troppo”, autentico manuale del do-it-yourself dedicato alle donne che hanno sviluppato una dipendenza da relazione. Non c’è dubbio che si tratti di un libro molto completo, ma non abbastanza da voler spiegare, tra le sue parti, anche come si possano evitare le donne che amano troppo e perché siano un male.

Insomma, c’è sempre questa deriva buonista a farla da padrona, ma nessuno dice che se è vero (ammesso e non concesso) che i libri curano, la scuola è la prima clinica riabilitativa della società. Con questo suo ostinarsi a far leggere e studiare Dante Alighieri e “i Promessi Sposi”. Con questa testardaggine ossessiva con cui ci propina il Verga. Con queste professoresse antiquate e annoiate che da giovani hanno sognato dietro i romanzi di Carlo Cassola e che spiegano con metodo e costanza (“nello stesso, sullo stesso libro, con le stesse parole”) qualche novella di Pirandello e le poesie di Leopardi.

A meno che, tra i cultori della biblioterapia, non venga fuori qualche omeòpata della materia con la mania che il simile cura il simile, e pretenda di curare il disturbo bipolare con manie suicide a colpi di “Madame Bovary” di Flaubert. Sarebbe troppo.

Liviamo!

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Dante scriveva che i nomi sono la conseguenza delle cose. Io dico che, a maggior ragione, lo sono delle persone.

Il resto lo fa la letteratura.

Voglio dire, ci sono nomi che sono talmente incancreniti nell’immaginario collettivo, da essere incollati a una idea. Ri-voglio dire, il nome Beatrice rimanda a una persona graziosa e giovane, non a una vecchietta arzilla e muscolosa. Io ne feci la protagonista di un mio raccontino fortunatello proprio perché mi serviva una fanciulla che morisse all’età di 11-12 anni. Se l’avessi chiamata Abelarda non avrei ottenuto lo stesso effetto (i cultori di certi fumetti di serie B ricorderanno la manesca nonnina amica del gorilla Bongo).
Più che la letteratura a volte può il cinema, o tutti e due. Alice era nome degregoriano per eccellenza negli anni ’70, era quella che guardava i gatti, con aria un po’ gattina anche lei, e non sapeva di Cesare che aspettava il suo amore ballerina da sei ore ormai (Pavese era un uomo costante). Nel decennio successivo uscì il film “Amici miei atto II”, quello in cui il malefico Lucianino descrive la moglie del Mascetti come “una donna secca e rifinita come il suo nome: Alice”. Si potrebbero fare ricerche demografiche e interessantissime tesi di laurea sulla frequenza del nome “Alice” nella popolazione italiana a seguito della vulgata di certi preconcetti.

Tutto questo cappello per dirvi che a suon di leggere i romanzi e i racconti del commissario Montalbano, Livia mi sta pesantemente sulle palle. Il personaggio, proprio, non lo digerisco, è la classica donna che mi farebbe venir voglia di tirarle uno schiaffo anche se sta zitta e basta. Livia, una stronza che ne “La vampa d’agosto” (un libro da leggere in questa stagione, per evidenti motivi) fa trottare in su e giù il povero Commissario perché soddisfi i capricci suoi e dei suoi antipatici amici. Livia, malefica e perfida, capacissima di rimproverarlo solo perché non si fa trovare al telefono o non ce la fa a rispondere. Livia bastarda che mentre Adelina fa gli arancini per l’ultimo dell’anno pretende anche che Montalbano se ne stia seco lei a Parigi (ma quando mai?)

E ora ne ho trovata un’altra di Livia letteraria. L’ho trovata in “In fondo al tuo cuore” di Maurizio De Giovanni, libro di cui vi ho parlato tempo fa solo per farvi rodere il fatto che io ce l’ho autografato e voi no. Non so se De Giovanni abbia voluto scherzare con le tradizioni letterarie e fare un omaggio al maestro Camilleri, fatto sta che Livia II, la vendetta, è una bellisssima donna, vedova, nella Napoli degli anni ’30, tutta cipria, teatro e cinematografini (“tra lo sfolgorio di quei lumi/comanda signora Cipria colonia e Coty!”), che fa una corte spietata al Commissario Ricciardi, che però gli preferisce la maestrina Enrica, che a sua volta sta cercando inutilmente di disfarsi di un vecchio amore. Life can be so hard, sometimes.

Sono andato a vedere l’occorrenza del nome Livia in 1000 opere della letteratura italiana e ce l’ho trovato fin dal Petrarca. Credevo di trovarlo con maggior frquenza in qualche romanzo ottocentesco, che so, il ciclo milanese del Verga, ma c’è comunque da continuare a divertirsi.

Quella stronza di Livia: L’eta’ del dubbio

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Arridero, Finalmenti.

"Come stai?" spiò Montalbano.

"Bene, e tu?"

"Sono infognato in un’indagine che… A proposito, tu lo conosci un certo Emile Lennec?"

"Cos’è, un altro scherzo a modo tuo?"

"Lo conosci o no?"

"Certo che sì. L’abbiamo conosciuto insieme."

"Dove?"

"A Marinella."

"Non se l’arricordava per niente."

"Davvero? E chi è?"

"Si tratta di…" pincipiò lei.

S’interrumpì, fece ‘na risateddra.

"Si tratta di uno che è esattamente come tuo figlio."

"Dài, Livia, non…"

Ma lei aviva riattaccato. La richiamò. Il tilèfono squillò a vacante.

E questa era la punizione che Livia gli aveva assignata per la faccenna del picciliddro inesistenti. Quella fìmmina non gliene perdonava una che era una, mannaggia!


(da "L’età del dubbio", pag. 128)

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Quella stronza di Livia – Camurrie d’agosto

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Prende vita oggidì questa imprescindibile sezione del blog, dedicata a chi ama i romanzi di Andrea Camilleri e al caro Fabio Montale (o Reginaldi Pilade) che di tutto questo ennesimo troiaio è co-ispiratore insigne.

Laura era l’amica del cori di Livia, quella alla quale confidava i misteri gaudiosi e macari quelli tanticchia meno gaudiosi.

"Vengono qua?"

"Sì, ti dispiace?"

"Per niente, tu sai bene che Laura e suo marito mi sono simpatici ma…"

"Spiegami questo ma".

Bih, che camurria!

"Pensavo che finalmente avremmo potuto stare un po’ più a lungo da soli e…"

"Ahahah!"

Risata tipo strega di Biancaneve e i sette nani.

"Perché ridi, scusa?"

"Perché sai benissimo che a restare sola sarò io, io, capisci, mentre tu passerai la giornata e forse anche la nottata al commissariato dietro l’ammazzato di turno!"

"Ma no, Livia, qua d’agosto, col caldo che fa, macari gli assassini aspettano l’autunno".

"Così’è, una battuta di spirito? Dovrei ridere?"

(Andrea Camilleri, La vampa d’agosto, Sellerio)

Le intercettazioni di Montalbano

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"Si potrebbe domandare a Tommaseo l’autorizzazione a intercettare le telefonate tra Sinagra e…"

"…e l’onorevole Di Santo? Ma in che minchia di mondo campi, tu? Nessun magistrato oggi come oggi ti concederebbe quell’autorizzazione, e d’altra parte non potrebbe manco farlo, perché questa gente sa blindarsi bene, deve prima domandare l’autorizzazione al parlamento. E aspetta e spera che gliela concedono!"

Montalbano lo stava a sentiri con una speci di stanchizza crescente. Pirchì erano paroli che avrebbe detto lui stesso.

(Andrea Camilleri, La danza del gabbiano, Sellerio, 2009)