Mira mira l’olandesina…

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I Mondiali stanno già mettendo a nudo il nostro spirito di rivincita e il fatto che, tutto sommato, dei valori sportivi e del valore universale della manifestazione ci importa una solennissima cippa.

L’Olanda ha schiacciato, ma che dico, ha umiliato la Spagna. Ha giocato benissimo, ha tirato in porta una goleada che poteva anche essere un punteggio tennistico, Casillas aveva la faccia della disperazione, di più, era la personificazione dell’esperpento come teorizzato da Valle-Inclan negli anni ’20, ma tanto sapete assai voi.

E la gente sui social network a scambiarsi messaggi del tipo “Avete visto l’Olanda ieri? Ahahahahahah!! E vaiiiii, miticaaaa!!

E sono persone che non hanno sentito parlare dell’Olanda fino al giorno prima, che non sa nemmeno dove si trovi o che lingua si parli. Tutt’al più ha scoperto dalla telecronaca della partita che la gente spesso si chiama “Van der Qualcosa”. Cosa rappresenta la squadra dell’Olanda? Semplice, rappresenta il più forte, rappresenta chi non solo batte gli avversari (ieri il Messico ha battuto il Camerun, ma siccome il risultato era solo di 1-0 non se lo è filato nessuno), ma li umilia davanti al mondo. Insomma, esattamente quello che vorrebbe fare ciascuno di noi in un mondo immaginato ma nemmen troppo.

Ai miei tempi l’olandesina era un personaggio che seguiva Corrado nella pubblicità del sapone Mira Lanza, tu pensa quanto ci ha già rincoglioniti il Mondiale.

Samba per Diego Armando Maradona

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E piange, Diego Armando Maradona. Piange la sua barba imbiancata, piange il suo fisico taricone un po’ invecchiato su espressioni da fuori di testa davanti alle telecamere e analisi del doping, piange lo scugnizzo che lascia figli illegittimi in giro per il mondo, piange lui ch’è ‘cchiù ‘mmeglio ‘e Pelè, gonfiato di coca mille volte, mille volte nella polvere e mille volte sugli altari della resurrezione e dell’oblio, piangono i suoi vestiti grigi e impacciati da imperfetto neo-borghese, piange la Vírgen del Rosario che si porta attorcigliata tra le mani, monile non da cadaveri di quotidiana sepoltura ma da speranza di straordinario riscatto, piange chi novanta minuti prima era proiettato verso la categoria dei semidèi e che si è ritrovato ad essere cancellato dalla storia per quattro schiaffi in padella serviti impeccabilmente, non vittoria né sconfitta, bensì umiliazione, e allora lo sbaglio è suo, solo suo, come il pianto che paccheggiava ai suoi giocatori, ¡anda, un beso…!, come quello che ti consola per aver preso quattro legnate dai campioni del mondo ma non basta al mondo a far credere che sei ridiventato, al di là di tutto, un uomo normale.

“Ma terrorizzati de che??” – Arrivederci amore, ciao!

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…che uno dice, va bene Di Stefano, potresti anche smetterla con questi titoli melensi, lagnosi, vagamente perculeggiatòri, che non entusiasmano più nessuno.

Sì, a patto che la si smetta di voler a tutti i costi difendere e sostenere una nazionale melensa, lagnosa, non vagamente ma dichiaratamente perculeggiatoria e che non entusiasma più nessuno.

Ha ragione Carlo Verdone in un’intervista pubblicata oggi sul "Fatto Quotidiano" (lo so che lo cito sempre, ma abbiate pazienza, è l’unico quotidiano cartaceo che leggo, ho rinnovato l’abbonamento per sei mesi salvo poi accorgermi che il mio edicolante sotto casa lo vende regolarmente, pirla che sono…).
Il giornalista gli ha fatto notare che i nostri giocatori erano letteralmente "terrorizzati". E l’attore ribatte: "Ma terrorizzati de che??". E fa notare che i giocatori della Corea del Nord se la passeranno molto peggio e hanno ben diritto di essere terrorizzati pensando al loro rientro nella terra del regime di Pyongyang.

Ecco, perde l’Italia, giocando malissimo, mostrando il lato peggiore di noi italiani, che è sempre quello di cercare di trovare una soluzione all’ultimo momento che raddrizzi le sorti di qualunque cosa stiamo vivendo, senza pensarci prima, o, quanto meno, durante.

Tanto arriverà sempre qualcosa o qualcuno che ci salverà, e se non è così, allora potremo dire che quel gol era dentro di mezzo centimetro e che è stato l’arbitro a non accorgersene, noi abbiamo giocato bene.

E chissà se avessimo vinto. Avremmo potuto sbandierare in faccia al mondo il fatto che noi sappiamo soffrire e che alla fine con l’umiltà e l’impegno, oltre a un bel po’ di milioni di euro di sponsor, chiunque può uscire da un periodo nero.

Ora, quanto meno, qualcuno potrebbe, forse, se del caso, magari, chissà, probabilmente, pensare che il 26 luglio la legge bavaglio è stata calendarizzata in discussione alla camera, e che partiremo per le vacanze, e quelli lì con l’aria condizionata a Montecitorio approveranno la vergogna delle vergogne.

Con un pensiero rivolto ai giocatori della Corea del Nord.

Mondiali 2010: quel rompimento di palle della vuvuzela

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Confesso che i Mondiali mi hanno già rotto i coglioni.

Mi resta indigeribile in mal d’Africa che ha improvvisamente contagiato tutti, e non sopporto le vuvuzela o come cazzo si chiamano che accompagnano, rumorose e perfino più noiose di una compilation di cicale alle due del pomeriggio di Ferragosto, la telecronaca in diretta che uno dice "Va bene, adesso chiudo il volume della TV e accendo la radio" e invece vuvuzela anche lì.

Non sopporto i leoni che ruggiscono al tramonto nella Savana (la Savana in Sud Africa? o da quando??), spero ardentemente che l’Italia venga eliminata quanto prima, tifo per la Corea del Nord e sputerei in faccia a Maradona che fa il guappetto perché vince con la Nigeria (no, dico io…)

Come eravamo – 1982

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Poiché altri si sono cimentati nell’esposizione di immagini più o meno imbarazzanti dei propri anni più felici, ecco che ho voluto farlo anch’io, iniziando la carrellata con questo scatto che potrei intitolare “A me Segovia mi fa un baffo”.

Luogo: Jaca, Spagna, sede dei corsi estivi per stranieri dell’Università di Saragozza. Avevo già deciso che da grande sarei diventato professore di spagnolo.

Anno: 1982, l’anno dei mondiali vinti dall’Italia di Bearzot. Qui eravamo ai primi d’agosto, mi pare.

Stavo suonando un pezzo medievale per allietare la serata di commiato perché si ripartiva di lì a due giorni. Ovviamente, dopo essermi rigovernato doppia porzione di paella a la vasca alla mensa universitaria, fatti due rutti mi accinsi a ricordare alla bene e meglio le note della Pavane “Belle qui tiens ma vie” attribuita a Enrico III di Francia, non mi ricordo più se plantageneto o no, fatto sta che mi stava sui coglioni.

Avevo 18 anni, accidenti a me, e questa è la dimostrazione evidente che avevo i capelli, dietro.

PS: Però in compenso ora ho una Ramirez. : - )