Visto che il filone ha preso il via, vi comunico che un flash dell’ANSA ha reso noto che le foto delle presunte percosse e del presunto feto abortito, non sono più raggiungibili sul sito di Anna Laura Millacci.
Questo non vuol dire assolutamente niente, naturalmente. Non vuol dire né che Di Cataldo sia colpevole né che sia innocente, né che quel materiale sia stato sequestrato né che non lo sia stato, né che si sia trattato di una libera scelta dell’intestataria dell’account, né che sia stata costretta a toglierle sulla base della pressione del caso mediatico che ne è derivato, né tanto meno che le foto dimostrano una connessione diretta tra l’immagine rappresentata, le percosse subite e l’autore delle medesime.
Una domanda però ce la possiamo rivolgere: se quelle foto erano vere e legittimamente mostrate al pubblico (limitato o meno ai contatti della Millacci, non importa), che senso aveva toglierle?
Nessuno ci darà mai una risposta, certo. Ma il dubbio… ah, cosa faremmo se non esistesse!
Questa storia delle foto di Anna Laura Millacci ridiffuse in ogni dove sul web ha sinceramente cominciato ad innervosire persino me, che sono notoramente lento all’ira.
I fatti. Anna Laura Millacci pubblica alcune foto sul suo profilo Facebook e accusa il suo compagno, Massimo Di Cataldo, di averla aggredita e fatta abortire. Massimo Di Cataldo ha risposto.
Punto. Non c’è altro.
Le foto fanno il giro del web. Personalmente in questo articolo scelgo di non ripubblicarne neanche una. Il blog è mio e lo gestisco io.
Provocano però una reazione di indignazione a cascata che è interessante analizzare.
Per farlo mi servo di un bell’articolo di Chiara Lalli pubblicato oggi su giornalettismo.com e intitolato “Massimo Di Cataldo, Anna Laura Millacci e il cane di Pavlov”.
Nella sua pregevole analisi, Chiara Lalli cita un intervento su Twitter di Barbara Collevecchio, psicologa e blogger. La Collevecchio scrive: “La moglie di Massimo di Cataldo pubblica su FB foto che dimostrano come lui l’ha pestata a sangue e fatta abortire”.
La Lalli osserva come questo modo di presentare la realtà non corrisponda ai fatti. In primo luogo perché la Millacci non è la moglie di Massimo Di Cataldo (e fin qui transeat), ma anche e soprattutto perché quelle foto non “dimostrano” proprio un bel niente. Non creano, cioè, quel filo inequivocabile che serve per poter sostenere che un effetto è frutto di una causa messa oltretutto in opera da una persona specifica.
Sono d’accordo. Si tratta di un modo brutto e insinuante di presentare dei fatti (altro sarebbe stato se si fosse trattato di opinioni).
I commenti all’intervento di Barbara Collevecchio non si sono fatti aspettare: “un coraggio ed una forza enormi. E lui è un verme”, “spero lo abbia denunciato sto criminale”, “l’ha anche fatta abortire sto leggendo su FB sono shockato” (Facebook preso come fonte di informazione è spaventoso, è come fidarsi di Wikipedia!) “per pura coincidenza proprio da oggi @massidicataldo è su twitter. diamo il via alle danze?” (le “danze” cosa sarebbero? Metterlo alla pubblica gogna direttamente in casa sua??), “un coglione che mena una donna per di + incinta.”
Ma c’è di più. Il post viene retweettato per 54 volte. Per la verità qualcuno a cui la cosa “puzza” c’è: “ma sta cosa va denunciata, altro che twitter… se è vera cosa centrano i sociale network? sono allibito” e “io lo lascerei dimostrare dalle indagini, che dici?”, ma è normale che in una corsa al “dàgli all’untore” la maggioranza sia di quelli che dànno il via alle danze.
Dopo due ore Barbara Collevecchio torna sul tema: “Massimo di Cataldo smentisce la moglie sempre su FB dicendo che si è inventata tutto perché lasciata. Questa storia è un caso clinico”.
E sapete quanti re-tweet ha collezionato: 7!
Per la gente quello che è da amplificare è la notizia, è lo scandalo, è lo schiaffo, è il sangue che scorre, è il feto abortito nel lavandino del bagno, perché, come dice Chiara Lalli “richiede meno fatica di urlare puntando il dito contro il presunto colpevole nelle strade polverose e minacciate dagli appestati. Basta condividere e ritwittare dal divano di casa.”
Del resto neanche la Collevecchio molla l’osso: “questa storia è un caso clinico”. La limitatezza dei 140 caratteri di Twitter non ci dà la motivazione di questa clinicità (non per nulla i “Casi Clinici” sono uno dei libri di Freud più letti anche a livello di semplice fruizione, per cui il termine è entrato nel linguaggio corrente come luogo comune). Per cui resta una mera diagnosi.
Altre domande sono cadute nel vento, come diceva Bob Dylan: come mai la Millacci non ha denunciato alla magistratura il suo compagno, se veramente è l’autore di quelle azioni orrende che gli addebitano? La risposta è semplice, e non sta in quello che si è finora vociferato, ovvero che vorrebbe preservare a sua figlia la possibilità di avere (ancora) un padre, ma perché una denuncia su Facebook è molto più efficace della giustizia umana. Genera una vendetta e una giustizia sommaria immediate, che espongono l’obiettivo alla morte telematica che è peggio di quella civile.
Oggi non importa con quante persone al giorno ti relazioni, importa quanti amici hai su Facebook, quanto ti taggano, quanto twitti. E’ sul web che una persona vive o muore agli occhi della gente.
E a proposito. Sono andato a cercare “Anna Laura Millacci” su Facebook.
Ho trovato questa anteprima che indica il suo stato sentimentale “vedova”.
Non so se sia stata precedentemente sposata e suo marito sia prematuramente defunto.
Ma è matematicamente certo che una persona morta (sul serio o nella mente di chi la ritiene tale) non potrà mai difendersi.