E quel bambino che giocava in un cortile

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enciclopedie

Nel 2012, anno che terminai in un modo che non amo ricordare, cominciai a metter mano a un libro di cui non scrissi che poche pagine. Il titolo, quello, c’era. Si chiamava “Il giardino incantato di Wikipedia”. Il prologo mi venne giù tutto d’un fiato, l’ho riletto e mi è parso che possa avere sufficiente dignità da essere proposto come post del blog. Certo, è passato un po’ di tempo. Ma conservo lo spirito e il titolo di quando scrissi queste righe allora.

Quando ero bambino l’arrivo di una enciclopedia in casa era un gesto sacro e degno del maggior rispetto dovuto e possibile.

I tuoi genitori, con l’aiuto dei nonni e di qualche parente, ti stavano regalando l’Enciclopedia (maiuscolo, perché allora era una categoria dello spirito!). Avevano investito un bel po’ di soldi in un’opera di consultazione che avrebbe dovuto esserti utile “per tutta la vita” (o, almeno, così si sperava), e che costituiva non solo una spesa considerevole per le magre entrate familiari, ma anche e soprattutto un investimento per quello che era il tuo futuro.

Perché il futuro, se nessuno era in grado di prevederlo, lo si poteva bene analizzare con la lente della cultura e del sapere, per cui poteva anche darsi che esistesse, in ipotesi, la possibilità che tu diventassi un perfetto imbecille per conto tuo, ma senza la cultura, senza il sapere, lo saresti diventato certamente.

Per questo ti veniva regalata un’opera monumentale in svariati volumi, perché era come una sorta di viatico, un crisma che ti apriva le porte dell’età adulta e che ti permetteva di entrare in mondi da guardare, osservare, ma, soprattutto, sfogliare e risfogliare a tuo piacere.

Così, sia che avessi la UTET, o la Universo, o anche i “Quindici”, per non parlare della raccolta completa dei “libri delle regioni” (progetto a cui molti ambivano ma che pochissimi, ahimé, portavano a compimento), ogni volta che leggevi, sfogliavi, consultavi, sbirciavi quelle pagine, le facevi anche un po’ tue. Le immagini e i ritratti degli uomini illustri, le fotografie dei monumenti, le cartine geografiche, i dati sull’economia e sulla produzione delle materie prime, le capitali europee, le trame delle opere di letteratura, le foto degli animali di qualunque specie e paese diventavano un tutt’uno con te, come se il ripetere costantemente quei gesti potesse aiutarti a fissare nell’anima, prima ancora che nella memoria, il valicare delle Alpi di Annibale di Cartagine a dorso degli elefanti, l’aspetto severo e compassato di Mao Tze-Tung nelle foto ufficiali, la tomba di Napoleone confinato a Sant’Elena, la forma a bastoncino un batterio-killer, Marie Curie che guardava le provette controluce, i baffi sornioni di Flaubert, il naso aquilino di Dante Alighieri, l’anatomia del piede, la densità della Spagna e della sua capitale, Madrid. O, ancora, il gesto aggraziato della Madonna del Cardellino di Raffaello e la fronte corrucciata di Ludwig van Beethoven, o quella parruccata di Wolfgang Amadeus Mozart, che era morto a 35 anni.

Sentivi, questo è certo, il senso della provvisorietà delle informazioni contenute. Per questo ti capitava, di sottecchi, di segnare la data di morte di qualche personaggio conosciuto, per togliere dall’enciclopedia quell’imbarazzante definizione di “vivente” che la rendeva inattuale. Ma sempre con la matita (mai con la penna, chè sarebbe stato peccato mortale!) e con un segno leggero, a margine. L’enciclopedia era come la vita nella visione cattolica: un dono, sì, ma che non ti apparteneva mai del tutto e di cui non potevi fare quello che volevi, perché un giorno avresti dovuto abbandonarlo del tutto.

Ma intanto che la sfogliavi eri vivo, e imparavi a memoria, come una litania, le sequenze alfabetiche che si stampigliavano in oro sul dorso di ogni volume, e che segnavano i limiti naturali entro i quali vi avresti trovato quello che cercavi. Se sbagliavi volume dovevi rimetterlo a posto e prendere quello successivo. O precedente. E ricominciare.

E ogni volume iniziava con una lista di nomi lunga come la litania dei santi, tutti in ordine alfabetico anche loro, che, poi, erano i signori che avevano scritto le voci che avevi tra le mani. Loro erano il comitato scientifico, erano quelli che sapevano, i professori, o, almeno, gli esperti. Erano quelli che ti avevano trasmesso il loro sapere, e tu li vedevi lì, stampati in corpo minuscolo, e provavi un senso di sottile gratitudine. Dio, quanti erano!

Poi ho conosciuto Wikipedia.