La sentenza della trattativa stato-mafia è come un film in bianco e nero (ri)visto alla TV

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trattativa

E allora è stato definito finalmente da una sentenza di primo grado che sì, la trattativa stato-mafia ci fu, e che Dell’Utri, Mori, Subranni e De Donno debbono essere condannati a 12 anni di reclusione. L’ex senatore Mancino, invece, deve essere assolto. Il teorema regge e le ipotesi cominciano a trovare un fondamento giuridico, una radice profonda nelle sentenze di quei giudici che hanno sostanzialmente accolto l’impianto accusatorio dei pubblici ministeri. E’ stato proprio Di Matteo a dire: “Sanciti i rapporti col Berlusconi politico”. L’ex Cavaliere ha replicato: “Parole di una gravità senza precedenti”. E via schermeggiando.

Comunuque vada, non è una novità. Delle trattative stato-mafia si sapeva già da quando la sentenza contro Giulio Andreotti mise la pietra tombale della prescrizione su eventi antecedenti la primavera del 1980. Eventi che sono stati dimostrati, confermati e vagliati da tre gradi di giudizio. Non era vero nulla quello che urlava esultante l’allora più giovane avvocato Giulia Bongiorno nel comunicare al suo assistito l’esito favorevole della sentenza di Cassazione: “E’ finita, è finita per sempre!” Qui quello che resta per sempre sono fatti comprovati e inaccessibili per il decorrere del tempo dalla giustizia di stato.

In ogni modo, quello di oggi è un film già visto. Un film dell’orrore, s’intende.

Muore Loris D’Ambrosio e non può essere stata colpa dei giornali

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Loris D'Ambrosio

Loris D’Ambrosio è morto d’infarto. Naturalmente è stata tutta colpa dei giornali e dei pubblici ministeri, che negli ultimi mesi avevano dimostrato una particolare pervicacia e ostinazione nei suoi confronti.

Naturalmente in quelle telefonate con Mancino non c’era nulla di penalmente rilevante.

Beh, allora i pubblici ministeri dovrebbero esserne fuori, dato che si occupano di perseguire i reati. Se il reato non c’è stato non può essere colpa dell’avvocatura dello Stato.

Restano i giornali, rei, alcuni, di non aver pubblicato un bel niente sulla posizione di Loris D’Ambrosio nella vicenda Mancino. Colpevoli, e senza regolare processo, gli altri, per aver pubblicato dei documenti riportanti stralci di intercettazioni tra Mancino e lo stesso D’Ambrosio.

Intercettazioni che, si badi bene, non contenevano alcunché di penalmente rilevante.

E allora? Un documento deve PER FORZA essere penalmente non rilevante per contenere delle frasi, delle affermazioni, dei passaggi di interesse pubblico per la vita politica o, più semplicemente, per l’etica di un Paese?

Loris D’Ambrosio non potrà più testimoniare. Non potrà più riferire davanti a un giudice terzo, che ne avrebbe valutato l’eventuale attendibilità, la sua versione dei fatti. Quindi ora restano solo i documenti. Asettiche trascrizioni davanti alle quali giornalisti, politica e pubblica opinione potranno farsi un’opinione chiara su ciò che è successo o, come dicono in molti, su ciò che NON è successo.

Quelle intercettazioni sono una scatola nera aperta, e ora come non mai c’è bisogno di averle a disposizione per ricostruire la verità in mezzo al buio del paese. Si parla di “cordoglio unanime” e di “niente strumentalizzazioni”. Le strumentalizzazioni si combattono con i fatti. Se no, resterà sempre il cono d’ombra che ci legittima, davanti alle carte che conosciamo, ad avere dei dubbi.

Il diritto di critica non può escludere il Quirinale

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Il diritto di critica è espressione diretta di quel diritto alla libertà di parola sancito dalla Costituzione.

Nessuno può essere esente dal diritto di esprimere una posizione critica, così come nessuno può essere esentato dall’essere oggetto (reale o potenziale) della critica stessa.

Diritto di critica non è diritto di diffamazione, anche se troppo spesso “critica” e “diffamazione” vengono confuse in un mix pericolosissimo.

E il diritto di critica non può, a maggior ragione, non riguardare atti, discorsi, pronunciamenti, dichiarazioni alla stampa e aspetti contenutistici di quello che fa il Quirinale, sia nella dimensione della Presidenza della Repubblica come istituzione, sia in quella del Presidente della Repubblica come persona.
Per il semplice fatto che non possono esistere nulla e nessuno, che non siano di un qualche pubblico interesse, su cui non si possa parlare. Esiste, questo è certo, il reato di vilipendio al Capo dello Stato. Ma stiamo parlando di diritti, non di reati (e di reati di opinione si tratterebbe).

Ora, quello della critica è l’esercizio di un’opinione. E le opinioni devono restare ben distinte dai fatti e dai dati che le hanno generate. Ma sono perfettamente legittime. Continua la lettura di “Il diritto di critica non può escludere il Quirinale”