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Ieri eravamo talmente impegnati a valutare gli effetti politici del bianco vestire della Polverini, dei suoi malori, e delle sue dimissioni (pre)annunciate e, si veda il caso, mai rassegnate, che quasi nessuno ha speso due righe sui giornali o in TV per dire che il 21 settembre 1990 venira ucciso il giudice Rosario Livatino.
Noi italiani viviamo in uno stato di perenne amnesia della storia, quella stessa amnesia che rischia di trasformarsi in amnistia, o che, semplicemente, ribalta totalmente i concetti e li distorce in maniera grottesca. Se fossimo in Spagna si parlerebbe tranquillamente di “esperpento”. L'”esperpento” è un concetto letterario introdotto cento anni fa, ma la morte di Livatino grida ancora una istanza di giustizia che va al di là della condanna degli esecutori materiali della sua vigliacca uccisione, che va al di là dell’apertura, un anno fa, del processo di beatificazione del giovane magistrato da parte della Chiesa Cattolica, ma che deve ancora individuare responsabilità politiche e intellettuali per quella morte.
L’appellativo “giudice ragazzino”, lungi dal costituire un moto affettuoso, derivò da una esternazione di Francesco Cossiga:
“Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno…? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta.”
Anni dopo, dalle colonne del “Giornale di Sicilia”, Cossiga chiarì che quelle parole non erano destinate alla figura del giovane giudice assassinato, ma trovò dall’altra parte il netto rifiuto della madre che replicò «Sto molto male e penso solo a curarmi. Non voglio commentare questa lettera perché non dice niente di nuovo».
Niente di nuovo, dunque. Neanche l’indifferenza degli italiani all’anniversario di questa morte.