Una brevissima sulla morte di Davide Vannoni

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C’è stato un generale atteggiamento remissivo di fronte alla morte di Davide Vannoni. Si sa, la morte è pur sempre qualcosa di grave e di solenne, quasi di imbarazzante. Per cui chi muore è come se si vedesse cancellata ogni colpa. E probabilmente (anzi, senz’altro) per l’ordinamento giudiziario sarà così. Era il guru di “Stamina”, la metodologia che prevedeva l’uso di cellule staminali per trattare patologie neurodegenerative, attività che gli ha portato una grande popolarità tra i sostenitori delle cosiddette medicine alternative (ricordo che non esistono medicine alternative, esistono solo alternative più o meno pericolose alla medicina) e in ambito politico.

Purtroppo sotto il profilo giudiziario non gli è andata altrettanto bene. Oltre ad avere un processo ancora in corso a Roma, nel 2005 patteggiò una pena di 1 anno e 10 mesi di reclusione per associazione a delinquere. Nello stesso 2015 risultò prescritto il reato di tentata truffa ai danni della Regione Piemonte per un contributo da 500 mila euro che aveva chiesto e ottenuto nel 2007. Nel 2017 fu arrestato dai carabinieri dei NAS.

Ma, soprattutto, si è visto dare del “ciarlatano” in una sentenza, e la sua metodologia non ha mai trovato un supporto scientifico adeguato. Il trattamento non aveva alcuna validità scientifica ma anche grazie al programma televisivo Le Iene, acquisì una straordinaria popolarità. Una commissione del Ministero della Salute bocciò definitivamente il caso Stamina, ponendo una pietra tombale sulle aspirazioni di Vannoni (che intanto andava in giro su una Porsche) e sulle illusioni di molte persone malate che si sono affidate alle sue cure, le uniche per cui valga la pena, oggi, provare un po’ di compassione.

Ma il cancro non è uno spettacolo

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E’ tempo di outing. Nadia Toffa, Sabrina Scampini, Daria Bignardi, personaggi più o meno pubblici che hanno avuto un tumore (per il 100% donne) hanno deciso di raccontare la loro esperienza attraverso la TV o attraverso una intervista (le più discrete) alla stampa nazionale. Cosa spinga una persona che ha avuto un’esperienza così orribile come la scoperta di un cancro e le relative cure devastanti a metterci la faccia e andare in televisione a parlarne non si sa. Probabilmente è qualcosa che fa bene, che mette a nudo, che vuol dire “guardate, sono qui, con la mia parrucca e il mio fisico provato”, o, forse, più semplicemente, significa “ce l’ho fatta”. A prescindere dal fatto che quella persona ce l’abbia fatta veramente o meno.

Nadia Toffa è stata la prima in ordine di tempo ad apparire sullo schermo delle Iene per dire al suo pubblico (e non solo al suo, evidentemente) che è stata male, ma che in due mesi ha scoperto di avere un tumore, ha fatto la diagnosi, si è operata, si è sottoposta alle chemioterapie e radioterapie di rito ed è clinicamente guarita. Tempi da record, prima ancora di affermare che radio e chemioterapie sono le uniche armi per curare un tumore, proprio lei che fa parte dell’équipe di una trasmissione che ha rivendicato la presunta validità delle cosiddette cure “alternative”, dalle cellule staminali ai frullatoni di aloe, passando per l’Escozul (dalla contrazione dell’espressione castigliana “Escorpión azul”), il veleno degli scorpioni cubani azzurri (poi mi spiegheranno perché proprio quelli cubani, nelle altre nazioni non sono diffusi?), di cui io stesso avevo cominciato ad occuparmi quando la dottoressa Ester Pasqualoni, barbaramente assassinata nel giugno scorso, mi faceva pervenire preoccupanti lettere da La Habana da tradurre in italiano e mi chiedeva aiuto per dissuadere i pazienti che volevano farne uso. Perché c’è gente che ha bisogno di molto più di due mesi, e che arriva alla fine delle terapie stremata e senza forze, altro che parrucchina trendy e buonumore dal tubo catodico (ammesso che esistano ancora televisori col tubo catodico). Perché se prendi l’Escozul e non fai la chemio o la radio poi peggiori e probabilmente muori.

Perché di cancro si muore nella stragrande maggioranza dei casi. Queste donne rampanti, che teletrasmettono se stesse attraverso l’etere, che entrano, “sfondandola”, nella TV e nelle case degli altri, o non hanno idea di quello che è loro capitato (cosa che non voglio neanche pensare) o hanno avuto un gran culo a guarire in tempi rapidissimi e a riprendersi la loro vita.

La Scampini ha riferito: “E’ vero che ti senti una guerriera, e ogni volta che entri in un reparto di oncologia tu hai intorno a te tante guerriere.” Ed è questo che non torna. Questa immagine da guerriera che si vuol lanciare a chi guarda e a chi legge. E’ vero che un cancro si combatte, ma è anche vero che in una guerra molti guerrieri cadono in battaglia e c’è chi non ce la fa a tornare a casa, ai suoi affetti, alla sua famiglia, alla sua attività lavorativa, alla sua vita di sempre, perché bene che ti vada un cancro la vita te la cambia per sempre. Ma come si fa anche solo lontanamente a pensare che “Sì, è vero, ho avuto un cancro, ma adesso è tutto a posto, sto bene, sono guarita, giriamo pagina e facciamo finta che non sia successo niente”? Guerrieri di che? Se mi diagnosticassero un tumore io mi cagherei sotto, altro che guerriero! Vuol dire che queste tre donne saranno mille volte migliori di me, ma che cos’è, un gioco a chi è più bravo o un dramma personale? Il guerriero è quello che sa di poter morire da un momento all’altro nello scontro con il nemico. Perché anche il nemico ha armi molto efficace e ti può uccidere quando vuole. E allora non guarda in faccia a nessuno. Madri di famiglia, bambini, figli, padri, colleghi di lavoro, amici cari. E nessuno che sarà più lo stesso, dopo.

C’è una critica anche per Daria Bignardi. Che riferisce nella sua intervista: “Chi è ammalato considera la propria malattia il centro del mondo, ma anche se ho rispetto per chi sta soffrendo in questo momento, parlare pubblicamente della malattia in generale, o peggio ancora della mia, non mi interessa.” E allora non si sa perché abbia rilasciato pubblicamente informazioni sul suo vissuto, sulla parrucca che indossava (la testimonianza inoppugnabile, per chi ha a che fare con te, che sì, hai avuto o stai curando un tumore), e poi “ Si ammalano milioni di donne, a cui va tutto il mio affetto”. Ma perché, gli uomini non si ammalano di tumore? Nemmeno un pochino di affetto anche per loro?? Il cancro è una malattia squisitamente al femminile? E perché mai? Tutte domande che non troveranno una risposta. Inventeranno una parola come “femminicancro” prima o poi. E farà molti più danni di “femminicidio”, questo è certo, perché avrà per oggetto la donna-guerriero che ce la fa sempre e comunque.

Dicevo all’inizio di questa eccessiva spettacolarizzazione del problema. Ed è vero che non tutti quelli che si ammalano di cancro hanno a disposizione una rete di Berlusconi e un programma seguito come “Le Iene” o “Quarto Grado” (addirittura in prima serata quest’ultimo). Se io mi ammalassi di cancro (già, e perché non dovrebbe capitare proprio a me?) mi riterrei già fortunato ad avere a disposizione un blog attraverso il quale veicolare i miei pensieri e le mie emozioni. E mi chiedo che cosa sarebbe stato se il tumore avesse colpito qualcuno della redazione di “Report” o di “Presa diretta” su una rete del servizio pubblico nazionale. Perché per la gente la televisione di denuncia è solo ed esclusivamente “Le Iene”, e allora la notizia di una malattia a una dei presentatori, giovane, piena di vita, carina e nota per aver scavato nelle magagne della realtà che ci circonda, salvo poi intoppare nel veleno degli scorpioni cubani, è un evento che fa audience sul serio.

Ma il cancro non è uno spettacolo.