L’amore ai tempi dei 75 anni di Joni Mitchell

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Dice Wikipedia in inglese che questa foto è in pubblico dominio. Mah, speriamo sia vero!

 

Joni Mitchell ha compiuto 75 anni, e allora auguri alla Lady of the Canion.

Ero innamoratissimo della sua produzione fino a “Shadows and Lights” compreso, in particolare quel capolavoro che fu “Hejira”, con lei in copertina in una bellisima foto in bianco e nero, bella (e te dàgli con le ripetizioni!) come nessuno. Pezzi come “Coyote” (che cantò dal vivo anche all’ultimo concerto della Band, nel triplo album “The last Walz”), come “Song for Sharon” (“I went to Staten Island, Sharon, to buy myself a mandolin…”), ma soprattutto come “Amelia” (“It was just a false allarm”), che sapete assai voi. Ma anche dischi come “Blue” (tendente al maniaco depressivo, quest’ultimo) e lo stesso “Ladies of the Canion” li ascoltavo spesso (l’etichetta Reprise non mi ha mai tradito).

Ma soprattutto ero innamoratissimo di una fanciulla. Lei probabilmente non lo era altrettanto di me, a quel tempo, o forse sì, non l’ho mai capito, ma sono passati talmente tanti anni che quell’amore dal mancato finale (come lo chiamerebbe il Poeta) è passato in prescrizione. Ogni giorno ero felice di rivederla (quando la rivedevo) e ogni mattina mi sembrava come quella descritta in “Morning Morgantown” di Joni Mitchell. Che finiva con versi come “But the only things I have to give, to make you smile, to win you with are all the mornigs still to live in Morning Morgantown”. Ecco cosa ci voleva, la città (la “Morgantown” di turno) e farla sorridere, così si poteva “vincere” il confronto dell’amore che c’era sì ma forse no. Una missione quotidiana.

Poi il tempo passa e tu a quell’amore che, pure, ti ha preso energie e sentimenti, ci pensi sempre meno. Ma soprattutto ti dimentichi di “Morning Morgantown”, la canzone che nel tuo pensiero le dedicavi tutte le mattine. Anche i sentimenti hanno il loro bravo diritto all’oblio. Ma una canzone?? Cosa c’entra una canzone?? Così, ieri, quando mi hanno detto del compleanno di Joni Mitchell, mi sono rimesso a costruire ad sensum il testo di quella canzone. Non ho voluto usare DioTubo né cercare il testo originale. Penso di esserci riuscito benino.

E in fondo son solo ricordi.

Sui traduttori e i revisori di bozze di David Sedaris

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Mia moglie è un po’ di tempo che ci sta limando sordo con questo David Sedaris, che è uno scrittore-giornalista dotato di uno straordinario e acutissimo senso dell’osservazione e dello humor, per il quale lei va matta, mentre io lo trovo, tutt’al più, gradevole e leggibile, al punto da farmi strappare qualche sorriso qua e là.

In Italia i suoi scritti sono stati pubblicati da Mondadori e ho dovuto rinunciare al mio embargo nei confronti della casa editrice di Silvio “Arnoldo” Berlusconi (speriamo che la buonanima non si offenda per l’accostamento ardito) per motivazioni prettamente coniugali. Parigi val bene una messa.

Quand’ecco che decido di attaccare dal suo “Mi raccomando, tutti vestiti bene” (che a Livorno sarebbe stato tradotto con un “Dio ti guarda, vèstiti ammodino!”), titolo originale dell’opera “Dress your Family in Corduroy and Denim“.

Sedaris oltre ad avere una scrittura fresca e scorrevole strizza l’occhio al suo lettore intitolando alcuni dei suoi scritti brevi (ogni suo libro ne è una raccolta, un po’ come fa la Littizzetto con sedani, le carote, i pinzimoni, i ravanelli e quant’altro, solo che la Littizzetto è ormai ben lontana da tutto quello che ha scritto -anche questa è di mia moglie e mia moglie è un genio-) con titoli di brani o di album fondamentali della sua e mia generazione.

Il primo racconto della raccolta si chiama, in inglese, “Us and them“. Che, voglio dire, è un brano celeberrimo dei Pink Floyd, si trova in “The Dark Side of the Moon” e lo sa anche il gatto che passa davanti casa mia con una provvidenziale lisca in bocca.
Se io leggo la versione originale la prima cosa che mi viene in mente è canticchiare il seguito: “…and after all we’re only ordinary men”.
Se leggo la traduzione italiana “Noi e loro” non mi viene in mente un cavolo di nulla.

Lo stesso dicasi per il successivo “Full House“, tradotto (opportunamente, non c’è che dire) “Carte false”, ma, cavolo, era un disco della Fairport Convention, chi non si ricorda “Walk awile” che apriva il lavoro??

Un altro disco citato è “Hejira” di Joni Mitchell. Un lavoro fantastico. Basterebbero, nell’ordine “Coyote“, “Amelia“, “Furry Sing the blues” e “Song for Sharon” a chiudere la partita. E’ stato tradotto con “Egira” che, probabilmente, più che una traduzione è una traslitterazione (come lo è, del resto, la parola inglese).

In breve, bisognerebbe immaginare queste musiche come sottofondi di quello che si legge, e allora tutto assumerebbe una valenza diversa e più compiuta, ma la traduzione italiana ci allontana dalle colonne sonore di questo sempiterno filmato in super8 che è la scrittura di David Sedaris.

E dire che sarebbe bastato lasciare i titoli inalterati.

Ci sono poi un paio di obbròbri tipografici che vi ammannisco volentiere, giusto per sottolineare che anche il libro viene considerato come un bne di consumo, e allora chi se ne frega dell’ortografia e della grammatica.

Si tratta di un “Be’, ce n’è sarebbe” per “Be’, ce ne sarebbe

e “Un auto” scritto senza apostrofo.

9 euro e 50 per un siffatto tascabile. Dia, dia pure qui…