I pregiudizi e il preconcezionismo occidentali sulla “primavera araba”

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“La primavera araba” è una di quelle espressioni vuote che hanno inventato gli occidentali per definire in maniera frettolosa e approssimativa fenomeni di protesta e di autodeterminazione della gente di Egitto, Libria e Tunisia che hanno radici e conseguenze molto complesse.

Probabilmente qualcuno pensava che a seguito di quei momenti di ribellione contro i tiranni e i dèspoti, Egitto, Libia e Tunisia si sarebbero trasformati in Paesi invasi da hamburger, fast food, Coca Cola a fiumi, e che avrebbero cambiato la loro mentalità e sensibilità sociale e religiosa in una dépendence a stelle e strisce.

E allora ci si indigna, e ci si continua ad indignare che in questi paesi gli Stati Uniti vengano così duramente e pesantemente vilipesi solo perché qualcuno ha avuto l’ardire di fare un film critico su Maometto.
Nel nostro mondo occidentale malato di protagonismo fino alle sue conseguenze più estreme e rivoltanti, non ci passa neanche per l’anticamera del cervello che quello che facciamo passare come “libertà di espressione” non possa e non debba andare a ledere il senso religioso dell’altro.
Non si tratta di “Ultimo tango a Parigi”, per cui l’arcinota scena del burro viene tagliata in nome di un bigottismo di maniera e di un senso del pudore che, anche a quei tempi, in Italia non c’era mai stato. Non si tratta di censura, anzi, proprio del contrario. E’ aperto e malcelato calpestare una sensibilità religiosa attraverso la realizzazione di un lavoro discutibile. La dissacrazione va bene contro i potenti o i politici di ogni razza e colore, non contro un diritto soggettivo della persona, quello di esercitare la propria libertà religiosa e non vedersi diffamati solo per questo fatto. O per il fatto di essere musulmani. Che non vuol dire essere figli di un dio minore, se il dio maggiore è il “vuoto mito americano di terza mano” di cui parlava il Poeta.