Acquisti on line: meglio in un “luogo presidiato”

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Ho fatto un’ordinazione on line. Tutto bene, compro in rete da molto tempo e non ho mai avuto problemi. Solo che nella mail di conferma dell’ordine c’era scritta una cosa un po’ inquietante:

“Per evitare inconvenienti, indichi come indirizzo per la consegna un LUOGO PRESIDIATO, ossia un luogo dove ci sia qualcuno che possa ritirare il pacco, per esempio una casa con la portineria, un ufficio, un negozio ecc.”

Un luogo PRESIDIATO?? Devo chiamare le forze dell’ordine per ritirare un pacco? E poi cosa succede se invece di una casa con portineria, o un negozio, un ufficio o quant’altro ho una “casa-e-basta”? Una di quelle cose che esci la mattina e torni nel pomeriggio e se arriva il corriere e non ti trova ti lascia un avviso così lo richiami per fartelo consegnare quando ci sei? Che succede se uno vive in un luogo non PRESIDIATO?? Non lo possiamo sapere.

Né possiamo sapere a quali “inconvenienti” uno possa andare incontro per il semplice fatto che lavora o che è fuori di casa come sarebbe ed è suo preciso diritto.

Speriamo di essere “presidiato” a sufficienza quando mi spediranno il tutto. Solo che vorrei sapere chi sarà il “Presidente”.

La carica delle 116000 firme sul “Fatto Quotidiano”

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Screenshot da www.ilfattoquotidiano.it

Lo confesso, ho firmato anch’io la petizione de “il Fatto Quotidiano” a favore dei magistrati palermitani. L’ho fatto sapendo benissimo che non sarebbe servito a niente. Non perché, come dice Antonio Padellaro in un editoriale di qualche giorno fa, l’ondata emotiva della solidarietà si sarebbe stemperata nel giro di un amen, complice la calura estiva, no, ma per il semplice fatto che non credo a questo tipo di sondaggi telematici che identificano il mittente solo attraverso un indirizzo e-mail.

Nel mio caso, potrei settarmi un numero infinito di caselle di posta elettronica e “firmare” con nomi fasulli che nessuno andrebbe mai a controllare, basta che quella casella e-mail esista in quel momento e che sia abilitata a ricevere un generico messaggio di ringraziamento.

Con questo non intendo dire che le 116.000 firme ricevute siano tutte farlocche, ma che possono, in ipotesi e anche in pratica, essere falsate nel numero e nella provenienza.

Meglio, dunque, il classico tavolinetto per strada, con qualcuno che autentichi le firme, come per i referendum, o, semplicemente, riportare gli estremi di un documento di identità presentato contestualmente. Si può fare. Così si sa (si saprebbe) che a una firma corrisponde una persona e QUELLA persona identificata. Certo, ci vogliono i volontari e con il web si fa molto prima. Ma ci si espone anche alle critiche e alle firme fasulle.

Dunque ho firmato. Ma non perché mi interessino le sorti di Ingroia e degli altri magistrati coinvolti nel ricorso alla Consulta da parte del Capo dello Stato in quanto persone, ma perché ritengo imprescindibili, da parte di tutti, i principi di verità e di trasparenza quando ci sono delle ipotesi di reato così gravi, nonché il diritto a una informazione completa nei confronti del cittadino.

Firmare sul “Fatto Quotidiano”, insomma, è diventata una “tendenza”. Un po’ come comprarsi l’I-Phone. Solo che tra migliaia di persone che si comprano l’I-Phone per fare i fighetti quello che se lo compra perché effettivamente ci lavora passa inosservato.

Personalmente sono anche un po’ stufo della passerella mediatica offerta tutti i giorni al VIP di turno. Mi fa piacere sapere che hanno firmato, tra gli altri, Barbara Palombelli, Ficarra e Picone, Luca Zingaretti o chi per loro. Anzi, a dire il vero non me ne importa nulla (non credo che loro siamo interessati al fatto che ha firmato Valerio Di Stefano, quello che ha un blog…). Però le pagine si riempono di motivazioni, pensieri, giustificazioni, frasi lapidarie, di accompagnamento, di sintesi sul perché un personaggio di pubblico rilievo è stato spinto a firmare. Ma saranno bene affari suoi? Firmano come privati cittadini o come attori, giornalisti, magistrati, cantanti, soubrettes, intellettuali e affini?

Ogni tanto fa bene leggere il contributo di una signora di 98 anni che allega la fotocopia della carta d’identità a una lettera che spedisce al giornale perché non ha modo di firmare via internet, perché qui come altrove, c’è chi ci mette in gioco il personaggio, e chi si mette in gioco di persona. 

La critica e la trasformazione delle cose

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Immagine tratta da consiglioaperto.blogspot.it

A forza di frequentare Facebook, forum, commentare blog, giornali, singole notizie, intervenire di qua e di là ANCHE sui temi più  stupidi – quindi SOPRATTUTTO sui temi più stupidi, ce li propongono apposta – stiamo finendo per trasformare le cose.

Improvvisamente, forse perché dotati del falso delirio di onnipotenza che la rete ci regala con la pia illusione dell’anonimato, abbiamo abbassato la soglia della sensibilità, per cui scambiamo facilmente una puntualizzazione con una polemica, una rettifica con una minaccia di adire alle vie legali, una critica con una diffamazione e la satira come un delitto di lesa maestà.

La sciatteria dei media è dilagante, e noi ci cadiamo dentro con tutte le scarpe. E’ una tentazione meravigliosa a cui non bisogna wildianamente resistere.
Bene che ti vada ti ritrovi copiato, interpolato, frainteso (come il noto Maestro Italiano del fraintendimento ci ha pazientemente insegnato), quando non ridicolizzato, comunque sempre deformato nel tuo pensiero e nelle tue intenzioni originali.
E’ per questo motivo che spesso si deve precisare, rettificare, cricare, dichiarare il proprio disaccorso, ironizzare.
In un clima di dibattito che, soprattutto su Facebook e sui giornali on line, dovrebbe essere la quotidianità. Voglio dire, la gente che scrive su questi cosi dovrebbe essere abbastanza avvezza a essere contestata, corretta, ribattuta.

E invece no, ce la prendiamo a morte.
Forse perché la rettifica, la contestazione, o anche la semplice precisazione, magari permeata da un velo di ironia, ci obbligano a tornare sulla notizia, su quanto è stato scritto, su quello che non è stato fatto, in breve, sulla nostra personale sciatteria e sul come l’abbiamo impiegata nel momento in cui ci siamo esposti con le nostre idee e i nostri scritti.
Come se volessimo dire “E va beh, non ho detto questa cosa, non ti ho citato, ti ho citato male, ho scritto una cosa senza fondamento, ho massacrato l’ortografia e la sintassi, E ALLORA?? C’è bisogno di venirmelo a dire? Ora mi tocca anche rispondere…”

Scriveva Mario Missiroli che “Una smentita è una notizia data due volte”. Io penso che una smentita possa e debba costituire la leva attraverso la quale una notizia si rivela falsa. O, semplicemente, inesatta. Allora la notizia torna all’attenzione di chi l’ha letta, ma anche e soprattutto di chi l’ha scritta, che deve obbligatoriamente occuparsene. Magari in corpo 10 e in posizione poco visibile perché essere puliti e onesti va bene, ma la polvere sotto al tappeto nessuno la deve toccare.

“Tutta la città ne parla” e il nostro blog

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Screenshot dal podcast di "Tutta la città ne parla"

Oggi la redazione di “Tutta la città ne parla” mi ha contattato per un intervento telefonico.

Ho rifiutato.

Il perché credo afferisca a quella sfera discrezionale e personale per cui si fanno delle scelte e non se ne deve spiegazione a nessuno. Libertà, dunque, o, se si preferisce, “scelte”.

L’edizione di oggi, tuttavia, si è conclusa con una citazione dall’articolo del blog “La distrazione massmediologica di massa e la trattativa stato-mafia”. A questo proposito ho da dire che:

a) l’articolo non si trova sulla pagina Facebook della trasmissione. E’ stato pubblicato solo (credo) sul mio blog e, se del caso, linkato;
b) non è stata citata la fonte di provenienza (nulla di che, solo una questione di trasparenza filologica);
c) l’articolo è stato pubblicato ieri e non oggi.

Comunque il brano citato era questo:
“Io voglio Ingroia non perché mi interessi stare dalla sua parte, tutt’altro, ma, paradossalmente, proprio perché non voglio stare da nessuna parte, neanche dalla sua. Non mi interessa niente se era un pubblico ministero troppo “esposto”, è un suo diritto esternare il suo pensiero, e se lo fa può essere criticato come qualunque altro cittadino. Ma ci stanno togliendo gli interlocutori e il materiale di discussione da sotto al naso.”

La collaboratrice, probabilmente visto che la trasmissione era agli sgoccioli, ha saltato il brano “e se lo fa può essere criticato come qualunque altro cittadino.” Lo ritengo solo un lapsus, ripeto, nulla di voluto, forse solo la fretta. Ma anche come lapsus fa riflettere…

(Dal lettore virtuale di MP3 è ascoltabile l’estratto della puntata di oggi)

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Paola Ferrari si sente diffamata da Twitter e annuncia querela

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Screenshot da www.lastampa.it

Sinceramente non so chi sia Paola Ferrari, e, fino ad ora, non ho avuto nessuna opportunità o interesse ad approfondire questo aspetto.

So che è una conduttrice e giornalista televisiva che si occupa di sport. Personalmente mi occupo di sport come mia moglie si occupa di sistemi liberi e open source. Cioè pochissimo.

La notorietà di questa signora è ulteriormente balzata agli onori dlela cronaca per la sua dichiarazione di voler querelare Twitter per diffamazione («Querelerò Twitter per diffamazione, sono già in contatto con i miei avvocati»).

La diffamazione consisterebbe, secondo lei, in “pesanti allusioni fisiche, insulti riferiti all’età e a presunti rifacimenti estetici”. E aggiunge: “in Italia c’è un grande buco legislativo sui social network. La mia battaglia è contro la diffamazione vigliacca e, soprattutto anonima. Nessuno si riunisce pubblicamente per diffamare o insultare qualcun altro o, se lo fa, per lo meno è passibile di denuncia. Ecco, credo allora che la cosa valga anche per Twitter.”

Ora:

a) in Italia non esiste nessun buco legislativo in materia di diffamazione;
b) in Italia la responsabilità penale è personale, e in tema di diffamazione via web, come in questo caso, la responsabilità penale è personale;

ne consegue che:

c) per i reati di diffamazione risponde chi ha diffamato. Eventualmente (ma proprio eventualmente) Twitter pagherebbe in qualità di “editore”, ma fior di sentenze e giurisprudenza consolidata chiariscono che il provider NON E’ responsabile dei contenuti immessi dall’utente. C’è stata, è vero, la sentenza contro Google Video che crea un pericoloso precedente.

Il punto è che i diffamatori sono anonimi? Non è vero che lo sono. Sono pseudonimi, il che è diverso. La polizia postale, anche in presenza di una querela nei confronti di ignoti, può indagare sui “misteriosi” autori dei tweet molesti e individuarli.

Ma querelare Twitter solo perché attaverso di esso si sono ricevute delle offese è come querelare le Poste Italiane perché ci hanno recapitato una lettera anonima piena di insulti, o querelare Libero (Tiscali, Yahoo, Gmail o chi per loro) solo perché hanno veicolato una mail da cui emergono apprezzamenti pesanti.

Un giorno qualcuno finirà per querelare Internet per il solo fatto che esiste.

Nato ai bordi di Wikipedia

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Il 13 giugno 2012, sulla versione web de “La Stampa” di Torino appare un interessante articolo di Giuseppe Bottero.

Il titolo è La carica dei ‘bugiardi digitali’: la nuvola umana che falsa la Rete.
Ha molto poco, o quasi nulla a che vedere con Wikipedia, ma costituisce comunque un eccellente “specchio” (trattandosi de “La Stampa”) di come l’enciclopedia collettiva più consultata al mondo venga vista e recepita a livello di stampa specialistica. E di come questa ricezione (questa “vulgata”, per dirla in termini di letteratura) attecchisca nell’opinione pubblica.

L’articolo, dunque, si occupa della cosiddetta “fabbrica delle bugie” in rete. Di tutto quel movimento di forum, sondaggi, commenti sui Social Network, e-mail, raccolte di opinioni, che finisce per falsare un dato.
Qualcuno svolge un sondaggio tra i suoi lettori? Bene, si paga la gente perché faccia clic su una opzione del sondaggio in modo che appaia che il pubblico ha votato proprio in quel modo (e con percentuali molto alte).

Dopo una breve ma accurata disanima dei siti web che offrono questo tipo di “lavoro” a un gruppo di cyber-micro-lavoratori evidentemente disposti a tutto pur di guadagnare qualche soldo, nell’analisi di Bottero, vòlta a cercare di smascherare l’industria della bugia in rete in un inciso, si legge:

“Mentre migliaia di ragazzi costruiscono gratuitamente Wikipedia, un manipolo di cyber-precari (parecchio numerosi, in realtà) demoliscono la credibilità del web a colpi di menzogne. Pagate pochissimo, ma in questi mesi non si butta via nulla (…)”

Si tratta di una modalità di vedere Wikipedia molto diffusa. Cerchiamo di analizzarla in modo più dettagliato.

“Migliaia di ragazzi” ricorda l’immagine di un esercito, di una grande quantità di persone. Il fatto, poi, che si tratti di “ragazzi” dà un’immagine di giovinezza molto incoraggiante.
Ma è, appunto, un’immagine, un’astrazione, che non ha quasi nulla a che vedere con la realtà. Le persone che hanno maggiore dimestichezza con la rete sono quelle che se non l’hanno vista nascere, l’hanno almeno seguita nella sua evoluzione di diffusione “domestica”, praticamente dalla fine degli anni ’90 ad oggi. Sono persone che hanno dai 40 ai 50 anni.
Jimbo Wales, il fondatore dell’opera, è nato nel 1966. Chi ha visto internet dopo se l’è praticamente ritrovato già fatto. Un “giocattolino”, quello della rete, che permette a chiunque di divertirsi ma senza sapere che cosa c’è dentro.
Molti “ragazzi” usano la posta elettronica, ma non sanno, ad esempio, che cos’è un indirizzo SMTP, o che esiste un campo POP3, in software di gestione che si chiamavano, si veda il caso, “Eudora” (per la verità non credo che qualcuno continui ad usare Eudora) perché da quando esiste l’ADSL la mail si controlla direttamente via web, o, possibilmente, non la si controlla affatto, perché il suo uso, con l’avvento dei social network e la diffusione degli SMS, è diminuito in maniera netta.
E’ come se in Wikipedia, per immagine stereotipata, esistesse solo il giovane, magari dalle belle speranze e possibilmente disoccupato, che contribuisce al sapere collettivo e universale.
Non esiste l’idea che il grosso dei contributi a Wikipedia, dal punto di vista dei contenuti (ma anche da quello del software di gestione) possa avere un po’ di pancia e un filino di colesterolo. Perché sostituire l’immagine delle “migliaia di ragazzi” con quella di una fiera armata che ha già passato gli -anta non rende l’idea. Si sa, come dice il Poeta, che nella fantasia “gli eroi son tutti giovani e belli”. O, se si preferiscono altri modelli che consiglio un po’ meno, la giovinezza è “primavera di bellezza” per eccellenza. Ma il prodotto non cambia.

“Costruiscono gratuitamente” fornisce a sua volta due idee distinte: il “costruire” è il contrario esatto del distruggere, ha in sé qualcosa di positivo. Anche se, indubbiamente, dal punto di vista strettamente edilizio si può costruire un cosiddetto “ecomostro”. Dunque non è detto che questa valenza positiva sia comune a tutte le accezioni del verbo.
Ma quello dei giovani che “costruiscono” è, a sua volta, un tipo di suggestione che ricorda molto l’iconografia del socialismo reale. Giovani pieni di speranza che vanno a costruire il loro avvenire. Col sorriso sulle labbra, ma, soprattutto “gratuitamente”, ovvero, senza nemmeno essere pagati, al contrario di quelli che vanno a d alimentare il sistema delle bugie in rete, che parrebbero lucrare, oltre che sulla loro personale miseria, anche sulla fiducia che saremmo portati a riporre nei giovani wikipediani (perché la fiducia nei giovani è sacra).

Quindi, da una parte abbiamo i buoni che sono buoni non in quanto tali, ma perché sono giovani, volontari, disinteressati e, soprattutto, “costruiscono” una cosa altrettanto buona come Wikipedia.
Se ci fate caso, quasi chiunque compia un gesto di bontà diventa buono. A meno che si tratti di Bernardo Provenzano o di Totò Riina, il fare qualcosa di buono per gli altri ha sempre una valenza di redenzione.
Dall’altra parte ci sono i cattivi, che vendono per denaro un clic, le loro idee o la loro dignità, e si prestano alla diffusione di notizie falsate o verità che non corrispondono ai fatti.

Per cui, se i cattivi fabbricano menzogne, Wikipedia fabbrica per forza cose vere.
Ma Wikipedia è anche caratterizzata da una forte presenza del cosiddetto “vandalismo”. Notizie false, voci su personaggi inesistenti, incursioni nelle voci per diffamare ora questo ora quell’altro personaggio, litigi in sede di discussione, singole informazioni non rispondenti alla verità, link esterni inseriti per puro spirito pubblicitario. E’ logico che sia così, in una risorsa “enciclopedica” liberamente modificabile da chiunque. Se qualcuno modifica la voce del Tale scrivendo che è un “pirla” è molto probabile che quella modifica resti in linea poco tempo. Ma è possibile che molte persone la vedano, prima che qualcuno si prenda la briga di correggere nuovamente il testo.

“Bravi ragazzi” che stupiscono il mondo. Gli alti sono nati ai bordi di Wikipedia.

Il blog di Beppe Grillo è irraggiungibile e sotto l’attacco degli hacker di Anonymous

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Il blog di Beppe Grillo è sotto attacco dagli “Anonymous” e, al momento, irraggiungibile.

Dal blog ufficiale degli hacker di Anonymous (comodamente ospitato su blogspot.it, la piattaforma di Google) si legge:

“Il semplice fatto che l’accesso alle tue liste sia proibito agli stranieri, che tu sia un populista che cerca di raccogliere consensi senza arte né parte e che per più volte (come da foto) ha magistralmente eseguito il saluto romano al tuo seguito e ai media, sostenendo la politica di repressione fascista, basterebbe per giustificare il perché di tanto accanimento.”

Gli Anonymous che buttano giù beppegrillo.it sono il segnale che la guerra tra poveri ha raggiunto dimensioni ciclopiche. Parole come “populista”, “senza arte né parte”, “politica di repressione fascista” hanno lo stesso greve e lagnoso sapore della critica cosiddetta “maggiore” che viene dai palazzi della paura dei partiti che si sentono tremare la terra sotto i piedi. Un linguaggio più omologato di un cheeseburger, che non stupisce più nessuno.

Ritagliano una fotografia e fanno apparire Grillo come uno che fa il saluto romano. E’ roba da collage di bambini di prima elementare, si taglia un po’ qua e un po’ là mettendo in evidenza quello che si vuole. Solo che in prima elementare ha un senso davvero.

L’hanno cannata di brutto, sia che si tratti di una boutade sia che ci credano davvero.

Mi dichiaro leggermente disturbato di stomaco. E se il mio blog dovesse diventare a sua volta invisibile ora sapete perché.

beppegrillo.it e il fallimento di “Adagio”

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Su beppegrillo.it è successa una roba strana. Nulla di “particolarmente grave”. Solo un episodio che ritengo “particolarmente significativo”.

Nel mese di aprile, Grillo lancia l’iniziativa Adagio, “10 libri di nuovi autori nel corso di un anno, per sostenere il blog arrivato al suo ottavo anno di vita”. Cento pagine a libro. Il tutto costa 57 euro. Va bene, aderisco. Il perché, ovviamente, sono fatti miei, così come i soldi che decido di spendere. Dal punto di vista squisitamente editoriale mi sembrava una iniziativa lodevole perché, finalmente, avremmo potuto leggere testi scritti da persone diverse da Grillo. Che, magari, potevano avere qualcosa di interessante da proporre anche loro. I libri sarebbero stati spediti al ritmo di uno al mese (tranne nei mesi estivi, suppongo, come accade per molti abbonamenti a riviste e periodici). “Adagio”, appunto, anche per dare un senso di auspicabile lentezza digestiva a una serie di argomenti che da Grillo è sempre stata trattata con una inusuale fretta.

Il primo libro avrebbe dovuto essere stato spedito nel mese di maggio. Maggio passa, e il 31 ricevo una nota di credito da Casaleggio Editori in cui mi si comunica che l’ordinativo non è stato perfezionato col pagamento. Col cavolo, ho la ricevuta della carta di credito.

Preparo una raccomandata in cui spiego il tutto. Va beh, dico, la spedirò domani. All’indomani, prima di andare alla posta (privata, perché Poste Italiane non la uso quasi più) ricevo una mail in cui mi si preannuncia che l’iniziativa ha avuto solo 600 aderenti o poco più, che in pratica non ci stanno dentro con le spese, e che i 57 euro mi saranno restituiti direttamente sulla carta di credito. Non ho motivo per dubitare che questo avvenga.

Ma la riflessione va bene al di là dell’accaduto, pur spiacevole.

In un suo spettacolo del 2006 Grillo parlò di una gara di sci sospesa perché le telecamere della TV andarono in tilt e non fu possibile riprenderla e trasmetterla.

Disse anche che se fosse stato per lui quella gara si sarebbe svolta lo stesso, se non altro per rispetto della gente che aspettava a bordo pista assiderata dal freddo.

Ecco, allora perché mai “Adagio” non è stato portato avanti per rispetto di quei 600 e passa utenti che ci hanno creduto e che hanno tirato fuori 5,70 euro a libro?

Capisco che possa non essere conveniente, e odio profondamente fare i conti in tasca alla gente, soprattutto a un genovese, ma su Lulu.com stampare una copia di un libro di 100 pagine con carta standard costa 4,58 euro A ME, che non sono nessuno per avere un prezzo di particolare favore.

 

Siccome si tratta di ben 6000 libri, o, se si vuole, di un ordine di oltre 600 copie alla volta, (ma non è necessario, per ammortizzare le spese si possono ordinare, che so, i quantitativi per i primi tre mesi di spedizione) immagino siano compresi degli sconti secondo la quantità. Quindi, alla fine, ti costa ancora meno.

Poi, certo, ci sono le spese di trasporto e quelle di spedizione al destinatario finale. Ma, porca vacca, la gente ti ha già dato 57×600 = 34200 euro, che te li tieni lì puliti puliti in banca (Banca Etica? E sia, non sono mica razzista!), nel frattempo prendi qualche interesse, ammortizzi le spese, alla fine ci rimetterai un pochino, dico, qualcosina,  ma i tuoi lettori e sostenitori saranno contenti e avranno quello che hanno ordinato e a cui hanno diritto, cioè i libri e un po’ di rispetto.

Sarà per questo che hanno messo la pubblicità di Google sul blog senza dire niente a nessuno?

Il baraccone mediatico di Grillo sta mostrando cenni di inevitabile e sinistro scricchiolio.

Alla parata militare sputò negli occhi a un innocente

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Noi gente del web, noi che teniamo su i blog, che siamo sui Social Network, noi persone più abituate all’http che all’affabulazione da bar, ogni tanto abbiamo idee bislacche e decisamente fuori luogo.

Come quella di annullare la festa del 2 giugno e chiedere che il risparmio sia devoluto alle popolazioni del sisma dell’Emilia, che stanno soffrendo davvero, altro che hashtag di Twitter e “mi piace” di Facebook.

Ci illudiamo, poveri principini dei telecomandi e dell’inutile software di schienza di gucciniana memoria, che i terremotati dell’Emilia siano gli “altri” da aiutare. Come se noi ne fossimo sempre, solo, comunque e definitivamente fuori.
E ci autoconvinciamo di lavarci la coscienza mandando un SMS dal nostro iPhone (perché quello non ce lo facciamo mancare, la parata del 2 giugno la vogliamo annullare, ma guai se ci auto-annulliamo da soli un trespoletto marchiato Steve Jobs da 700 euro e andiamo in giro con un Nokia o un Samsung da 25-30, che funziona lo stesso e allora vaffanculo, e diamo il resto a chi ne ha bisogno) o rinunciando a una festa che regalerebbe ai senza tetto soltanto gli spiccioli, come se la solidarietà fosse dare gli avanzi delle nostre cene luculliane al poveraccio che mendica un po’ di cibo e di sostegno fuori da casa nostra.

Naturalmente, a noi, popolo del web, maniaci del “mi piace”, onanisti del clic forsennato e acritico, non viene neanche in mente che sperperiamo la nostra ricchezza nazionale in una cacchia di missione di guerra in Afghanistan o che, si veda il caso, stiamo per lanciarci nell’avventura più fantasmagorica e nella rivoluzione copernicata delle comunicazioni via terra, la realizzazione della TAV che permetterà a qualche pacchetto di malloreddus sardi, o a una mortadella bolognese, o a una forma di pecorino abruzzese, o a una bottiglia di rhum per ponci alla livornese (così non mi accusate di prendermela sempre con gli altri) di arrivare con mezz’ora di anticipo a Lione, che, notoriamente, è il capolinea del mondo, perché tutto quello che viene prodotto in Italia deve andare a Lione, non ci son santi che tengano.

Siamo noi che stiamo andando giù, inesorabilmente. Se il terremoto de L’Aquila è stato una metafora di quello che stava per accadere il terremoto dell’Emilia è la fotografia implacabile di quello che siamo diventati.

Perché siamo noi quelli lì. Siamo noi i capannoni di cartapesta che vanno giù. Siamo noi le tonnellate e tonnellate di forme di parmigiano reggiano che si accumulano alla sans façon fra tavolacci sgangherati. Siamo noi le torri con gli orologi spaccati a metà, noi che abbiamo perso il senso del tempo, per sempre, e di un’identità nazionale che ha voluto L’Aquila come città da dimenticare mentre il Nord viaggiava in canottiera, sigari, tricolori con cui pulirsi il culo, lavurà, i dané, le lauree comprate in Albania, quell’identità che si era dimenticata che mentre la gente e l’arte sparivano per sempre dai centri storici del paese si continuava ad andare avanti con tonnellate e tonnellate di nipotine di Mubarak.

Siamo noi che ci destiamo increduli da un sonno popolato per troppi decenni da tette e culi di meteorine, per scoprire che L’Aquila o Mirandola sono la stessa cosa, che ci siamo fumati l’impossibile, che abbiamo un territorio da difendere, e senza la sua difesa non esiste più nulla.

E così ci siamo svegliati davanti a tutta questa sofferenza, che è nostra, anche di quanti stasera andranno a dormire nel proprio letto, e pretendiamo di alleviarla con la moratoria della Festa della Repubblica.

Bella idea. Bella idea davvero. Bravi quelli del “popolo del web”! Quando qualcuno penserà di rinunciare al primo maggio per risolvere il problema dell’inflazione non fatemi nessuna anestesia: voglio soffrire fino in fondo.

La pubblicità su beppegrillo.it

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Oggi, come spesso mi accade, sono andato a leggere il blog di Beppe Grillo.

Non ho mai nascosto la mia simpatia per la persona di Beppe Gillo, la sua comicità, la sua intelligenza e la sua capacità politica ed affabulatoria. Non lo farò neanche questa volta.

Ma oggi sul blog di Beppe Grillo ho trovato le pubblicità di Google AdSense e ci sono francamente rimasto male.

Il blog “senza padroni” ha ceduto alle lusinghe della pubblicità “random” di Google, e col traffico che genera c’è da giurare che i clic sui messaggi pubblicitari saranno molti e che porteranno una cifra apprezzabile di introiti, anche se sarà molto difficile, per non dire impossibile, quantificarne, anche solo indicativamente, l’entità.

Voi mi direte: ma il tuo blog e i tuoi siti web sono pieni della pubblicità di Google, perché non dovrebbe esserlo anche quello di Beppe Grillo?

La risposta a questa domanda è che nel mio caso la pubblicità di Google è l’unica fonte di sostentamento perché la mia scelta non è mai stata quella di mantenere un blog privo di pubblicità di qualunque tipo per non aver padroni. Inoltre ho scelto di NON chiedere un soldo a chi mi legge, neanche sotto forma di donazioni volontarie. Non posso vendere e non voglio vendere niente, a parte i libri che scrivo e che pubblico (e quello, caso mai, riguarda il mio reddito personale, non la sopravvivenza delle mie iniziative telematiche).

Beppe Grillo finanzia il suo blog (i suoi avvocati, il suo staff, i mezzi che usa per spostarsi per le campagne elettorali o per gli spettacoli) e le iniziative correlate con:

a) le tornées in giro per l’Italia (e va beh, è la sua professione, son soldi suoi);
b) la vendita dei libri che pubblica (Chiarelettere e Rizzoli, non certo ilmiolibro.it o lulu.com, sia chiaro);
c) la vendita dei DVD;
d) le donazioni liberali per battaglie particolari (un esempio è “Lo scudo della rete”, dove la gente, se la condivide, finanzia l’iniziativa);
e) la vendita (più recente) degli e-book su Amazon

Ora c’è da chiedersi a che cosa (gli) servono i proventi dalla pubblicità di Google?

a) A finanziare il blog? Fosse l’unica fonte di introiti lo capirei.
b) A finanziare il Movimento 5 Stelle? E’ certamente meglio finanziarlo con la pubblicità di Google che con i “rimborsi elettorali” provenienti dal denaro pubblico (che, comunque, Grillo ha dichiarato di non volere), ma dubito che siano sufficienti;

Fatto sta che non è una bella cosa, non tanto per la pubblicità in sé, a cui non sono minimamente contrario, ma per le dichiarate politiche programmatiche del blog, su cui, da oggi (o forse già da qualche giorno fa, solo che io non me n’ero accorto) accanto a “No Tav”, “Siamo in guerra”, “La mappa del potere”, “La Settimana” si trovano le pubblicità del Conto Banco Posta, dei posti riservati nelle università europee per odontoiatria e medicina, giochi da scaricare e braccialettini multicolore.

Dài e dài, alla fine ha ceduto anche lui.

Imbarazzante.

Brindisi: stavolta c’è scappato il mostro!

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E così anche stavolta c’è scappato il mostro.

Nel pomeriggio di ieri in rete sono stati diffusi dati personali, tra cui nome, cognome, indirizzo di posta elettronica e quant’altro possa essere servito ad identificare in maniera unilaterale un individuo, di una persona interrogata dalle forze dell’ordine e non soggetta a nessun fermo, a nessuna indagine e men che meno a un capo di imputazione, ammesso che anche un capo di imputazione sia indizio di colpevolezza, nell’ambito delle indagini per l’attentato di Brindisi.

Sapete, magari somigliava tantissimo a uno che era stato fotografato con le mani in tasca vicino a un chioschetto, e già stare con le mani in tasca è un gesto sospetto. Chissà che cosa può avere in tasca una persona, magari le chiavi della macchina, o quelle di casa, o il portafoglio, o il cellulare, no, via, bisogna assolutamente indagare, è necessario andare a vedere chi è questo qui che si permette il lusso, si veda il caso, di somigliare tanto a una persona ricercata, o addirittura che sia proprio QUELLA persona, che non si sa se abbia commesso o meno il fatto, però intanto lo si interroga e la stampa lo sputtana, così impara a somigliare a qualcun altro, magari a zoppicare un po’, o ad avere altre strane e sospette abitudini come avere un fratello, insomma, a commettere tutta questa serie di azioni sospette che ne fanno, in principio e ab ovo, un poco di buono, o, comunque, un possibile attentatore dinamitardo (certo, un dinamitardo con le bombole di gas, ma non si può pretendere tutto dalla vita) che ha spezzato la vita di una povera ragazza.

La persona interrogata non c’entrava niente. Non era lui.

Ma nel frattempo è stato preso a insulti indicibili sulla sua pagina di Facebook (e quale miglior ragione per essere insultati che quella di non aver fatto niente? Non fare niente di male è un gesto altamente rivoluzionario, perché tira fuori la rabbia che la gente si cova dentro: come ti permetti tu di non fare nulla di male, in modo che io non posa nemmeno trovare un appiglio per vomitarti addosso tutto il mio disprezzo? Come minimo devi andare in giro con un paio di calzini turchesi, come la storia ci insegna), i suoi dati personali pubblicati su blog, siti di giornalisti, periodici on line e di carta, giornali e chi più ne ha più ne metta.

Tutti a fare a gara a chi faceva lo scoop e a chi pubblicava per primo il nome e il cognome del “killer”. Non era vero niente. L’interrogato non aveva nessuna responsabilità, diretta o indiretta con il crimine.

Tra quanti hanno ceduto a questo gioco al massacro, degno del manzoniano “dàgli all’untore”, figura anche Gad Lerner, che sul suo blog sottotitolato “il bastardo” aveva inserito un articolo dal titolo eloquente: “Nome e Cognome il killer di Brindisi”.

Una volta diffusasi la notizia che, cari Signori, non era vero niente, il Signor Nome e Cognome non è il killer di Brindisi, ci sarebbe tanto piaciuto, del resto purtroppo non si possono mettere in galera gli innocenti al posto dei colpevoli, malauguratamente vige questo maledetto principio del diritto per cui la responsabilità penale è personale, se no a quest’ora qualcuno avrebbe dimostrato che le promesse si mantengono, e il Birba sarebbe stato dato in pasto all’opinione pubblica che avrebbe avuto di che sbranarselo a suo bell’agio, una volta, dunque, che il buco nell’acqua era conclamato, l’articolo è stato modificato in una versione più morbida: “Brindisi, dalla procura esce un nome”.

Solo che cercando su Google questo articolo, si scopre che 23 ore prima, esisteva sul blog un articolo con il titolo precedente e non ammorbidito. Ecco lo screenshot:

A nulla è valso il tentativo di Gad Lerner di rivoltare la frittata e inserire nel nuovo e più mellifluo articolo per la rete SOLO le iniziali dell’interrogato che, ripeto, non è mai stato neanche sottoposto a indagine. Gli hanno fatto solo qualche domanda, hanno visto che non era stato lui, fine della storia.

Una vita spezzata dalla macchina del fango, associata per l’occasione in una “große Koalition” di blogger, carta stampata, sistema di informazione, singoli cittadini che prendono Facebook come una pistola e sparano direttamente nel mucchio, ‘ndo’ cojo cojo e tanti saluti a casa. Perché a distruggere la vita delle persone si è sempre pronti, poi, tanto, casomai, dopo si chiede scusa. Cioè quando è sempre troppo tardi.

Naturalmente per gli studiosi e i grandi intellettuali la colpa è della rete. E ci mancherebbe anche altro che non si demonizzasse il mezzo per chi lo usa. Specialmente adesso che è DAVVERO colpa di Beppe Grillo.

Perché parlano di “rete impazzita”, non di “giornalismo-macelleria”.

Flavia Amabile, la giornalista che si è finta undicenne su Facebook

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Flavia Amabile, giornalista de “La Stampa” ha avuto un’idea:  si è finta undicenne, si è iscritta a Facebook, ha guardato un po’ il mondo dei pre-adolescenti di oggi dal buco della serratura e ne ha fatto un articolo giornalistico, apparso oggi nella rubrica “Tecnologia” a cura di Anna Masera (quella che annunciò con una certa soddisfazione “Mistero risolto: non è stato il ministro Fornero a chiudere il sito della Dpl di Modena”, senza tuttavia dire ai lettori CHI stesse veramente dietro alla firma che aveva  disposto la chiusura di quella risorsa).

La tendenza squisitamente giornalistica a voler vedere di nascosto l’effetto che fa non è nuova. In fondo, Flavia Amabile ha fatto quello che fanno tanti genitori oggi, senza necessariamente passare per la strillozzeria giornalistica: hanno semplicemente desiderio, motivo e legittimità di vedere che cosa comunicano i propri figli agli altri. Perché abbiamo paura di questi “social network” che rapiscono i nostri figli che scrivono e fanno, attraverso di loro, quello che vogliono, mentre noi restiamo al palo perché la conoscenza tecnologica ci appare incolmabile.

E quando ammettiamo che i nostri figli hanno una maggiore conoscenza rispetto a noi abbiamo già sbagliato il nostro approccio educativo. Facebook, dunque, chissà cos’avrà mai di così speciale questo Facebook da stregarci tutti, e chissà quali segreti nasconde. O, meglio, chissà quali torbidi segreti potranno mai nascondere i nostri adolescenti. Come scriveva Joni Mitchell in una delle sue liriche più belle: “Everybody’s saying that hell’s the hippest way to go / Well I don’t think so / But I’m gonna take a look around it though.”

Dice la Amabile “Le regole prevedono che si debba avere almeno 13 anni. Le regole prevedono anche altro: autorizzazione se si pubblicano foto di altri, richiesta ai genitori se si tratta di minori, nessun dato sensibile di altri sui propri profili. Ma chi le rispetta?”. Giusto, è un’ottima riflessione, a cui fa seguire una opportuna considerazione sui genitori che fungono da spinta propulsiva all’ingresso nella bolgia del web 2.0 da parte degli infanti.

Non è la risposta ad essere sbagliata, è la premessa che mi risulta poco utile: le regole sono quelle, sì, ma il problema non è quello che prevedono (che nessuno mette in dubbio) ma chi e in quali modi dovrebbe farle rispettare.

Facebook non dovrebbe entrarci niente. Non lo so, non mi sono mai iscritto a Facebook utilizzando un account fasullo (o forse sì, una volta, ma me lo hanno tranciato di brutto), ma sono perfettamente convinto che se Facebook dice che l’età minima per iscriversi sono 13 anni compiuti, e se dall’inserimento della data di nascita questo limite non risulta ancora compiuto, automaticamente non accetta l’iscrizione. La soluzione, dunque, è barare sull’età in modo da “ingannare” il sistema. Ma questa è colpa dell’utente e/o dei genitori, non di Facebook. Immagino che anche la giornalista, pur spacciandosi per undicenne abbia dovuto inserire una data di nascita che la facessse apparire come una ragazzina di tredici anni.

Insomma, se si agisce per volersi fare “tana” su Facebook per vedere chi gioca sporco bisogna giocare sporco un po’ anche noi. Se no che gioco è?

Qualcuno, come è naturale, “abbocca” al “fake” (ovvero al “falso” personaggio). Tra questi un’altra adolescente:

“È una ragazza del foggiano, la chiameremo Luana. A un certo punto mi chiede senza troppi giri di parole: «Chi sei?». Me lo scrive sulla bacheca, e quindi è visibile da tutti. Rispondo semplicemente: «Vivo a Roma, sono in prima media. E tu?». Scompare. La inseguo io stavolta, le spiego la stranezza del mio profilo senza foto: a scuola ci hanno detto che non si debbono pubblicare immagini proprie per evitare problemi, qualcuno potrebbe rubarle e usarle per scopi suoi. Replica con un «vabè», piuttosto disgustato. E quando le chiedo spiegazioni conclude la discussione con un «Chissene». Più chiaro di così.”

E certo che è chiaro. “Luana” ha fiutato l’imbroglio (le ha chiesto chi è, e poi li chiamiamo stupidi e ingenui i pre-adolescenti!) e ha dato poca corda alla sua nuova “amica” che non aveva nemmeno messo una sua foto sul profilo, liquidandola con un “Chissene”. Il “Chissene” non era rivolto alle regole, ma alla mania giustificazionista e moralista della giornalista. A “Luana” non importa niente se i suoi dati vengono usati da qualcun altro. E non vuole dare spiegazioni. E’ la giornalista a essersi posta in modo anomalo: ma chi è l’undicenne che va su Facebook a dire ai coetanei che non si devono mettere le proprie fotografie sul social network? Come minimo viene vista come una rompiscatole ad oltranza e abbandonata al suo destino. Che è esattamente quello che “Luana” fa.

In cinque giorni, prosegue la giornalista, i suoi contatti sono diventati una cinquantina. Beh, neanche poi tanti. Il numero di amici su Facebook è considerato un valore dagli adolescenti, più ne hai più la gente ti vede, ergo, più sei “figo”. Cinquanta contatti sono una miseria, una goccia nel mare per chi, complice la frequentazione delle scuole medie, in poco tempo racimola centinaia, se non un migliaio di “amici”.

Non è chiaro perché questa giornalista, anziché fingere, non abbia fatto un giro di interviste tra i genitori, e, soprattutto, tra gli insegnanti, che spesso si ritrovano involontari protagonisti di fotografie catturate con l’I-Phone e spedite alla velocità della luce su Facebook per il pubblico ludibrio degli amici (come facciano ad avere un I-Phone? Chiedetelo ai genitori!). Avrebbe scoperto veramente l’inferno dell’impotenza, della non capacità a gestire, della resa davanti a pre-adolescenti in costume da bagno che si mostrano come fossero dive conclamate, ragazzini che hanno il filmato porno sullo Smartphone, ricatti, bullismo, violenze (sì, anche quelle!) baby-gang a piovere e una bella granellata di cattivo gusto e menefreghismo a ricoprire il tutto.

Senza contare che Flavia Amabile, quella vera, su Facebook c’è davvero. Oggi ha 1269 “Amici” (immagino li conosca personalmente uno per uno). Lei sì che ha avuto più successo della sua pre-adolescente immaginaria!!

La Cassazione assolve Carlo Ruta: il suo blog NON E’ sottoposto a obbligo di registrazione in Tribunale

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Quest’uomo è stato costretto a subire una delle vicende più dolorose della giustizia italiana connessa al mondo dell’informazione via web.

E’ Carlo Ruta. L’8 maggio 2008 venne condannato in primo grado dal Giudice Penale monocratico del Tribunale di Modica, dr.ssa Patricia di Marco, in quanto imputato “del reato p. e p. dagli artt.5 e 16 della L. 08.02.1948 n. 47, per avere intrapreso la pubblicazione del giornale di informazione civile denominato “Accade in Sicilia” e diffuso sul sito internet www.accadcinsicilia.net senza che fosse stata eseguita la registrazione presso la cancelleria del Tribunale di Modica, competente per territorio per avere il Ruta comunicato al provider Tiscali il proprio indirizzo di posta elettronica in Pozzallo via Ungaretti n.46, con registrazione avvenuta in data 16 dicembre 2003.
In Pozzallo il 16.12.2003 e fino al 07.12.2004.”

La pena è consistita in 150 euro di multa (e non di ammenda, come erroneamente riportato da alcuni organi di informazione).

Nel maggio 2011 la condanna è stata confermata dalla Corte d’Appello di Catania.

Ieri, alle 19,30, la terza sezione della Corte di Cassazione, presieduta dal Dott. Saverio Felice Mannino ha assolto Carlo Ruta perché il fatto non sussiste, senza alcun rinvio ad altro grado di giudizio.

Dal 2004, dunque, un giornalista è stato ingiustamente privato di un indispensabile strumento di comunicazione, come il blog www.accaddeinsicilia.net, che costituiva una fonte di informazione, neanche periodicamente aggiornata, e della possibilità di esprimere il proprio pensiero in quanto la risorsa informatica di cui era titolare è stata sequestrata e resa inaccessibile per tutti questi anni. E’ stato dichiarato colpevole in due giudizi di merito, ed è stato, finalmente, assolto con la formula più ampia.

La sua iniziativa editoriale, dunque NON era “stampa clandestina”, così come previsto dall’articolato di legge (“Chiunque intraprenda la pubblicazione di un giornale o altro periodico senza che sia stata eseguita la registrazione prescritta dall’art. 5, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire 500.000. La stessa pena si applica a chiunque pubblica uno stampato non periodico, dal quale non risulti il nome dell’editore né quello dello stampatore o nel quale questi siano indicati in modo non conforme al vero” -legge n. 47 del 1948-).

Le indagini, con il conseguente sequestro del blog, erano partite con particolare riferimento alla pubblicazione di documenti inerenti l’uccisione del giovane giornalista Giovanni Spampinato, nel 1972

Le domande, a questo punto, sono molteplici:

a) Com’è possibile che due giudizi di merito abbiano ricalcato la stessa sentenza, mentre solo la Cassazione ha riconosciuto la formula piena (ovvero l’insussistenza dei fatti) dopo quasi sette anni e mezzo (ovvero sul filo della prescrizione -che, certamente, Carlo Ruta non avrebbe accettato-) dai fatti contestati?

b) Com’è possibile che a fronte di una sentenza “cassata”, ovvero immediatamente esecutiva a tutti gli effetti il dominio www.accadeinsicilia.net sia ancora invisibile? Per la cronaca il dominio, dal 18.08.2005, ovvero circa sei mesi dopo l’ultimo fatto contestato, è registrato dallo Studio Scivoletto di Ragusa. Ecco la schermata della ricerca su un normalissimo “whois”:

c) Chi risarcirà mai Carlo Ruta della sofferenza patita per due sentenze di merito che sono state annullate e che si sono disciolte come neve al sole davanti alla Cassazione?

d) Il web può ancora avere fiducia nella Giustizia Italiana?

Oltre al danno, la beffa. All’indomani della sentenza della Cassazione, Wikipedia non  ha ancora aggiornato la pagina dedicata a Carlo Ruta. Per cui, per l’enciclopedia on line più consultata e sopravvalutata del mondo, Carlo Ruta, al momento in cui sto scrivendo, e come da screenshot, è ancora condannato in base alla sentenza di secondo grado (oltre allo screenshot è disponibile anche il file .PDF della voce, catturato pochi minuti prima di mettere mano a questo articolo).

carloruta

Ritengo che il coraggio di Carlo Ruta, e la sua determinazione nel difendersi fino all’ultimo grado di giudizio, meritino un po’ più di rispetto, anche e soprattutto dai sedicenti paladini della cultura libera.

valeriodistefano.com compie 10 anni!

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Guardate, vi giuro che me ne stavo dimenticando anch’io. Ma il 25 aprile il nostro valeriodistefano.com compie 10 anni.

E allora, perdinci, concediamoci del sano ed autoreferenziale orgoglio. L’orgoglio di aver cominciato, l’orgoglio di esserci, e l’orgoglio di essere ancora vivi, non solo come entità telematica e luogo della rete, evidentemente.

valeriodistefano.com non è sempre stato così come lo si vede adesso. Partì come un dominio che gestiva quasi esclusivamente caselle di posta elettronica. La “svolta” arrivò nel 2004 con il blog.

Non ho voglia di sbrodolarmi addosso, ma, cazzo, questo sì, ho voglia di condividere con chi legge un po’ di allegria e di soddisfazione per tutto quello che questa esperienza mi ha dato fin qui.

Soprattutto con il blog, valeriodistefano.com è diventato molto più di un’esperienza. Scambiare opinioni con i lettori è stato e rimane un tale privilegio, da riuscire a fare piazza pulita anche del fatto che qualcuno, invano, ha cercato di farci stare zitti. Noi siamo rimasti in piedi. Noi siamo qui.

E se uso il “noi” non è per un vizio cretino da plurale “majestatis”, né, tanto meno, per voler far credere che dietro tutto questo c’è una redazione più o meno fantomatica. Ho fatto tutto da solo. Quello che invece sì, c’è, ed è al plurale, è la partecipazione di chi legge, l’affetto degli amici, lo zoccolo duro di chi è qui ogni giorno per vedere che cosa pubblico (e che non so perché lo faccia, ma lo fa). E’ questo che crea il senso di appartenenza e di pluralità.

Se questa esperienza mi avesse solo consentito di mettere in linea un sito come tanti, probabilmente non ci avrei perso un minuto del mio tempo. Ma mi ha permesso di conoscere, incrociare, leggere e sentire persone. Oppure, semplicemente, di parlare  e di sentirmi ascoltato. O magari no.

Se, infatti, valeriodistefano.com NON E’ soltato il blog, è anche vero che prima o poi ha finito con l’identificarsi con lui.

Le vicende umane e tecnologiche sono state innumerevoli

“In fondo, non devo niente a nessuno”, come scrisse il Poeta.

Ma almeno tre persone le devo ringraziare: mia moglie, che mi ha sopportato con più che quotidiana rassegnazione, il fido Marlenek, che ha regalato a me e alla comunità italiana dBlog, su cui il blog ha girato fino a pochissimi mesi fa (abbi pazienza Daniele, si cambia nella vita…), e Simone Rodriguez, senza il quale tutti questi cambiamenti non ci sarebbero stati.

Tutto questo potrebbe addirittura fermarsi qui, avrebbe un senso perfettamente compiuto. Ma, tanto per cambiare, credo di non averne voglia.

Wikipedia Patrimonio dell’Umanità e gli agnellini a Pasqua

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C’è un gruppo di persone su Facebook che si riconosce nel comune sentire di far dichiarare Wikipedia Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

Sull’ipotesi di Wikipedia come Patrimonio Mondiale dell’Umanità ho già detto qualcosa tempo fa.
Non mi sembra una buona idea accomunare Wikipedia a opere incommensurabili come, ad esempio, il Taj Mahal, ma  ci sono persone che la pensano in maniera diversa. Ed è giusto che abbiano un luogo in cui parlarne. Anche solo una pagina su Facebook.

Di cosa parlano? Di Agnellini a Pasqua. Vanno mangiati? Non vanno mangiati?? La tradizione è tradizione, di latte poi sono ancora più buoni… Il Patrimonio Mondiale dell’Umanità parla di agnellini di Pasqua?? E’ tutto qui???

Per favore, ditemi che l’umanità ha diritto a un patrimonio mondiale i cui sostenitori parlino anche delle proprie convinzioni in merito a quello che sostengono…

Liber Liber: che fine ha fatto Jean Sibelius?

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Il 12 aprile 2011, poco più di un anno fa, sulla mailing list di Liber Liber (liberamente consultabile in rete anche dai non iscritti) appare l’annuncio della disponibilità della Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 43 di Jean Sibelius:

Stesso annuncio anche sulla “rivista di Liber Liber” denominata “Pagina Tre”:

Bene, allora andiamo a vedere che cosa succede andando a cliccare sul link evidenziato negli annunci:

La risorsa (una pagina web in HTML, in questo caso) non è disponibile.

E’ una cosa indubbiamente inspiegabile, nel senso che una risorsa libera, proprio in quanto tale, su un sito che si chiama “Liber Liber” dovrebbe essere liberamente accessibile. Si tratterà sicuramente di un malfunzionamento.

Vediamo che cosa mette il sito di LiberLiber nelle novità del 2011 (la pagina è qui riprodotta anche in formato PDF):

novita2011

E’ strano: una novità annunciata nel 2011 su risorse di pertinenza di Liber Liber NON viene riportata tra l’elenco delle novità del 2011.

Proviamo ad andare a vedere, allora, se la cache di Google ci dice qualcosa di più (anche qui la pagina è riprodotta in formato PDF):

novita2011cache

Qui Sibelius c’è.

Le immagini riportate evidenziano solo quanto si evince nel periodo immediatamente intorno al 12 aprile 2011. Per completezza di collazione, riporto le versioni complete delle due pagine in PDF.

Quindi le indicazioni per raggiungere l’arte di Jean Sibelius sono scomparse dalla pagina delle novità del 2011 dal 4 aprile 2012 (data dell’immagine della cache di Google) ad oggi (17 aprile 2012).

Non c’è traccia, sulla cache di Google, della pagina http://www.liberliber.it/audioteca/s/sibelius/.

Non sappiamo, quindi, se la Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 43 di Jean Sibelius sia mai stata disponibile o meno su Liber Liber.

Una delle poche cose certe che sappiamo di Jean Sibelius è che nacque l’8 dicembre 1865 e morì il 20 settembre 1957.

Anna Masera sul caso DPL Modena: “Non è stata la Fornero a chiudere il sito! – E ALLORA?

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Giorni fa vi diedi conto della inspiegabile chiusura, ordinata con una nota del Ministero del Lavoro, del sito ufficiale della Direzione Provinciale di Modena. Vi rimando a quell’articolo per le considerazioni in merito alle “censure”, vere o presunte che siano, applicate con questa decisione.

Ieri, sul sito web del quotidiano “La Stampa” è apparso un articolo a firma di Anna Masera intitolato “Mistero risolto: non è stato il ministro Fornero a chiudere il sito della Dpl di Modena”, in cui la giornalista ci riporta ampi stralci delle dichiarazioni rilasciate dal Ministro del Lavoro riguardo l’oscura faccenda.

La domanda da rivolgere a Anna Masera, e ci si scusi l’ardire, tanto per cambiare è una sola: E ALLORA??

Prendiamo serenamente atto che NON E’ STATA il Ministro Fornero a ordinare la chiusura di quel sito (che, tra l’altro, nel momento in cui vi scrivo, è ancora oscurato), circostanza che, almeno io, su qusto blog, non avevo considerato neanche a livello di ipotesi, limitandomi a riferire che la nota che ordinava la chiusura veniva dal Ministero (e non è detto, in astratto, che tutto quel che viene dal Ministero sia approvato, in principio e in contenuto, dal Ministro).

Ma adesso che sappiamo che non è stata la Fornero a chiudere quella risorsa web, cosa abbiamo concluso?
Sembra un po’ la vecchia storia del paziente in analisi che dopo dieci anni di cure trova la causa di tutti i suoi disagi: è caduto dal seggiolone da piccolo. Bene, adesso che sappiamo che siamo tutti caduti dal seggiolone e che questo ci ha arrecato un trauma COSA SI FA?? Perché bisognerà pur fare qualcosa per stare meglio, o vogliamo stare ancora a guardarci crescere le unghie dei piedi compiaciuti del fenomeno naturale che si espande lento ma inesorabile sotto i nostri occhi?

Perché il fatto che non sia stata la Fornero a dare quell’ordine non cancella un altro fatto gravissimo, anzi, due: che quell’ordine è stato dato (da qualcun altro, va bene) e che il sito è stato oscurato e che risulta ancora oscurato.

Cosa vuol dire, allora, “Mistero risolto”??

Non è stato risolto un bel nulla, perché non si sa quali fossero, in astratto, ma soprattutto in concreto, i contenuti non in linea con le direttive generali del Ministero, e per i quali è stato chiesto l’oscuramento di TUTTO il sito (è come aver chiesto il sequestro di un intero appartamente perché la moglie picchia il marito con il manico della scopa, invece di provvedere al sequestro del manico di scopa, appunto), e poco importa se l’oscuramento non sia stato completato per imperizia o volontà.

Non è stato risolto un bel nulla, perché resta indelebile ed evidente la circostanza per cui non è la magistratura a chiudere un sito, dichiarando implicitamente che certi materiali in esso contenuti sono illegali o potenzialmente offensivi per qualcuno, ma che è una persona di potere che dispone dei contenuti di un sito.

Ci fa piacere che la Masera abbia intervistato il Ministro Fornero al ritorno dei due giorni delle vacanze pasquali, facendo così un piccolo “scoop” sul caso. Ma è solo un decoro giornalistico, dal punto di vista strettamente fattuale non è cambiato niente, e il “Mistero risolto” non ci incita certo a occuparci di altre cose.

Tutt’al più ci sospinge a fidarci di quel che vediamo e, viceversa, di NON fidarci delle rassicurazioni di ministri, ministeri e giornalisti.

Il Ministero del Lavoro chiude d’ufficio il sito dplmodena.it: il mediaevo prossimo venturo

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Sono notizie di particolare gravità quelle che riguardano la libertà in rete, e che di raggiungono nel bel mezzo della digestione dell’immenso e inconsulto pranzo di Pasqua. Notizie che se non ci venissero date dall’ottimo Guido Scorza (con cui, bisogna che lo dica, una volta per tutte, non sono sempre totalmente d’accordo, ma che ha il grande merito di accendere i riflettori -lui che può- su questioni che dovrebbero destare sociale allarme e civile indignazione, se vivessimo in uno Stato civile) passerebbero dimenticate tra le uova benedette e gli annunci di resurrezione.

Non c’è nessuna resurrezione, no, almeno per  il sito della Direzione Provinciale del Lavoro di Modena, che è stato chiuso d’ufficio con una nota del Segretario generale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, del 5 aprile 2012 in cui si specifica che:

“al fine di garantire una rappresentazione uniforme delle informazioni istituzionali e con riferimento agli obblighi di trasparenza ed ai profili di comunicazione e pubblicazione delle informazioni di interesse collettivo anche per quanto attiene agli Uffici territoriali, si chiede alle SS.LL. di provvedere alla immediata chiusura del sito internet www.dplmodena.it”.

Non mi è dato di sapere in che modo il sito www.dplmodena.it abbia violato quegli “obblighi di trasparenza ed ai profili di comunicazione e pubblicazione delle informazioni di interesse collettivo” di cui parla la nota del Ministero del Lavoro, ma è certo che, per imperizia, superficialità, distrazione o intenzionalità, almeno una pagina è sopravvissuta ed era ancora visibile al momento in cui ho visitato il sito:

Vi si leggono comunicazioni agli utenti come:
– indicazioni alle PA per il contenimento della spesa pubblica
– contributo per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno
– modalità pagamento delle pensioni oltre i 1.000 euro – non in contanti
– presentazione delle domande di indennità di disoccupazione ai lavoratori agricoli dipendentipresentazione delle domande di indennità di disoccupazione ai lavoratori agricoli dipendenti

insomma, tutte cose di una pericolosità estrema, informazioni di interesse non collettivo (il contenimento della spesa pubblica della Pubblica Amministrazione, notoriamente, non interessa a nessuno) e soprattutto disuniformi rispetto agli “obblighi di trasparenza” di cui si parla.

Non sappiamo, dunque, né è dato sapere quali fossero le informazioni che, nel mare magnum della documentazione raccolta dal sito, risultassero in disaccordo o in discordanza con le indicazioni ministeriali che lo hanno fatto chiudere, né se queste informazioni potessero costituire, in ipotesi, un reato.

Quello che sappiamo è che un sito facente capo alla Direzione Territoriale del Lavoro è stato chiuso e risulta attualmente inaccessibile, fatte salve la home page, che riporta l’articolo 1 della Costituzione (nobile decisione, ammesso che sia stata presa dopo la nota di chiusura, ma gli articoli sulla libertà di opinione, espressione e stampa sarebbero stati probabilmente più opportuni) e qualche altro link, purtroppo “spezzato”.

La domanda, tanto per cambiare è sempre la stessa: è giusto oscurare un intero sito con migliaia di informazioni solo perché alcune di loro possono essere ritenute (e con il beneficio del dubbio, si badi bene!) offensive, diffamatorie, illegali oppure, più semplicemente, sgradite?

La risposta, tanto per cambiare, è ancora la stessa: no, non lo è. Non lo è, non può e non deve esserlo. La tentazione di tappare la bocca per sempre a chi dissente su alcuni temi (fondamentamentalmente su quelli che costituiscono dolorosi sassolini nella scarpa di chi pretende di camminare senza claudicare), il chiedere al magistrato di turno, o, come in questo caso, disporre per direttiva che un INTERO sito venga chiuso solo perché ALCUNE delle informazioni che contiene ci sono sgradite è roba da “mediaevo prossimo venturo”. Che, a pensarci bene, non è tanto “prossimo venturo”, ma è già attuale, e presente, e vivo, e il suon di lui.

Solo che è Pasqua e non fa nulla. Ce ne accorgeremo al ritorno al lavoro. O forse no.

Wikipedia: dubbi di enciclopedicità sulla voce “Liber Liber”

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E’ molto tempo che, sul mio blog, non mi occupo più di “Liber Liber”.

Oggi, dopo tanto tempo, mi sento molto più diligente.

Sulla voce “Liber Liber”, da qualche tempo, l’edizione italiana di Wikipedia ha espresso un dubbio di enciclopedicità.
Che vuol dire, in parole povere ma ricche, che qualcuno ha un dubbio che la voce “Liber Liber” abbia effettivamente un interesse “enciclopedico”.

Non abbiamo una esatta definizione di quello che Wikipedia intenda con “interesse enciclopedico” e che cosa, conseguentemente, assuma rilievo di conoscenza per la comunità wikipediana (e, conseguentemente, e per amore o per forza, anche per quella del web) e che cosa no. E’ solo certo che la voce “Valerio Di Stefano” non ha, fortunatamente, nessun valore enciclopedico.

Il motivo riportato è il seguente: “attività encomiabile e interessante, ma nella voce non compare alcuna notizia rilevante o elemento enciclopedico”.

E’ la prima volta che sono d’accordo con Wikipedia.

Il punto è che se l’associazione culturale “Liber Liber”, che è costituita da un gruppo di volontari, che digitalizzano cultura (attraverso scanner, lettori di fonti musicali, registrando audiolibri e video, rivedendo e correggendo il lavoro di altri) e la mettono in linea gratuitamente per quanti ne volessero usufruire, è “enciclopedica” (cioè di interesse precipuo per la collettività), allora lo è anche l’Associazione di Volontariato “Pro Biblioteca Civica”, che, magari, cerca di sensibilizzare la popolazione locale all’uso corretto della biblioteca,  cercando di non farla chiudere o raccogliendo fondi a suo favore. Allora lo è anche il gruppo parrocchiale delle suore che realizza ricami da vendere sulle bancarelle della chiesa per raccogliere fondi per le missioni nello Zimbabwe. Allora lo è anche l’Associazione degli Ammiratori di Lucio Dalla (che non so se esista, probabilmente sì, è solo un esempio, s’intende) che desiderano perpetuarne la memoria e divulgarne l’opera. O tutte le associazioni per la prevenzione del cancro sparse in giro per l’Italia.

Ma, appunto, di interesse enciclopedico possono essere, tutt’al più,  gli argomenti “Lucio Dalla” o “cancro” o “Zimbabwe”. NON le associazioni che agiscono intorno a loro.

Il dubbio, quindi, mi pare più che legittimo.

Nel dubbio, Wikipedia continua a mantenere la voce su “Liber Liber”, anche perché, se no, ci sarebbe sempre la voce “Wikimedia Foundation” da dover giustificare.

Oltre a quella di numerose associazioni di volontariato e senza alcuno scopo di lucro (recentemente ci ho trovato anche la “Associazione Italiana Radioascolto”).

Intanto, però, è incoraggiante che al lettori si manifesti il dubbio che non si diventi “enciclopedici”  solo per aver passato ad uno scanner un’opera letteraria. O per averla letta ad alta voce. O aver mixato un brano musicale. O aver ripreso un’opera teatrale in video e averla caricata su un server FTP.

Qualcuno potrà dirmi: “Guarda che anche alcune delle tue audioletture sono linkate su Wikipedia come risorse esterne”.
E’ vero, c’è qualcuno che ha ritenuto opportuno linkarcele. E qualcun altro che ha ritenuto opportuno mantenercele. O togliercele.
Così come esiste qualcun altro che ha inserito il mio sito controversi.org nella “lista nera” di Wikipedia.

Cosa volete farci, la gente è così.

Ma il fatto che né io sia enciclopedico, né le mie iniziative lo siano è un lusso che posso ancora concedermi.

I “43 anni” (Piazza Fontana – Il libro – Il Film) di Adriano Sofri

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Adriano Sofri ha appena pubblicato in rete un instant-book.

Si intitola “43 anni” ed è un file PDF realizzato un po’ alla meno peggio, dal punto di vista della grafica (il testo non è neanche giustificato a destra, ma qualcuno dei miei lettori mi dirà che conta sempre e soltanto il contenuto, e va beh, allora scaricàtevelo e buon pro vi faccia, cosa volete che vi dica…).

Nel libro, distribuito via internet (cosa che fa abbastanza “in”, ultimamente, bisogna riconoscerlo) e regolarmente protetto da copyright (infatti non esiste neanche una nota in proposito, né una liberatoria da parte dell’Autore, il che lo inserisce implicitamente e di diritto tra le opere protette da diritto d’autore, in breve, sic stantibus rebus, non potete nemmeno darlo a un amico), Sofri contesta l’impostazione storica fornita da Paolo Cucchiarelli nel libro “Il segreto di Piazza Fontana” (Edizioni “Ponte alle Grazie”), e, conseguentemente, quella contenuta nel recente film di Marco Tullio Giordana “Romanzo di una strage”.

Naturalmente è diritto di Sofri, che mi risulta essere un libero cittadino, dire quello che vuole. Mi risulta che una “libera ispirazione” di un film, sia pure a un libro impostato col rigore di un’analisi storica, ancorché non condivisa, possa essere considerata un rifacimento un po’ romanzesco, o, comunque, narrativo, che non pretende di dare una spiegazione che sia storicamente attendibile. Insomma, il film di Marco Tullio Giordana è, appunto, un film.
Come se ne sono fatti tanti su eventi e personaggi che hanno inquinato la nostra storia patria, dalla banda della Magliana al bandito Salvatore Giuliano, senza che nessuno abbia mai messo in dubbio o criticato un’opera filmica solo perché si appoggia su una tesi piuttosto che su un’altra. Proprio perché un film è ALTRO dalla storia.

Sofri è stato condannato in via definitiva per l’omicidio Calabresi. E’ un dato che pesa come un macigno, fermo restando, come dicevo, il suo diritto di dare tutte le ricostruzioni storiche e le interpretazioni che vuole dei fatti di cui è stato, direttamente, indirettamente, o solo moralmente, protagonista.
Gli diamo atto che si è sempre proclamato innocente rispetto ai fatti contestatigli e che, per questo, e coerentemente, non ha mai chiesto la grazia. Solo nel 2009, un articolo del Corriere della Sera riportava una sua frase un po’ inquietante:
«Di nessun atto terroristico degli anni Settanta mi sento corresponsabile. Dell’omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, “Calabresi sarai suicidato”».

Una autoaccusa morale, dunque, ma Sofri ha scontato per intero la sua pena. Gli fa onore, ma non ci convince lo stesso.
Come non ci convince il fatto che Sofri abbia dato del “cretino” a Travaglio, trattandolo da “squadrista”, solo perché in un suo libro (forse il più bello, o, quanto meno il più emotivamente partecipato, “La scomparsa dei fatti”, edito per i tipi del “Saggiatore”) si era permesso di affermare che «essendo [Sofri] condannato per omicidio e dunque beneficiario dell’indulto, lo farà uscire dal carcere tre anni prima».

Sofri mi risulta che abbia collaborato a lungo con Panorama. E che attualmente collabori con “Repubblica” e anche con “Il Foglio” di Giuliano Ferrara. Nel 2002 ha pubblicato il volume “Altri Hotel. Il mondo visto da dentro 1997-2002”. Con Mondadori.

Marmageddon!!

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Si chiama “Marmite” ed è la crema spalmabile più venduta in Nuova Zelanda.

Dopo un terremoto la produzione è stata sospesa dall’azienda che la produce, e la gente è andata in tilt. Non si riesce più a trovare sugli scaffali dei supermercati e la sua distribuzione è razionata a una confezione a persona. Perfino il capo del governo neozelandese ha ammesso di essersi dovuto adattare a questa penuria di crema da colazione.

Ed è un problema. Cazzo, è un problema il fatto che ti manchi un prodotto industriale? Ma se non hai la “Marmite” per fare colazione vai a comprarti un po’ di marmellata di frutta, un po’ di miele, un po’ di sciroppo d’acero, un po’ di burtro di arachidi, un po’ di quello che ti pare, ma non può esistere un paese intero in crisi di astinenza e con l’esaurimento nervoso per una colazione.

Pare che prima di sei mesi la fabbrica non riaprirà, perché deve essere messa in sicurezza. Chissà cosa succederà. Oh, sarà mica una cosa indispensabile alla vita il “Marmite”?? Voglio dire, si può anche mangiare qualcos’altro. Chissà con cosa fanno colazione i neozelandesi. Coi kiwi, con i fiocchi di cereali, con un po’ di latte, con un caffè… Voglio dire, tutte cose che si possono consumare senza troppi sensi di colpa.

Chissà se anche il Primo Ministro si adeguerà.

Pane e audioletture

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Nei giorni scorsi, oltre a questa pagnottona che ha allietato il desco, mi son deciso a sfornare una nuova serie di audioletture (sì, era tanto che non ripigliavo i progetti abbandonati, oggi mi sento assai più diligente).

E’ finalmente pronto l’audiolibro “Eros”, di Giovanni Verga ma siccome che mi pareva brutto assai di lasciarlo così, lèggio lèggio, ci ho messo vicino “La
Giara” di Luigi Pirandello
(non la commedia, la novella, che è di una lettura piacevole che sembra acqua fresca di fonte). Con l’autorizzazione del prezioso Pietro G. Beltrami (per ora vi basti il link del suo sito web, tra qualche giorno ve ne parlerò più diffusamente) sono in linea due poesie di Guglielmo IX d’Aquitania , una di Jaufre Rudel e una di Giraut de Borneil.

I link che vi ho dato sono un po’ disordinati ma tutti egregiamente funzionanti, non avete che da prender ciascheduno la propria fetta.

Libero: “Luca Abbà, il 37enne No-Tav fulminato su un traliccio se l’è meritata?”

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Ecco, per favore, ora ditemi voi che gusto ci trova un quotidiano come “Libero” nel postare un sondaggio d’opinione tra i suoi lettori, o comunque tra tutti coloro che, a qualunque titolo, trovano diletto nel cliccare tra le sue pagine anche le più futili provocazioni, che chieda se Luca Abbà, il giovane 37enne No TAV rimasto folgorato e successivamente caduto da un traliccio della corrente elettrica, se la sia andata a cercare o meno. Anzi, di più, se se la sia meritata.

Ora, cercate di capirmi, non me ne frega niente se questo ragazzo sia un No-TAV o no. E’ salito su un traliccio per protestare, ha beccato i cavi della corrente elettrica e ora è in condizioni disperate per quello che ne è seguito. Cazzo, è una tragedia.

Ma secondo voi la gente se le va a cercare le tragedie? Col lanternino??

E c’è gente che risponde pure: “sì, se l’è cercata!!!” Perché vedrai che se non fosse stato un No-TAV e fosse stato a favore della faraonica opera che servirà a un bel nulla, probabilmente non avrebbe avuto voglia di protestare, se non avendo voglia di protestare non avrebbe avuto nemmeno l’istinto di andare su un traliccio, e se non andando sul traliccio non si sarebbe arrostito con l’alta tensione, e non avendo presop la scossa probabilmente non sarebbe caduto e non sarebbe in coma farmacologico, anzi, probabilmente se si fosse fatto i fatti suoi adesso sarebbe con i suoi cari a godere dell’esproprio dei terreni per farci passare in mezzo un treno di quindici anni fa.

Sono sillogismi che non servono più a nessuno. E’ un modo di fare giornalismo su Internet che fa ormai ribrezzo. O magari “anche no”.

La censura di Facebook e l’inesistenza della libertà in Internet

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Giorni fa ho scritto un articolo sulla censura da parte di Facebook di una foto di una mamma che allatta.

Ho scritto che per me l’immagine di una mamma che allatta non è pornografia, ma se Facebook la considera tale (e non considera indecente la farfallina della Belén) non ci si può far niente, finché si è in casa di Facebook.

Mal me ne incolse. Almeno una volta criticavo Wikipedia, ogni tanto qualcuno mi scriveva, magari per cercare di redimermi.

Adesso è un continuo scrivere, un continuo dichiararsi sdegnati dal mio articolo, una sempiterna solfa per tendere a dire che Facebook non ha alcun diritto di censurare nulla e nessuno e che noi DOBBIAMO starci dentro per forza e protestare. E, naturalmente, io sono un imbecille perché non ho capito questo.

E allora il mondo deve girare alla rovescia. Perché io pensavo che fossero LORO che non hanno ancora capito che la libertà in rete non c’è. Ho fatto l’esempio di Facebook che se domattina si sveglia e decide si staccare la spina ai server mezzo mondo va in paranoia perché non può più mettere “Mi piace”. Ho detto che non esiste un diritto a Facebook, figuriamoci se esiste un diritto a dire quello che si vuole su Facebook!! Sono americani, cosa volete pretendere???

Ecco, ho detto questo.

E la personcina più educata mi ha scritto “Non sono d’accordo!” Qualcun altro mi scrive che è colpa di gente come me se non c’è tolleranza (come se quell’immagine l’avessi censurata io!). Altri mi hanno detto che quello che ha scritto “Repubblica” è solo l’inizio di una storia, però intanto se la prendono con me che ho dato un’opinione e non con “Repubblica” che non ha scritto tutto, e, soprattutto, non ti dicono come stanno le cose dal loro punto di vista.

Ti dicono che “non hai capito nulla”, e beati loro che hanno capito tutto.

E’ gente che pensa di avere libertà di opinione solo perché ha una casella di posta elettronica griffata Hotmail o Yahoo, una di quelle che ti mettono due righe di pubblicità in fondo a un messaggio, o pensano di essere davvero libero perché dopo la chiocciolina c’è scritto “libero.it”. E’ gente che pensa di essere libera perché affida i suoi pensieri e le sue comunicazioni a Facebook o a Twitter, contenitori e raccoglitori di dati incrociati tra le relazioni e i contenuti dei propri utenti. E’ gente che usa Google, che censura i suoi contenuti per la Cina perché fa un accordo con le autorità di quel paese. E si scandalizza perché Facebook oscura due tette che allattano.

Non siamo liberi su Internet, bisogna che ce  lo mettiamo in testa.
Io non sono libero.
Io sono “ospitato” (“hosted”) da Aruba. Pago cinquanta euro l’anno per mantenere questo ambaradan di blog. Pensate che solo in virtù di questo io possa ritenermi libero? Io ho solo sottoscritto un contratto. Se domani, per motivi suoi, Aruba decide di non volermi più tra i suoi clienti mi ridà i miei cinquanta euro e finita lì. Una volta si è verificato un principio di incendio nella sede di alcuni server, per fortuna non è successo niente, ma mezza Italia è rimasta al buio.

Non viviamo in casa nostra, viviamo in un perenne e costante affitto!!

La gente pensava che su Splinder si potesse aprire un blog gratis, poi Splinder ha fatto il bòtto e va beh, ti ha dato la possibilità di salvarti i tuoi dati, ma a un certo punto l’hosting non c’era più e buonanotte al secchio, alle interazioni, alle amicizie, ai commenti incrociati.

Si spegne la luce e finisce la favola.

E la gente se la prende con me. Fàtela finita, adesso, sì??

Quelli di WordPress sono dei signori!

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Adesso parliamo di WordPress.

WordPress è un’applicazione assolutamente m-e-r-a-v-i-g-l-i-o-s-a, ed è esattamente (questo sia detto pei sòliti che non han dimestichezza con le informatiche infernàggini) il prodotto sotto cui è stato recentemente importato (e, sia detto fra di noi, ci gira benissimo) il blog.

Con un minimo (e quando dico un minimo intendo dire proprio un minimo) di conoscenza informatica ve lo configurate in cinque minuti. Un’ora se siete duri pinati o per metterci tutti i plugin che vi piacciono, cercargli un vestitino decente e far apparire tutti i triccheballacche necessari.

Se poi non avete nemmeno quel minimo di conoscenza informatica che serve per cavarvela in cinque minuti, vi iscrivete alla piattaforma di blog messa on line dalla stessa WordPress e avete un blog già confezionato.

Il tutto a costo zero.

Nella prima e nella seconda ipotesi tutto funziona assolutamente a meraviglia. Un orologio. Si può migliorare tutto, certo. Ma intanto funziona in maniera chiara, pulita, trasparente.

Il miglior prodotto che io abbia mai trovato, assieme a RAR (sì, sono un aficionado) e PGP (Dio e Lisbeth Salander lo abbiano in gloria!!).

E’ un progetto open source, basato sul contributo di persone esperte, e il suo motto è “Code is Poetry”. Cosa volete di più?

Sapere come si finanziano, ecco cosa mi piacerebbe. E, magari, visto che il prodotyto ha fatto e fa al caso mio, dare anche un piccolo contributo simbolico, sapete uno di quelli con cui la gente ricopre Wikipedia… ecco, provate a cercare il bottoncino delle donazioni con PayPal (o con bonifico, o un indirizzo a cui mandare un assegno…), oh, NON C’E’.

Non chiedono soldi. Tutt’al più ti vendono un paio di gadgets. Tutto lì.

Il mio amico Simone Rodriguez dice che sono dei signori. E lo sono, sì.

Il sito cocacolla.it chiude per una lettera (di diffida)

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Il sito cocacolla.it è dedicato all’arte, estemporanea, contemporanea, magari un po’ modernòide e stravagante, ma è pur sempre un sito le cui finalità sono evidenti ictu oculi anche a un imbecille come me che di arte non capisco notoriamente una venerata.

Però immagino che il nome rieccheggi il simbolo per eccellenza dell’industrializzazione e la colla che è materiale da costruzione o, comunque, strumento per realizzare opere di un certo valore artistico. Loro lo spiegano molto bene usando concetti come streetart di cui, come ho detto, non capisco assolutamente nulla, ma che dirvi, sarà vero.

Hanno ricevuto una letterina. La Coca-Cola Company ha imposto loro di chiudere il sito, cederle il dominio “cocacolla.it”, sospendere le “pratiche di registrazione del marchio” (capirài…) e cancellare tutti gli account sui social network che rimandassero a “cocacolla.it”. Pena la citazione in giudizio.
E quando la Coca-Cola Company ti cita in giudizio sono cazzi.

Hanno deciso di non affrontare i costi ingentissimi di una causa di risarcimento e il cinque marzo chiudono.

Il comunicato stampa relativo, in formato PDF lo pubblico qui:

comunicato_stampa_ita

ma so già che non servirà a nulla. Se può essere di consolazione, si sappia che i contenuti del sito così come attualmente sono ospitati nell’ancora morente dominio cocacolla.it, probabilmente migreranno altrove. Nell’aldilà della rete, forse.

Copyright: sequestrati scaricolibero.com, filmgratis.tv e ifile.it

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Con un provvedimento operato dalla Guardia di Finanza del Veneto, sono stati posti sotto sequestro i siti scaricolibero.com e filmgratis.tv.

Le accuse, oltre che alla violazione della proprietà intellettuale (art. 171 ter comma 2 e 171 comma 1), fann oriferimento alla ricettazione (art. 648 cp).

L’inchiesta è stata disposta dal Tribunale di Parma.

Con un provvedimento separato è stato chiuso il servizio di hosting ifile.it e il sito Library.nu dedicati alla diffusione illegale di e-book. Il giro di affari si sarebbe aggirato attorno agli 8 milioni di euro.

Il sito di Guido Bertolaso: “Grazie neve per averci aiutato a capire che la Protezione Civile ci serve”

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Grazie neve, per averci aiutato a capire che la Protezione Civile ci serve.

Sono stato tirato in ballo più volte, nei giorni scorsi, nel corso delle varie polemiche che hanno accompagnato l’ondata di freddo e la nevicata eccezionale che ha colpito l’Italia ed anche la sua capitale, creando disagi e facendo vittime in diverse località.

Non ho volutamente detto nulla, nei giorni scorsi, e preferisco fare alcuni commenti, che magari in pochi leggeranno, in attesa della prossima ondata di maltempo che in molti temono peggiore di quella appena terminata la cui gravità e imponenza è stata offuscata dalle diatribe puerili di chi cerca scuse per giustificare le proprie leggerezze, mentre la gente muore assiderata per le strade perché nessuno è andato a soccorrerla, un po’ come per la Concordia.”

(da: http://www.guidobertolaso.net/?p=219#comments)

 

Ringraziamo, dunque, la neve. Anche per averci ricordato che la Protezione Civile non è nulla senza Bertolaso. Francamente ce ne eravamo dimenticati. Anche di Bertolaso, voglio dire.

 

Il blog è di nuovo in linea

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La nuova versione del blog è finalmente in linea.

Avete visto? Non ci è voluto tutto questo gran che. Non si tratta solo di un vestito nuovo, abbiamo proprio cambiato tutto, piattaforma (Dio benedica WordPress!!), server (Dio benedica Linux!!) e quant’altro.

Ovviamente non tutto è perfetto.

Intanto siamo in fase di upload delle risorse principali. Alcuni articoli sono senza immagini, altri sono “troncati”. Per le prime è questione di ore, per gli altri è questione di (molta) pazienza.

Tutto questo è stato possibile grazie alla pazienza e al lavoro di Simone Rodriguez.

La nuova piattaforma si adatterà man mano che saranno inseriti i nuovi post.

Intanto potete controllare le statistiche dei visitatori, le pagine più visitate in assoluto, quelle più visitate del giorno, e molto altro che possa stuzzicare la vostra curiosità.

C’è molta pubblicità. Eh, lo so, ma del resto mica vengo a chiedervi le donazioni!

Per il resto, se volete, mandatemi pure le vostre impressioni, i vostri dubbi, le vostre segnalazioni e i vostri insulti, tanto se mi va li faccio passare, se no vi censuro senza pietà. :-)

Grazie per il vostro affetto.

Il blog si ferma per qualche giorno

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Il blog si ferma per qualche giorno.

Tre giorni? Una settimana?? Dieci giorni?? Non lo so, la piattaforma passa a WordPress e ci vorrà un po’ di tempo e qualche bestemmia in più. Nulla di irrealizzabile, comunque.

Mi auguro di ritrovarvi col vostro affetto di sempre quando avremo indossato il vestitino nuovo per dire le solite cose di sempre.
Una è che Wikipedia non ci piace, l’altra è che NON è la sola cosa che non ci piace.

Bocciato l’emendamento Fava sul copyright in rete

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Il voto contrario a larga maggioranza sull’emendamento presentato dall’On. Fava (Lega Nord) è l’ennesima sconfitta della strategia della repressione rispetto ai nuovi modelli di fruizione e creazione dei contenuti abilitati dalla Rete. La terza sconfitta in pochi mesi. 

Essa arriva dopo lo stop al regolamento censura sul diritto d’autore di Agcom e l’abrogazione del comma ammazza-Blog e ammazza-Wikipedia contenuto nella legge sulle intercettazioni. 

Il voto di oggi conferma innazitutto le nuove importanti ed efficaci possibilità di mobilitazione che la Rete affida ai cittadini, sempre più determinati a far valere i propri diritti interagendo e se necessario contestando direttamente i propri rappresentanti. Ma è anche il segno che esiste una piccola pattuglia trasversale di parlamentari determinati a difendere i valori di una rete libera e aperta. I dati sullo sviluppo del mercato legale rilasciati oggi dimostrano chela strategia repressiva che ha fermato lo sviluppo della Rete in Italia non ha piu’ senso. 

E’ arrivato il tempo di una stagione di riforme che promuovano una piu’ aperta e innovativa diffusione di contenuti creativi e dei dati delle amministrazioni. Con un nuovo approccio l’Internet Aperta puo’ essere un volano di sviluppo, anche tramite la nascita e la crescita di nuove ed innovative imprese.

Dichiarazione di Luca Nicotra, segretario dell’Associazione Agorà Digitale