Cancellierato

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Sull’ineffabile “Huffington Post” è apparso ieri un articolo di Luigi Manconi dal titolo “Difendo la Cancellieri dalla cultura del sospetto”.

Nobile intento. Peccato, però, che il sospetto sia una sensazione personale non suffragata da dati di fatti certi. Se un genitore ha il sospetto che suo figlio fumi deve quanto meno sgamargli sigarette e accendino. O sentirgli l’alito che sa di Monopòli di Stato. Non basta una sensazione.

E infatti quella che sta permeando l’aura del Ministro Cancellieri in queste ultime ore, rispetto al suo interessamento diretto per la salute di Giulia Ligresti, non è la cultura del sospetto. Esiste la registrazione di una telefonata la cui trascrizione è stata messa agli atti di un procedimento perché la destinataria era intercettata. Quindi non si sospetta proprio niente. Quello che è stato detto in quella occasione, dal “ti voglio bene” al “povero figlio” è certificato.

Lo scritto di Manconi, quindi, fa acqua fin dal titolo.

E tanto più quando afferma che “Di fronte a una detenuta che rifiuta di nutrirsi è buona prassi e indice di una elevata sensibilità istituzionale (e umana, il che non guasta) attivarsi per capirne le ragioni e verificare che non stia maturando una incompatibilità con lo stato di detenzione.” Ma senz’altro. Ma dovrebbe dirci Manconi quante volte, in tutti i casi (e non sono pochi) in cui un detenuto rifiuta di nutrirsi questa “buona prassi” e questa “sensibilità” vengono messe in atto dal Ministro della Giustizia in persona che chiama i familiari perché li conosce. La Cancellieri desidera esprimere la sua vicinanza alla famiglia Ligresti in un momento così difficile? Benissimo, prende il SUO telefono, in un momento in cui NON svolge il suo ruolo istituzionale e DA PRIVATO CITTADINO, se non commette reato, e non lo commette, chiama chi le pare. Ammetterà Manconi che l’interessamento del Guardasigilli in persona esula alquanto da quel concetto di “buona prassi” ch’egli invoca. Di un detenuto in stato di denutrizione si occuperanno i direttori delle carceri, i volontari, le guardie carcerarie, i magistrati di sorveglianza. Questa è la “prassi”, almeno quella ordinaria. Se poi quella del Ministro è anche “buona” non lo so.

“(…) la decisione di scarcerare Giulia Ligresti non è stata certo presa dal Ministro o dai suoi uffici, ma – come è giusto che sia, in nome della separazione dei poteri e della indipendenza della magistratura – da un giudice che ha ritenuto di poter attenuare le misure cautelari a suo carico.” Ma certamente. E mi viene anche da osservare che ci mancherebbe altro. Giulia Ligresti è stata scarcerata (anche se mi risulta si trovi ancora in stato di detenzione domiciliare, perché le è stata applicata una pena di 2 anni e 8 mesi, superiore dunque alla soglia per beneficiare della sospensione condizionale della pena) a seguito dell’applicazione della sua richiesta di patteggiamento e da un giudice terzo. Ma questo non è il punto. Il punto è se un Ministro possa permettersi DA MINISTRO di telefonare al congiunto di un detenuto e dire “qualsiasi cosa io possa fare, conta su di me, non lo so cosa possa fare, però guarda son veramente dispiaciuta”“proprio qualsiasi cosa adesso serva, non fate complimenti, guarda. Non è giusto, guarda, non è giusto”. Sono dichiarazioni che fanno tremare i polsi. E che in un altro Paese porterebbero alle immediate e dirette dimissioni del Ministro senza neanche passare dal via. Perché allora sì che sorgerebbe quella cultura del sospetto per cui se un Ministro della Giustizia telefona personalmente ai familiari di un detenuto mettendosi a disposizione per tutto quello che possa fare, allora magari non sta svolgendo il suo compito con le necessarie serenità ed imparzialità.

Non è un giustizialismo populista e forcaiolo quello che vuole le dimissioni della Cancellieri, è un pensiero che si basa su dati oggettivi e incontrovertibili, che esulano da ogni eventuale (e per fortuna non intervenuta) pressione sui magistrati.

In fondo, se non è la cultura del sospetto a trionfare, resta pur sempre in piedi l’italianissimo e granitico “A Fra’, che ‘tte serve?”

Quel “fascistello” che non è in ognuno di noi

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Lucia Annunziata ha pubblicato sull’Huffington Post (realtà editoriale la cui essenza mi è sempre sfuggita, chiedo scusa, sto invecchiando e a certe cose non ci arrivo più) un articoletto (nel senso di “articolo breve e di piccole dimensioni”) intitolato “Non infierirò su Silvio Berlusconi. Perché non sono una fascista”.

Le prime righe recitano:

“So che molti di voi, forse la maggior parte, non sarà d’accordo con quello che sto per scrivere, ma tant’è .

In ognuno di noi esiste un fascistello. È quello che ci fa godere se siamo più belli e più forti di chi ci sta davanti. È sempre lui quello che ci induce a sfoggiare i muscoli, a esercitarci contro quelli più deboli di noi – i vecchi, gli stupidi, i brutti, i poveri, i neri, le donne, i gay… la lista è infinita.

Ma il fascista più fascista di tutti è a mio parere quella pulsione interiore che ci fa infierire sui nemici vinti.”

La consapevolezza di non essere condivisa fa onore alla Annunziata, ma l’onore finisce qui. E da qui in poi comincia l’onere di avere scritto.
All’affermazione secondo cui “in ognuno di noi esiste un fascistello” (la retorica ricorda il “Fanciullino” pascoliano, per cui “È dentro noi un fanciullino”) verrebbe da risponderle che non può dare definizioni generiche. L’idea di un fascismo ingenerato nell’uomo, quasi fosse una sorta di innesto posto in essere da una ingegneria genetico-ideologica non può essere sostenuta. Per nessuno.

Così come non può essere sostenuto come un “infierire sui nemici vinti” l’inopportuno messaggio su Facebook pubblicato ieri da Vito Crimi. Io stesso l’ho stigmatizzato. E’ inopportuno, appunto, fuori luogo, e perfino inutile parlare delle condizioni di salute, vere o supposte, di Berlusconi (questo è l’argomento di cui si parla nell’articolo).
Ma è inopportuno perché non c’entra niente con quello che avrebbe dovuto essere discusso in Giunta, ovvero la decadenza o meno del Berlusconi.
Si trattava di vedere, in altre parole, se Berlusconi dovesse perdere la sua carica di senatore per la condanna subita o no. Punto.
Ma lo scrivere (o riportare) quei contenuto non sono un atto fascista. Sono, tutt’al più un atto di imbarazzante e certamente non giustificabile ingenuità. L’irresistibile tentazione si prendere un telefonito, sditeggiare, oppure forwardare e mettere tutto quanto a disposizione della gente che magari poi ti dice anche “Bravo!”, l’idea che in rete si possa fare di tutto, la convinzione che è possibile dire qualcosa e farla franca, con conseguente linguaggia al compagno di giochi. Ma che sia fascista/fascistello proprio no.

Conclude la Annunziata:

“Ma soprattutto non infierirò su Silvio Berlusconi, perché non sono un maramaldo, non amo i bulli, non mi piacciono le feste sul corpo degli altri. Non sono una fascista, insomma.”

C’è solo da ricordare a Lucia Annunziata che i calci ai cadaveri di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi appesi per i piedi a Piazzale Loreto non li hanno certo dati i fascisti.