Bambole, non c’è una lira

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Come avete visto le pubblicità di Amazon sul blog sono durate poco (anzi, pochissimo). Hanno ricevuto, questo sì, migliaia di clic (grazie!) ma sfortunatamente nessuno di questi accessi è stato talmente generoso da ordinare qualcosa sul gigante delle vendite on line, e darci la possibilità, così, di far sopravvivere il blog con le percentuali sui proventi degli articoli venduti. Insomma, le percentuali sono: clic 3584, vendite 0. Uno squilibrio troppo abissale per continuare a mantenere certi contenuti. Se quei 3584 clic fossero stati fatti sui contenuti di Google AdSense (che vedete adesso sul blog) a quest’ora non dico che sarei ricco ma vedrei la sopravvivenza economica del blog sotto un’altra e più positiva prospettiva. Quindi si torna ai santi vecchi. Sarà questione di centesimi, ma è sempre meglio di niente. E in più ve lo meritate!

Google: il diritto all’oblio non può essere applicato a livello globale

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Nel 2016, la Francia, attraverso la Commissione Nazionale Informatica delle Libertà (CNIL) aveva condannato il motore di ricerca più usato nel mondo a pagare 100.000 euro per la mancata rimozione di alcuni link a livello mondiale. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha dato ragione al colosso informatico sostenendo che il diritto all’oblio riguarda solo gli stati membri dell’Unione Europea e non può avere un effetto di portata mondiale sui motori di ricerca.

Amazon sponsorizza il blog

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Da qualche ora, ve ne sarete accorti, compaiono sul blog le pubblicità di Amazon. La velocità di caricamento è notevolmente migliorata rispetto alle risorse fornite dal precedente Google AdSense (che non ho dismesso del tutto, solo che ha un posto di secondo rilievo nell’economia generale del tutto), e anche la visualizzazione risulta migliore e più fluida. Non è strettamente necessario avere degli sponsor per il blog, ma visto che ha un costo annuo notevolissimo trovo che se riesco ad ammortizzare qualcosa è tutto di che guadagnato. Non mi illudo di “farci i soldi” (finora con Google AdSense riuscivo a malapena a gestire i costi annui di tre siti), spero solo di ricavarci qualcosa per poter sopravvivere sotto il profilo meramente e biecamente economico. Per cui se siete intenzionati a fare un’ordine da Amazon prima passate dal blog, cliccate su uno dei banner pubblicitari che vedete e poi procedete normalmente. Così facendo farete in modo che una parte delle commissioni del vostro ordine vada a finire nelle mie tasche e, quindi, a sponsorizzare il blog. Così è che funziona. Speriamo bene.

Wikipedia oscura (ancora) i suoi contenuti per salvare il diritto d’autore in Europa. Ma loro non ne saranno toccati.

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Oggi chi abbia visitato almeno una pagina in italiano di Wikipedia si sarà certamente visto rinviare su una pagina nera tipo quella che riproduciamo qui. Il 26 marzo (cioè domani) “il Parlamento europeo voterà su una nuova direttiva sul diritto d’autore. La direttiva darà agli editori il potere di limitare la diffusione di notizie e titoli in ogni sito altrui (articolo 11). Costringerà inoltre quasi tutti i siti ad analizzare preventivamente ogni contributo dei propri utenti per bloccarli automaticamente se non autorizzati dalle industrie del copyright (articolo 13).” La pagina invita, inoltre, a scrivere al proprio deputato al Parlamento Europeo, per pregarlo di non votare questa direttiva, o per rendergli noto che non è possibile appoggiare un qualsivoglia testo di legge che contenga i suddetti articoli 11 e 13.

C’è un “ma”, Questa normativa non si applica a Wikipedia. Con tutto il baccano che hanno fatto nelle passate occasioni in cui il Parlamento Europeo ha messo mano alla normativa sul diritto d’autore, Wikopedia se n’è completamente dimenticata. La norma salvacondotto per i wikipediani non sarà toccata dal voto di domani, Lo sanno benissimo, tant’è che scrivono “Nonostante Wikipedia possa non essere direttamente toccata da queste norme, il nostro progetto è parte dell’ecosistema di internet.”.Classico esempio di ambientalismo telematico. Siccome alcune specie animali rischiano l’estinzione (si legga: alcuni siti possono essere colpiti dalla nuova normativa) allora noi protestiamo per preservare la vita sulla terra, tanto viviamo tutti nello stesso ecosistema. Ma camperanno bene lo stesso, loro, ne sono consapevoli e fanno una protesta di una durata relativamente breve e limitata. Intanto, a rimandare alla pagina di cui sopra sono solo le versioni in italiano e in portoghese. Nulla appare nella Wikipedia francese, in quella inglese, in quella spagnola e in quella tedesca. Eppure mi risulta che anche Francia, Spagna, Irlanda, Austria, Germania (tanto per fare dei nomini) siano interessate dalla stessa normativa in discussione e in approvazione domani. Eppure se ne sbattono allegramente i coglioni. Perché? E, soprattutto, perché la protesta durerà solo fino a domattina, 26 marzo, alle ore 8.00 del mattino? E’ molto semplice, perché se si prolungasse oltre poi Google e gli altri motori di ricerca penalizzerebbero Wikipedia nelle loro indicizzazioni interne. Ed essere ai primi posti di Google è un privilegio troppo irrinunciabile, anche per una causa tutto sommato nobile. Quindi niente paura, da domattina tutti davanti al PC per vivere, visualizzare, navigare e usufruire di Wikipedia come è e come era prima (cioè sostanzialmente una schizofrenica rappresentazione della realta). Il Parlamento Europeo voterà (o respingerà) la legge, ma loro non faranno assolutamente nulla se le normative dovessero essere (definitivamente) approvate. Tutt’al più ricominceranno a mettere dei banneroni per chiedere un po’ di quattrini. Ma anche a quelli ci siamo, più che abituati, assuefatti.

Che senso ha la pubblicità nel blog?

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Avrete notato che sul blog ho reinserito gli spazi pubblicitari di Google AdSense. Non ci sono perché mi piace mettere la réclame per ogni dove, ma perché i clic fatti su quegli annunci contribuiscono a far sopravvivere il blog sotto forma di pochi centesimi per volta. Non vado orgoglioso di questa scelta, ma blog e classicistranieri.com cominciano a costarmi una bella sommetta l’anno, per cui cerco di riprendermi qualcosa con questo sistema. Cercate di ricordarvene ogni volta che passate di qui per leggere qualcosa.

La lobby di Wikipedia vince ancora

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Cattura

Così tutto è finito a tarallucci e vino. Il Parlamento Europeo ha votato a larga maggioranza l’approvazione della Link Tax e delle altre norme di riforma del copyright ma ha lasciato fuori dall’applicabilità di questi articoli di legge i “progetti collaborativi”. In pratica Wikipedia.

Era già tutto largamente previsto, tant’è che nel mio post di ieri avevo già largamente profetizzato (scusate se me la tiro un po’) che Wikipedia sarebbe uscita perfettamente indenne dalla tenzone per cui aveva addirittura minacciato il pericolo di chiusura.

Google, Facebook, Yahoo e altri giganti del web dovranno pagare un giusto compenso ai rispettivi editori per gli estratti dai giornali on line che pubblicano. Wikipedia no. Wikipedia è al di là della stessa legge, non può essere toccata, non deve essere interrotta nella sua infinita produzione di informazioni (spesso anche senza senso logico, o con grammatica e ortografia incerte), non può sborsare nemmeno un centesimo delle copiose donazioni dei suoi utenti per pagare quello che utilizza. E’ incredibile ma è così.

E questa lobby ha messo le mani su qualcosa di molto più grande della cultura, ha messo le mani sulla conoscenza. Siamo arrivati all’assurdo di credere che tutto ciò che non è scritto su Wikipedia non esiste e questo è di una tristezza somma.

Scriveva Eduardo: “‘O tiempo d’e ‘llacreme è fernuto. Mo’ è tiempo ‘e core mosso e faccia tosta“.

Un’altra brevissima (ma importantina) notizia dal blog

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Allora, pare proprio che la prossima versione del browser Google Chrome penalizzerà, evidenziandoli come NON SICURI, tutti i siti che si appoggiano sul tradizionale protocollo http://. Per ovviare a questo problema, ed evitare così che il blog venga penalizzato dal motore di ricerca, ho generato un certificato SSL. Non chiedetemi di che cosa cavolo sto parlando perché non lo so nemmeno io.

Fatto sta che, adesso, il blog può essere raggiunto anche dall’indirizzo (più sicuro) https://www.valeriodistefano.com.

Ecco, ve lo volevo solo dire.

Lavori in corso

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Nei giorni scorsi, ve ne sarete resi conto, il blog è stato a tratti irraggiungibile per via di alcune manutenzioni di ordine tecnico (sissì).

Come vedete ho eliminato (sarà la terza o la quarta volta che lo faccio, ma sento che questa è la volta buona, come direbbe Renzi) la pubblicità di Google. La mia pigrizia mi avrebbe imposto di lasciarla, ma si trattava di un contenuto ormai troppo invadente (dal punto di vista dell’occupazione dello spazio) ma soprattutto poco redditizio: dai 20 ai 90 centesimi di euro di media non sono neanche il caffè al bar della colazione. E la mia libertà di opinione vale molto di più (Adsense di Google mi filtrava i contenuti per vedere se erano confacenti alla pubblicità che programmavano su queste pagine). Senza contare che io non bevo caffè e non faccio colazione al bar.

Altra eliminazione importantina è stata quella del banner di Feedjit, anche quello piuttosto severo in termini di risorse di privacy. Certo, non è un segreto se arrivate su questo blog da una ricerca di Google, se ci venite tutti i giorni, o se lo fate grazie a un link di un’altra ricerca (ed era proprio questo tracciamento che Feedjit permetteva). Ma in fondo non serviva a nulla. E va beh, d’accordo che mi piacevano le bandierine.

Volevo anche cambiare il vestitino del blog. Questo lo mantengo perché è semplice e sobrio, ma mi ci vorrebbe qualcosa che sia un po’ più friendly con gli smartphone, magari intanto che ci sono smanetto un po’ però stavolta il blog dovrebbe essere sempre visibile. Se così non dovesse essere abbiate pazienza, mi sto facendo un ballino di cazzi miei.

Chi giustizierà Wikipedia?

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Su “Internazionale” è apparso un breve articolo di Giulia Zoli (grazie a Valeria Cicerone per averlo segnalato). Riguarda “il giustiziere di Wikipedia”, come si evince dal titolo, tale Bryan Henderson, a.k.a. Giraffedata.

Impresa titanica del suddetto sarebbe la correzione di circa 47000 occorrenze della forma “comprised of”, che è sbagliata ma che ricorre piuttosto frequentemente nella Wikipedia inglese.
Henderson è l’autore di un software specifico dedicato a correggere le pagine di Wikipedia che riportano l’errore. Giulia Zoli segnala che “Ogni domenica, prima di andare a dormire” il Nostro lancia il programma che va a scovare le immondizie grammaticali e le riconsegna sotto forma di humus organico, nuova vita per rigenerare le pagine indebitamente sporcate. Perché poi “ogni domenica” non si capisce proprio. Se uno lo lancia di mercoledì cosa succede, non funziona?

Quello che ci fa interrogare davanti a tutto questo è cosa ci sia di così straordinario in tutto questo da meritare le gucciniane “due colonne su un giornale”. In fondo che cosa ha fatto Bryan Henderson? Solo un “Trova e sostituisci”, che per un informatico non dovrebbe nemmeno essere niente di particolarmente difficile. Invece no: Giulia Zoli conclude chiarendo che il software è stato realizzato “per combattere la sua crociata grammaticale. E la vostra qual è?

Io. tanto per cambiare, non ho da promuovere una crociata nei confronti di Wikipedia, per il semplice fatto che Wikipedia non è depositaria del Santissimo Sepolcro, per cui non ho da liberare alcunché.
La presenza di errori grammaticali e di ortografia è indice della scarsa affidabilità del mezzo. Il fatto che sia affidata all’improvvisazione degli utenti, poi, mette a repentaglio l’affidabilità dei contenuti. La community che la gestisce è una sorta di Grande Inquisizione davanti alla quale qualsiasi obiezione decade, perché non si hanno da difendere i contenuti delle pagine, ma la presunta autorevolezza di chi procede alla loro supervisione (spesso sbagliando e recando un danno ai lettori).

Sarebbe bello che il web tornasse alla condizione pre-Wikipedia, quella in cui ognuno poteva inserire una pagina su un dato argomento e quando non c’era il cannibalismo informatico delle prime posizioni su Google.

Ma Wikipedia c’è e ci tocca riderne.

Per Wikipedia il diritto all’oblio è immorale

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Alla fine la montagna di Wikipedia ha partorito il topolino di una definizione lapidaria. Il diritto all’oblio è immorale, dunque. Lo ha affermato Jimmy Wales ieri a Londra durante la conferenza Wikimania (che non so cosa sia, ma qualche cosa senza dubbio sarà). Ecco l’estratto dalla notizia ANSA di cui vi ho dato l’anteprima: “La storia è un diritto umano e una delle cose peggiori che una persona può fare è tentare di usare la forza per metterne a tacere un’altra. Sto sotto i riflettori da un bel po ‘di tempo. Alcune persone dicono cose buone e alcune persone dicono cose cattive. Questa è storia e non userei mai un procedimento legale come questo per cercare di nascondere la verità. Credo che ciò sia profondamente immorale”.

Ci si riferisce al fatto che Google abbia ricevuto oltre 50 richieste per rimuovere link di voci da Wikipedia (per l’Italia quelle su Renato Vallanzasca e la Banda della Comasina) per presunta violazione del diritto all’oblio, e alla dichiarazione di Lila Tretikov, direttore esecutivo della ricca e potente Wikimedia Foundation, secondo cui “la Corte europea ha abbandonato la responsabilità di proteggere il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni“.

Sono esternazioni totalmente inaccettabili e da respingere decisamente al mittente, anche se il mittente è Jimmy Wales. Anzi, tanto più perché il mittente è proprio lui.

La storia è senz’altro un diritto umano, come dice Wales. Ma non tutti i fatti che riguardano una persona hanno a che vedere con la (sua) storia. Sulle voci italiane di Wikipedia ci sono centinaia di pagine che contengono notizie di un qualche processo conclusosi con l’assoluzione dell’interessato. Ora, di una assoluzione non c’è traccia neanche sulla fedina penale di un individuo, perché mai dovrebbe rimanere sull’enciclopedia più antioblio del mondo?
Per cui, certamente l’assoluzione di Gustave Flaubert per la pubblicazione di “Madame Bovary” è storia (non perché passata ormai in cavalleria con gli anni, ma perché ha segnato una fase della storia del sapere), ma non lo è certamente, ad esempio, quella di Lelio Luttazzi, la cui posizione fu addirittura stralciata dopo un arresto di 27 giorni per traffico di stupefacenti.
Fu un errore giudiziario clamoroso, e sarebbe pieno diritto dell’interessato, se fosse ancora vivo, ottenere la rimozione del link alla sua pagina di Wikipedia da Google. Perché parlarne ancora? Perché chi cerca notizie su di lui si deve imbattere in quella circostanza? Perché una notizia, solo perché vera, deve ancora perseguitare un povero disgraziato fino alla morte e anche oltre in un’enciclopedia?
Questa non è storia, è pettegolezzo, è voglia di rimestare nel torbido, non aggiunge niente alla conoscenza di un personaggio e della sua vita, non è determinante. E Wikipedia è il più grande “casellario giudiziale” esistente sul web.

E’ evidente che “il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni” non può andare a cozzare con il diritto ad essere dimenticati, e a non essere più descritti come quelli che si era un tempo. Non esiste l’informazione “assoluta”, esiste un’informazione che deve essere adeguata alle circostanze che cerco. Ce l’hanno insegnato le nostre maestre delle elementari: se sto svolgendo una ricerca per stabilire la discografia di Bruno Lauzi dovrò per forza inserirvi l’informazione che ha inciso “La tartaruga”, una canzone per bambini, proprio perché non posso omettere questo dato. Ma se sto svolgendo una ricerca sul ruolo di Bruno Lauzi tra i cantautori genovesi (Paoli, Bindi, Tenco) certamente questo è un dato che non mi serve, nemmeno a livello di curiosità spicciola.

Che poi cosa intenda Wales con “mettere a tacere” una persona non è chiaro. Ci sono persone che si sono rivolte a Google (che è UN motore di ricerca) perché elimini i link a delle informazioni presenti sul web, in modo che, nel cercare qualcosa, non si abbia più accesso diretto a quella informazione. Ma quella informazione (ad esempio su Wikipedia), resta. Non è stato chiesto a Wikipedia di cancellare dei contenuti, ma solo a Google di eliminare la possibilità di raggiungerli.

E’ questo che è immorale? Francamente c’è poco da crederci. Di per certo Wikipedia continua a restare nella a-moralità di una terra di nessuno in cui ognuno fa un po’ quello che gli pare, calpestando dignità e diritti solo perché una notizia è vera.

Laura Boldrini: Guten Hashtag!

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Non ci sono più parole per raccontare le reazioni verbali e non di Laura Boldrini di fronte alle presunte offese che le giungono.

Infatti, se da una parte le espressioni rivoltele possono far legittimamente pensare a un’intenzione diffamatoria, dall’altra i suoi pasticci telematici prestano il fianco a una interpretazione quanto meno pretestuosa dell’indignazione dimostrata davanti a quelle espressioni suppostamente denigratorie.

Beppe Grillo ebbe, giorni fa, a definire la Boldrini “un oggetto di arredamento del potere, non è stata eletta ma nominata da Vendola”.
Ora, indubbiamente sentirsi definire “oggetto di arredamento” sa molto di soprammobile e può ferire e urtare la sensibilità personale. La Boldrini avrebbe avuto tutto il diritto di rivolgersi alla magistratura per vedere se quelle parole sono o non sono un’offesa o se sono frutto (come io sono convinto) del diritto di critica di Beppe Grillo.

Ma la Boldrini ha contrattaccato, e l’ha fatto sul web, attraverso il suo account Twitter: “Grazie alle parlamentari di diversi partiti per la solidarietà contro un’offesa a tutte le donne. Grazie a chi sta twittando #siamoconlaura”.

Facile la contromossa: “Le critiche sono rivolte a lei, non alle donne italiane. Si vergogni di usarle come scudo per la sua incosistenza.”

Al che, inspiegabilmente, la Boldrini cancella il suo intervento su Twitter. Che viene comunque ripreso da svariate testate giornalistiche, il TG1 in testa. Viene anche ripreso dallo stesso blog di Grillo, ma col passare delle ore viene a mancare sempre di più la fonte diretta. Nessuno, in breve, che si sia preso la briga di “fotografare” il post prima della sua cancellazione. E le notizie riportate di seconda mano sono sempre un po’ antipatiche.

Sono riuscito a ritrovarne tracce sicure, perché il post originale è, purtroppo, stato cancellato anche dalla cache di Google.

Ma andando a cercare proprio su Google la stringa “solidarietà contro un’offesa a tutte le donne” (l’ultima parte dello scritto della Boldrini) si trova che l’intervento, ancorché cancellato, è stato regolarmente indicizzato:

(clicca sull'immagine per ingrandirla)

Qui potete vederlo in versione più ingrandita:

I riferimenti sono chiari, c’è l’indirizzo web dell’account della Boldrini e c’è anche il numero di riferimento del post. Il testo è proprio quello, così com’è stato riportato.

Su Twitter i toni si sono un po’ smorzati (Grazie ai gruppi della #Camera per il sostegno in aula non tanto alla mia persona, ma all’Istituzione che rappresento – Grazie a chi ha firmato una nota di solidarietà nei miei confronti e ai tanti che stanno retwittando)

ma su Facebook la Boldrini rilancia: “Così tanti attestati di vicinanza e solidarietà oltre a farmi piacere sono la prova che chi voleva offendere me ha in realtà offeso tutte le donne. Fuori e dentro la Camera.” In breve, si arroga il diritto di rappresentare tutte le donne (“fuori e dentro la Camera”, ci tiene a precisare, come se ci fosse differenza), anche quelle che possono essere d’accordo con Grillo e, quindi, non sentirsi minimamente offese.

Non esiste la diffamazione di genere e la Boldrini non ne è l’emblema. Abbia almeno la compiacenza di non parlare anche in nome di chi non si sente rappresentata da lei.

Cinquanta sfumature di occorrenze

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Cinquanta sfumature di grigio

Qualcuno di voi mi ha segnalato “Grafemi” il blog di Paolo Zardi e, nella fattispecie l’articolo “Cinquanta sfumature di grigio – oh!”

L’autore analizza il romanzo “Cinquanta sfumature di grigio” (best seller mondiale dello pseudo erotismo preferito dal pubblico femminile) e lo fa in un modo, a suo dire, altro e originale: analizzando le occorrenze delle singole parole nell’intero testo mediante l’ausilio di un programma informatico. Ovvero cercando di leggere il testo non come una mera sequenza analogica ma andando a ritrovare quelle parole chiave che, sparse nel testo, costituiscono ossessioni (volontarie o involontarie), ripetizioni o vere e proprie parole-spia che possono suggerirci una analisi più approfondita di un autore, all’interno di un suo singolo lavoro (un romanzo, come in questo caso) o della sua intera produzione.

Scrive a un certo punto Zardi: “Ora, invece, è possibile, con un semplice programma (che possiedo solo io: me lo sono scritto con le mie mani)…”

Ora, il programma che ha scritto Zardi può darsi benissimo he non lo abbia nessuno. Forse lo ha scritto a suo esclusivo uso e consumo e non ha voluto darlo a nessun altro. Più che legittimo, ci mancherebbe altro.
Ma non è l’unico software che genera un elenco di occorrenze partendo da un  testo dato.
Il più conosciuto è DBT (Data Base Testuale), di Eugenio Picchi, dell’Istituto di Linguistica Computazionale di Pisa. Lo usai nel periodo 95-97 per la mia tesi di laurea.
Lo si può avere gratis scaricandoselo e chiedendo il codice di sblocco all’ILC stesso.
Poi c’era un programma molto bello, realizzato dal Prof. La Greca dell’Università di Salerno, si chiamava “Verbum”, era arrivato alla seconda edizione ma aveva un difetto, funzionava sotto DOS. Così quando il putiferio Windows 9X e seguenti si fece strada il programma ebbe vita breve. Ma funzionava bene. Ce l’ho ancora e in emulazione DOS-ambiente Linux va che è una scheggia.

Questo per quel che riguarda quel che c’è in Italia (e da svariati anni, ormai).

Quel che c’è da rimproverare a Zardi, ictu oculi, è il fatto di aver condotto l’indagine sulla traduzione italiana del romanzo e non sulla sua versione originale.
Non ho motivi di dubitare della fedeltà del traduttore all’originale di questo testo tanto severamente imprescindibile per la letteratura di ogni tempo e paese, però è possibile che una forma inglese sia andata a confluire in una forma diversa italiana, proprio perché la traduzione non è un’operazione per cui “a X corrisponde sempre Y” (se no avrebbe ragione Google Translator).
Altra obiezione da rivolgere a Zardi è quella di aver analizzato solo le occorrenze delle parole e non le concordanze. Voglio dire, sarà vero che una delle forme di interiezione più ricorrente sia “Ah!” (79 volte) ma un conto è che si riferisca alla sfera sessuale (come è più che prevedibile), un conto è che significhi “Ho capito!”

Son piccole cose, per carità. E non vale nemmeno la pena dirle per due trombatine editoriali.

Che PIPA!! Sempre la solita SOPA…

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In rete, come nella vita, le cose belle vivono solo un giorno. Come le rose.

Fino a non più di 24 ore fa si parlava del coraggio e della determinazione del Comandante De Falco, fino a 24 ore fa la gente inventava magliette con su scritto "Vada a bordo, cazzo!" e oggi l’argomento è passato in secondo piano, chi ha fatto quella maglietta ci ha depositato sopra un po’ di sudore di ascelle, l’ha schiaffata in lavatrice e poi l’avrà ripiegata nell’armadio-hard-disk dei ricordi. Non è più di moda.

La "serrata" per 24 ore della Wikipedia inglese, con il conseguente oscuramento delle sue pagine, viene annunciata come un successo planetario, un auto-oscuramento che, finalmente, ha smosso le coscienze dei legislatori americani e ha sensibilizzato l’opinione pubblica sul pericolo che l’approvazione di leggi come e SOPAPIPA potrebbe far ricadere sugli utenti del web e sulla loro libertà di opinione, discussione o critica.

Peccato che non sia stato un oscuramento.

Nessuno si è preso la briga, ad esempio, di cancellare temporaneamente i contenuti e di rimetterli in linea il giorno successivo. Sapete cos’hanno fatto? Hanno semplicemente agito attraverso un javascript. Voilà, c’est l’unique question, scriveva Albert Camus.
Claudio Leonardi, un bravo giornalista de "La Stampa", se n’è accorto e ha pubblicato un articolo dal titolo "Crumiri del web, come aggirare lo sciopero dei siti" [1], in cui, ricordandoci che i javascript possono essere tranquillamente disabilitati dal nostro browser, perché, si veda il caso, possono essere responsabili di visualizzazioni di pubblicità indesiderate "che possono infastidire l’utente, se non qualche operazione più maligna."



Bastava, dunque, disabilitare i javascript nel nostro browser. Leonardi spiega anche come fare, e lo fa il tre righe: "Se si utilizza Firefox, cercate i menu Strumenti/Opzioni/ Contenuti. Lì si trova la voce da disattivare. Se si usa Internet Explorer, poco cambia: il percorso da fare è Strumenti/Opzioni Internet/Sicurezza, e una volta lì, chiedete… Su Google Chrome, minime varianti."

Un altro uovo di Colombo citato da Leonardi è l’utilizzo della cache di Google. O di Kiwix, uno di quei software che permettono di portarvi Wikipedia appresso, chè certamente c’è gente che lo fa.

Insomma, uno sciopero-non sciopero che non ha fatto del bene a nessuno. Se non a Wikipedia e a Wikipedia Foundation, naturalmente, che da questa iniziativa ha tratto un bel po’ di visibilità.

Scrivono:

"More than 162 million people saw our message asking if you could imagine a world without free knowledge."

"For us, this is not about money. It’s about knowledge." [2]

Ora, 126 milioni di persone non sono uno zuccherino. Ma lasciamo perdere, non è il dato numerico ad essere interessante di per sé (in Italia milioni di persone guardano Mediaset…), è il fatto che per loro "non si tratta di denaro, ma di conoscenza" che stride con i fatti. Il porsi come limite minimo per la sopravvivenza una cifra sempre maggiore, che durante le ultime vacanze natalizie si è limitata a superare la cifra di soli venti milioni di dollari, non mi pare esattamente un puntare sulla conoscenza anziché sul denaro. Sì, lo so che ripeto sempre la stessa solfa, ma è anche vero che Wikipedia ogni anno chiede sempre più donazioni agli utenti.

E ne ripeto anche un’altra di solfa, così, magari, mi autoincenso anch’io davanti a quattro o cinque lettori: gestisco sette biblioteche on line, fra generaliste e specifiche di settore. Non ho mai chiesto un centesimo a nessuno. Fine dell’autoincensamento. [3]

La cultura non
fa sciopero. I quattrini sì.

E siccome un javascript non è costato un solo centesimo di dollaro, Wikipedia si è permessa lo sciopero.

Ma vediamoli da vicino questi "scioperanti". Il sito www.soprastrike.com ha pubblicato la lista intera dei siti che hanno aderito alla protesta e all’oscuramento. Ce ne sono due versioni, la lista completa [4] e quella dei "confirmed participants", sulla home page [5].
Nella lista completa ci sono molti indirizzi di account Facebook. E va bene, e allora? Vuol dire che alcuni utenti oscureranno la loro pagina Facebook,  e ammesso che sia possibile farlo con un messaggio di sensibilizzazione, tutto sommato mi sembrano un numero estremamente esiguo.

Tra i "colossi" figurano i siti di Michael Moore e Peter Gabriel. Immagino che la rete possa resistere 24 ore anche senza di loro.

Come al solito, in rete come nella vita cosiddetta "reale" (come se quella della rete fosse "irreale", poi!) c’è chi batte i denti, chi prende il ritmo e chi ci balla sopra.


PS: Il titolo di questo post è frutto della poliedrica creatività di Andrea Lawendel che ringrazio.
 

[1] http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/tecnologia/grubrica.asp?ID_blog=30&ID_articolo=9990&ID_sezione=38
[2] https://www.valeriodistefano.com/public/wikipediathankyou.pdf
[3] http://www.controversi.org/donazioni.htm
[4] http://www.sopastrike.com/on-strike/
[5] http://www.sopastrike.com

Sognava di essere posseduta dal demonio: cerca l’interpretazione del sogno su Google

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Sì, lo so, l’immagine è talmente piccola che non si legge, ma ne trovate una con risoluzione maggiore, e più o meno a grandezza "naturale" a questo indirizzo.

E, comunque, ve la racconto io.

Da una connessione Internet di  Linenhurst, New York, nella mattinata del 22 ottobre scorso, è arrivato sul mio classicistranieri.com  (che si occupa di cultura, non come questo blog che si occupa solo delle cazzate che scrivo io) un accesso di una persona (verosimilmente di sesso femminile, ma non è detto) arrivata lì, non so tramite quale risorsa, attraverso una ricerca su Google della seguente stringa:

"cerco risposta io quando avevo 8 anni in su sognavo che il demonio mi violentava e io godevo che significa"

Ho provato a effettuare di nuovo la ricerca, ma non ci sono riferiemnti diretti al sito. Fatto sta che l’accesso c’è stato.

Quello che preoccupa è che la gente usi la rete anche per cercare spiegazioni più o meno esoteriche o divinatorie ai sogni.
Non si va su Google per cercare delle informazioni e sapere quali sono le fonti (attendibili o meno non importa) che possono darle, ma ci si va per interrogare un motore di ricerca come se fosse un esperto del paranormale, e per avere una "recta interpretatio" di un sogno dal contenuto raccapricciante ma dagli effetti evidentemente non del tutto sgradevoli.

La gente cerca queste cose, e mi chiedo che cosa possa avere pensato quella persona nel piombare su un sito di cultura. Che dire? Speriamo che quello che ha trovato possa esserle stato utile.

Google e l’indicizzazione del Giornalino di Gian Burrasca

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Allora dunque, vediamo un po’, sempre per la serie “Son soddisfazioni” gettiam ordunque il guardo su Google, che ha sempre delle sorprese mica male, e digitiamo la stringa “il giornalino di Gian Burrasca”, dalla quale ci aspettiamo venir fuori ogni sorta di informazioni sull’opera di Luigi Bertelli, detto Vamba, della quale diedi una lettura vocale che ha riscosso un certo successo e che e’ ancora reperibile cliccando qui: www.ilgiornalinodigianburrasca.it.

Sei giorni fa, ho ripostato l’audiolettura anche sul nuovo

Wikipedia ha raggiunto i 16 milioni di dollari di donazioni volontarie

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Hanno pianto, si sono impuntati, hanno spiegato che Wikipedia, nel 2011 non avrebbe potuto continuare ad esistere se non avesse avuto il conforto di 16 milioni di dollari di donazioni da parte degli utenti (appena il doppio della cifra richiesta per sopravvivere senza pubblicità nel 2010), e alla fine ce l’hanno fatta, i 16 milioni, grazie a chi ha deciso di contribuire, sono in saccoccia a un gruppo di persone che stabiliscono che un  nerd sia legittimato a credersi più autorevole di un professore universitario.

Jimmy Wales, che aveva pubblicato il suo appello per chiedere ai suoi utenti di contribuire alla creatura collettiva, tira un sospiro di sollievo e afferma che anche quest’anno Wikipedia non farà ricorso alla pubblicità.

E ci credo, con 16 milioni di euro ti puoi permettere un server in oro zecchino, come la bara di Michael Jackson, col mouse tempestato di brillanti, porti a cena  un figone spaziale che se le allunghi qualche  banconota frusciante ti dice anche "ti amo, voglio essere tua per tutta la vita!"

Sembra che con una parte dei proventi saranno pubblicate delle magliette che poi saranno vendute dietro una donazione minima di 25 dollari.

Anche questa è roba mica da ridere, sapete? Insomma, se io dono 25 dollari o qualcosa di più mi compro una maglietta.

Ma se regalo una cifra di denaro poi come faccio a pretendere qualcosa in cambio? Una donazione è una donazione, io ti do dei soldi senza che tu mi dia nulla, una donazione non è un do ut des.
E se per avere una donazione devo promettere una maglietta, allora mi conviene aprire un negozio on line perché c’è qualcosa che non funziona, la gente mi deve dare i soldi perché crede in quello che faccio, non perché le prometto qualcosa in cambio, fosse anche solo la magliettina per andare a fare il ganassa con gli amici perché credi in Wikipedia e tutti lo devono sapere (già… perché tutti lo devono sapere?).

Poi mi son voluto togliere uno sfizio. Su Wikipedia in italiano c’è la pagina delle donazioni. Cosa ci sarà scritto?

C’è scritto che posso donare del denaro mediante PayPal (ok, è il mezzo di trasmissione del denaro più utilizzato in Internet), mediante Moneybookers (che non è così diffuso, ma è decisamente meno caro) oppure… oppure con un bel bonifico bancario.
Infatti trovate il codice IBAN che fa capo a Wikimedia Italia.

La banca di appoggio è una filiale di Unicredit Banca con sede a Mogliano Veneto.

Ora mi sono detto: che cosa scrive Wikipedia alla voce "Unicredit Banca"?

Pronti: "Unicredit è stata coinvolta in un’inchiesta della trasmissione Report, in cui si accusa la banca di aver fatto sottoscrivere ad aziende private ed enti pubblici dei contratti, detti derivati, contenenti costi impliciti che i clienti inesperti non sono in grado di calcolare." (…) "Secondo la trasmissione, la Consob ha multato Unicredit Banca d’Impresa per mezzo milione; Unicredit impugnerà il provvedimento."
E ancora: "Organizzazioni non governative come Greenpeace e la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale hanno criticato Unicredit per la sua intenzione di partecipare a ben due consorzi (uno direttamente e uno tramite HypoVereinsbank AG) che partecipano alla gara d’appalto per la realizzazione del progetto di centrale nucleare di Belene, sito soggetto a forte rischio sismico, nel nord della Bulgaria. Unicredit ha successivamente ritirato la partecipazione alla gara per finanziare il progetto."

Insomma, non è che i soldi dei donatori italiani vadano a finire esattamente in  Banca Etica.

Ora, voi mi direte, tu che fai tanto il paladino della cultura libera, si può sapere quanto cacchio guadagni con le pubblicità?

E’ presto detto: nell’anno 2010 ho maturato 307,40 euro. Gli importi di quanto maturato che mi sono stati corrisposti nel 2010 saranno regolarmente dichiarati al fisco nel 2011. Ci pago l’hosting dei siti e una quota minima dell’ADSL annua, tutto il resto è a carico mio.

Ma a voi non ho mai chiesto un centesimo.

Le magliette fàtevele da soli.

Le chiavi di ricerca piu’ frequenti per valeriodistefano.com

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Le visite dai motori di ricerca dell’ultimo mese

Rank    Motore di Ricerca    Visite
1     Google                  6.443    
2     Yahoo!                  95    
3     Virgilio.it             63    
4     AOL NetFind             29    
5     Ask Jeeves              14    
6     Libero.it               11    
7     AltaVista               10    
8     Yandex                   4    
9     Excite                   1    
10    CompuServe               1    

Altri Elementi (5)             1

(fonte: http://stat.valeriodistefano.com)

Il fido lettore Batraci Egisto (o Catanorchi Ledo, ora sinceramente non rammeto i particolari), titolare del vanity blog "Single a trent’anni. E adesso??" [come se fosse una disgrazia], reperibile all’indirizzo www.singleatrentanni.com, chè lui ci tiente tanto che la gente gli metta i link, non si sa bene perché, ha un mirabile costume, quello di deliziare i suoi pur poco numerosi lettori, ma soprattutto le sue adorate lettrici (cioè, le uniche per le quali tiene in piedi il blog simil-lamentoso sui luoghi comuni femminili) con un post "autocelebrativo mensile" (sic!) in cui analizza le chiavi di ricerca più bizzarre delle persone che sono andate a finire, per gusto o per mera casualità, sulle di lui pagine.

Si dica, per inciso, pegl’incolti, che le chiavi di ricerca sono le parole o le frasi (o, per meglio dire, i gruppi di parole) che la gente digita su Google o su qualche altro accidenti di motore di ricerca, per poi scegliere, tra i risultati proposti e compatibili, proprio la pagina che afferisce al blog nostro stesso medesimo.

Il nostro lettore Gargianti Loredano, però, ama commentare i risultati delle sue analisi con colpi di teatro, invenzioni linguistiche, battutine, calembours e nocchini sul capo a’ suoi lettori, e inviti a improbabili cene (che il suo delicato stomaco pur tuttavia ripugna) alle sue lettrici, ove, abile dell’arida e inutile retorica dei sommeliers (plurale!) decanterà ora il sentore di viola màmmola, ora quello di frutti di bosco, ora la mandorla di questo o di quel nettare di Bacco, invece di mandarlo giù e tirare a campare come fanno tutti gli altri.

Dicevo del vezzo di analizzare le chiavi di ricerca. L’ho fatto anch’io, ma non ci ho trovato nulla di divertente.

Però qualche motivo di riflessione c’è:


Intanto, la chiave di ricerca più frequente in assoluto è: "anas barbariae", il nome latino della semplicissima anatra, il cui fegato liofilizzato rappresenterebbe (il condizionale è d’obbligo) la base dell’"Oscillococcinum", specialità omeopatica molto venduta in farmacia contro l’influenza e che a mio personale parere non fa un cazzo. Dedicai un post all’argomento anni fa e continua ad essere il più cliccato in assoluto.

Poi si prosegue, in ordine di frequenza con "valerio di stefano" e questo francamente m’inquieta, giacché troppi sono interessati alla mia persona e non dovrebbe importargliene proprio un bel tubazzo di nulla. Esistono anche quelli che aprono Google, e scrivono, nella barra di ricerca, "www.valeriodistefano.com", e scriverlo nella barra degli indirizzi del browser non se ne parla, eh?? E’ come cercare sull’elenco del telefono un numero che si ha memorizzato in rubrica.

Molti arrivano qui cercando "la canzone dell’amore perduto", titolo della più popolare ma, ahimé, anche più copiata canzone di Fabrizio De André, la cui musica è costituita dal primo movimento di un concerto per tromba e orchestra di Telemann, e anche lì scrissi un post che continua ad essere molto cliccato e assai poco preso sul serio.

Non mancano i feticisti con la ricerca di "cadaveri decomposti", gente dèdita all’orrido che farebbe bene a starsene lontana da queste immacolate pagine.

Anche "federico maria sardelli" è molto ricercato, qui, ha avuto la disgrazia di avermi per compagno di scuola e io la fortuna di attingere dal suo multiforme ingegno, quindi vo’ menando vanto per ogni dove della sua conoscenza diretta, con rabbia e rodimenti epatici de’ lettori (primo fra tutti il già citato Pierantozzi Loriano).

Qualcuno ricorda le canzonette degli anni 40, e cerca spesso "noi siam come le lucciole brilliamo nelle tenebre". I miei lettori sono schiavi di un mondo brutal, non c’è che dire.

E infine, ultima ma non ultima, la chiave di ricerca di cui vo’ più tronfio e orgoglioso: "luigino ferrari". Se avete frequentato Fidonet o Usenet sapete di cosa parlo, altrimenti, vi siete persi un mondo.


Perché ho scritto questo post? Mah…

Sentenza Google: la rete e’ finita (la mia generazione ha perso)

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Questo blog è un morto che cammina.

Quasi tutta Internet è un morto che cammina. Quella che non lo è, costituisce il vero Grande Fratello e si gioca la partita del controllo dei contenuti in rete.

La sentenza contro Google costituisce un precedente gravissimo, inaccettato da tutti perché inaccettabile, ovvero quello che il provider, in quanto provider debba essere in qualche modo responsabile del contenuto, più o meno lecito, che vi immettono i propri utenti.

Non ci sono e non ci possono essere altre interpretazioni. E’ l’inizio della fine, è il tarlo del tubbio che, instillato nella rete, non riuscirà più a venirne fuori.

Se Google è responsabile di aver omesso la vigilanza sui contenuti, il castello di carte va a farsi benedire.

E vuol dire che la famosa libertà di espressione in Internet non c’era, non c’è, non c’è mai stata.

Quasi tutta Internet si basa sui provider, sui siti in hosting, sulle caselle di posta elettronica prese da libero.it, da email.it e da chi più ne ha più ne metta.

Aruba e Register.it ospitano milioni di siti web, piccoli e grandi, se dovessero mettersi a controllare uno per uno i files che hanno non resterebbe in piedi nessuno, perché molti dei contenuti potrebbero essere o apparentemente illegali o manifestamente illegali, vagamente allusivi, protetti da copyright, violenti, finiremmo come in Cina.

Ed è a quei livelli che stiamo effettivamente finendo.

Il mito del libero scambio delle opinioni era, ed è, appunto, un mito.

Ci hanno raccontato un sacco di balle con questa storia di Twitter che permette agli studenti iraniani di esprimersi liberamente, con Facebook che permette agli amici e agli amici degli amici di comunicare tra di loro, di YouTube che libera la tua fantasia, degli aggregatori di contenuti di tutto il fottutissimo Web 2.0.

Sono bugie. E basta.

In Italia non è possibile permettersi il lusso di essere digitalmente liberi.

Il potere in Internet ce l’hanno i colossi. Se Aruba decide di spegnere l’interruttore milioni di individui si vedranno oscurare siti, blog, iniziative.

Possono farlo anche domattina. Ti rimborsano il doppio di quello che hai speso per aprire il sito e ti dicono "Caro Pallette, noi riteniamo che uno solo dei tuoi file sia lesivo di un diritto X altrui, quindi, siccome non abbiamo voglia di fare la fine di quelli di Google per colpa tua, non vogliamo correre rischi e ti oscuriamo il sito. O il singolo contenuto. O quello che ci pare".

E la stessa cosa possono fare Splinder, i provider di caselle di posta elettronica come libero.it e molti altri.

Siamo fregati, tutto è in mano al potere discrezionale o al panico di pochissimi.

Se un’informazione non sta bene a chi dirige Wikipedia, la gente, semplicemente non avrà QUELLA informazione su Wikipedia, che è grave. Ma se Wikipedia avesse, poniamo il caso, i suoi contenuti in hosting in Italia, e ci fosse un solo contenuto, uno solo che venisse reputato inidoneo, quell’informazione non passerebbe a maggior ragione.

Così, la partecipazione democratica e paritaria alla rete è subordinata agli umori e agli interessi aziendali di pochissimi.

E se questo blog muore "solo un po’", vuol dire che tutto il resto di Internet non sta mica tanto bene…

Come ci si collega ai siti Internet nella scuola italiana

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Vi giuro, credete mi è accaduto, proprio oggi.

Collegio docenti: un collega addetto a un computer collegato a Internet che proiettava sullo schermo le schermate di quello che dovevamo vedere, votare e/o comunque conoscere (in genere dei PDF di circolari ministeriali noiosissime e da interpretare in modi svariati secondo l’umore, la temperatura esterna e il grado di coinvolgimenti sinaptico dei docenti), per andare  ricercare un documento in rete doveva collegarsi con il sito del Ministero dell’Istruzione.

Ah, l’indirizzo web del Ministero dell’istruzione è www.istruzione.it.

Cosa ha fatto? Ha aperto il browser (Internet Explorer, of course, le alternative nella scuola italiana sono difficlmente contemplate, forse perché sono difficilmente capite) che aveva come pagina predefinita quella di Google.

Dopodiché è andato nella finestrella in cui si inseriscono le parole chiave per la ricerca e ci ha scritto:

"www.istruzione.it"

Google gli ha dato il risultato sperato: al primo posto della ricerca indovinate che cosa è apparso? Il sito del Ministero. Ci ha fatto clic sopra e il sito si è aperto. Evviva la tecnologia!

Perché se avesse scritto "www.istruzione.it" direttamente nella barra degli indirizzi non avrebbe complicato abbastanza la vita a se stesso e a noi.

La scuola è in mano a questa gente qui..

Voglio fatta la ricarica Wind! Le chiavi di ricerca per il blog.

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Quello che mi consola, nella gestione del blog, è il fatto che molti degli accessi che ricevo sono fortuiti e casuali.

Perché se davvero tutti quelli che "cadono" in queste pagine, imbrigliati dalle maglie della rete, fossero interessati a quello che scrivo, sarebbe preoccupante.

Mi sono divertito, ieri, ad analizzare solo alcune delle frasi di ricerca mediante cui la gente arriva sul blog da Google.

E c’è di che mettersi a ridere:

– veronica lario leghista
– veronica lario tette e culo

Non c’è nulla da fare, la maggior parte delle ricerche sono per Veronica Lario. Il primo utente cercava una sua presunta appartenenza politica, l’altro, più prosaicamente, ha puntato al sodo. A volte penso alla delusione di questi utenti che cercavano immagini o filmati delle grazie della ex signora Silvio, si sono affidate a Google che le ha reindirizzate verso il mio blog, dove, regolarmente, non le hanno trovate. Eh sì, Internet è quella risorsa in cui si trova tutto e subito, come si permettono di non avere quello che cerco e che voglio?

– ragazze trombata da professori

Questa è la chiave di ricerca più triste in assoluto. Non solo perché viene da una mente evidentemente malata, che pensa che certo materiale sia raggiungibile in rete così come è possibile andare a comprare un pacchetto di caramelle dal tabaccaio, ma perché pensa che i professori si trombino veramente le loro alunne.
E’ un luogo comune difficile da sfatare, e chi crede che la scuola sia un luogo in cui si fa tutto meno che studiare è ancora in maggioranza rispetto al resto dell’opinione pubblica.
YouTube ha fatto tanti danni.

– pubblicità coca cola giulia livornese

Quella della nuova pubblicità della Coca Cola è una delle cose più ricercate su Google. Questa Giulia ha fatto colpo. Peccato che non sia livornese, ma pisana, e son disgrazie.

– voglio fatta la ricarica wind di 5€

Senza telefonino non si vive, e la ricarica Wind da 5 euro è per eccellenza la ricarica degli sfigati, il minimo garantito per garantirsi la sopravvivenza psichiatrica, per non impazzire di emarginazione schizofonica. Bellissimo il lessico utilizzato: "voglio fatta la ricaricarica!" è un imperativo categorico, la dichiarazione di bisogni fondamentali dell’uomo che non sono più la dignità personale, il diritto al cibo o cos’altro, no, sono l’esigenza di non essere più tagliati fuori dal mondo. Giuro che se questo utente lo potessi rintracciare gliela regalerei io una ricarica da 5 euro!

– le ricariche telefoniche della tre da quanto sono?

Anche qui si va di ricariche telefoniche. Ma la caratteristica della chiave è singolare. C’è un punto interrogativo in fondo. Google viene visto né più né meno come il genio della lampada, come il Sapientino che se gli fai una domanda quello ti risponde puntualmente. Non viene visto come uno strumento, che analizza la pertinenza di una stringa, ma come un vero e proprio essere intelligente che a domanda risponde. Internet come salvezza all’ignoranza personale. Certo che è una bella prospettiva…

– il meglio cacciucco di livorno

E meno male che c’è ancora qualcuno che cerca un buon cacciucco, consolazione materiale e immanente di chi sente che la vita è qualcosa che sfugge inesorabilmente, e allora affanculo le tette della Lario e la pubblicità pisana della Coca Cola, una bella tegamata di cacciucco e vedrete che la vita vi sorride. Anche su Google.

Ma prima qualcuno mi spieghi cosa vuol dire "mi sento fortunato".

Il XXXVI Canto dell’Inferno di Dante Alighieri (che non esiste!)

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E c’è gente che fa ricerche on line che sono di un surrealismo ridicolo.

Mi sono sempre chiesto che cosa ci sia nella testa di una persona che si accinge a fare una ricerca su Google, ma questa chiave che ha reindirizzato sul blog del mio www.classicistranieri.com le batte proprio tutte: c’è un signore (o una signora, o un ragazzetto, o una signorina…) che da Milano su Google ha digitato una ricerca attinente nientemeno che al trentaseiesimo canto dell’Inferno di Danto, canto che, notoriamente, non esiste, giacché l’Inferno dantesco ne conta "solo" trentaquattro.

Ci dev’essere un gusto insieme perverso e autocompiaciuto nel sentirsi assolutamente ridicoli, o a voler mettere alla prova Google che è uno strumento imperfetto e che, poverino, fa quello che può.

Non so come sarebbe iniziato il XXXVI dell’Inferno, ma so come sarebbe finito:

E lìberami, ognor da tutte queste balle
che cercano i cretini in Internètto.
E quindi uscimmo a riveder le stalle

giocandoci in un clicco l’intelletto.

Gli utenti cinesi vogliono un Google Anti Censura?

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David Weinberger, l’apprezzato autore di World od Ends, ha segnalato sul suo blog una ricetta per far fronte al problema della "questione cinese" su Google. La ricetta è del blogger Isaac Mao, residente a Shanghai e "addentro" alle questioni ICT locali.

Nella sua lettera aperta, indirizzata a Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google, il giovane ricorda il primo blocco di Google.com da parte del Governo, avvenuto nel 2002. La protesta spontanea online degli utenti alla fine prevalse sulla rigidità governativa. Dopo quattro anni però tutti si interrogano sull’azione di filtro che viene realizzata su Google.cn. Per Mao, si tratta di un’auto-censura piuttosto fastidiosa, che nel tempo sta sfiduciando la comunità cinese. Secondo il blogger, il colosso statunitense è ad un bivio, ed avrebbe tutte le capacità per cambiare la situazione e aiutare la Cina a percorrere una strada ben diversa.

I consigli strategici a lungo termine del giovane blogger sono fondamentalmente tre. Il primo è quello di creare un fondo da un miliardo di dollari da investire sui siti e le aziende cinesi più all’avanguardia. Un venture capital da far gestire a manager qualificati e professionisti riconosciuti che realmente conoscano il valore di Google e le potenzialità del mercato cinese. Di fatto Mao è convinto che questa strategia permetterebbe di mettere ordine nel settore e creare un vero mercato capitalistico.

Il secondo consiglio riguarda lo sviluppo di tool e servizi anti-censura per gli utenti mondiali e il terzo è quello di incentivare il sistema Adsense di Google.cn. Alimentare quindi l’ecosistema finanziario, con migliori servizi localizzati per i clienti – nel rispetto delle esigenze e degli stipendi della comunità.

Isaac, insomma, vuole ricordare a Google che non è solo: ci sono milioni di fan in Cina che aspettano anche un solo segnale di impegno per la causa. Weinberger condivide la teoria del giovane bloggger. "Non ero sicuro allora e non lo sono adesso", ha dichiarato l’esperto statunitense riferendosi alla connivenza di Google con il Governo cinese sulla censura. "Ma adottare le proposte di Isaac potrebbe aiutare a spiegare perché la presenza di Google in Cina sia dopotutto una buona cosa".

da: www.punto-informatico.it

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Valerio Di Stefano – Google nei guai per il pay-per-click

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Il Pay per Click di Google è sotto gli occhi dei riflettori dell’opinone pubblica e sotto quelli, più discreti, della giustizia statunitense.

Per anni Google è stato leader incontrastato della pubblicità su Internet attraverso il suo programa AdWord e il suo doppio speculare, AdSense, destinato ai Webmaster che ricevono una parte dei proventi ricevuti da Google per ogni clic effettuato.

La AIT (Advanced Internet Technologies) ha denunciato Google per non aver controllato in modo efficace il cosiddetto click fraud, che permette agli utenti di realizzare sistemi atti a cliccare ripetutamente su un determinato link, a danno dell’inserzionista (che paga per la pubblicità del circuito) e del sito che ospita gli annunci (che rischia di vedersi annullare l’account e l’autorizzazione a ospitare annunci pubblicitari in futuro).

La Corte della California deciderà nel prossimo mese di maggio sull’ammissibilità della richiesta di AIT, che punta a farsi rimborsare costi illecitamente maturati e della cui provenienza illecita Google non si sarebbe accorta (non si sa se per dolo o per colpa).

A dire di AIT l’imbroglio sarebbe stato smascherato attraverso strumenti precisi atti a verificare l’attendibilità e la provenienza dei click. Google, dal canto suo riconosce validità e trasparenza esclusivamente ai propri parametri di conteggio. Ma, anche in Italia, sono molti gli inserzionisti e i siti opitanti che, in seguito a un traffico anomalo e a una azione unilaterale da parte di Google, hanno chiesto spiegazione e hanno ricevuto, come risposta, un lunghissimo silenzio.

Davide sfida Golia. E sembra anche che abbia tutte le possibilità di farcela.