“Se non ti fa bene male non ti fa di certo”

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Dagherrotipo di Samuel Hahnemann, fondatore dell'omeopatia. Pubblico Dominio.
Dagherrotipo di Samuel Hahnemann, fondatore dell’omeopatia. Pubblico Dominio.

Sarà capitato anche a voi (citazione cólta per chi ricorda Sylvie Vartan, cioè tre o quattro) di avere un amico, un parente, un conoscente, un collega di lavoro, un vicino di casa, un Testimone di Geova o chi per loro che almeno una volta nella vita è entrato nei flussi di chi ha provato le cosiddette medicine alternative sotto forma di globulo intriso, compressa, sciroppino, tintura madre, intruglio figlio, gocce, tisane, decotti.

Io ho il massimo rispetto nei confronti di chi decide di corarsi con l’omeopatia, l’ayurveda, le erbe, i fiori di Bach e chi più ne ha più ne metta, ma sono personalmente convinto dell’inefficacia di questo tipo di approcci e che se effetto benefico c’è stato, è da addebitarsi solo ed esclusivamente all’effetto placebo. E comunque la persona in questione, nel decantarvi le meraviglie dell’approccio alternativo rispetto a quello allopatico (sottolineando magari implicitamente che i bischeri siete voi che vi fate caricare di medicine, mentre loro usano solo cose naturali, come se una cosa naturale per il solo fatto di esserlo sia automaticamente anche efficace) vi dirà: “Prova, tanto se non ti fa bene male non ti farà di certo!”

Ecco, qui mi irrito. Giuro che ho pensato che per questa frase se ne andassero a quel paese delle amicizie granitiche di vecchia data e non c’è niente di più doloroso. Anche perché la persona che ti parla in questo modo è realmente convinta di stare facendoti un favore. Invece non è così. Perché la prima cosa che mi aspetto da un medicamento è che funzioni. Voglio dire, se soffro di cefalea, allopatico o no che sia il rimedio che assumo, poi dopo devo stare meglio. Voglio dire, mi deve fare bene per forza, non esiste il “male non ti fa di certo”. Perché il “far male” si verifica anche se la porcheriola naturale non mi fa nessun effetto. Proprio perché se l’effetto è zero, mal che mi vada io continuo a star male. Se io ho la febbre e assumo un antitermico poi la febbre mi deve passare. O diminuire. E’ questo che mi aspetto da qualsiasi “rimedio” tradizionale o alternativo che sia.

Perché nell’approccio medico se prima c’è il proverbiale “non nuocere”, dopo ci deve essere per forza il “curare”. In questo senso trovo molto bella l’espressione di “principio attivo” che troviamo nella medicina tradizionale. “Attivo”, non inerte. “Attivo” vuol dire “che agisce” e se agisce poi stiamo meglio.

Dunque, viva la cara vecchia chimica! Che se non ci fa star bene qualcosa la fa di sicuro.

Le cellule staminchiali

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La gente sta male. Molto.

La sofferenza della malattia di solito è immediatamente visibile all’occhio. O a volte è più discreta, meno invasiva. Basta essere ricoverati in un ospedale anche per breve tempo per rendersene conto. Quello che separa lo star male dallo star bene è solo una porta che potrebbe aprirsi in qualunque momento.

La sofferenza ha bisogno di rispetto. La scienza medica è una cosa seria. E anche lei ha bisogno di rispetto.

Spesso queste due sfere da rispettare collidono, non ce la fanno a stare unite. Perché la scienza non è illimitata e la capacità di soffrire di una persona invece sì.
E allora ci si affida alla libertà di cura che ci viene garantita dalla Costituzione. Che prevede anche il diritto di rifiutare certe cure e di lasciarsi andare, se è il caso.

Oppure si possono avere, anche quando non si sta troppo male, approcci medico-filosofici diversi da quelli tradizionali. Che so, l’ayurveda, l’omeopatia, i fiori di Bach, le piante di Mozart e le oche di Giuseppe Verdi.

O le famigerate cellule staminchiali.
Che saranno anche utili per le malattie neurodegenerative, non dico di no, ma se dai verbali dei Nas e dai pareri del comitato ministeriale di esperti risulta che nei trattamenti a protocollo c’erano solo scarse tracce di queste cellule con il rischio di contrarre perfino il morbo della mucca pazza allora mi devono dire che cazzo hanno infuso ai malati questi qui. “Assenza di controlli delle cellule del donatore”?? Ma siamo impazziti peggio della mucca! E se si fa firmare al paziente una accettazione del fatto che “si dichiara che le cellule somministrate possono essere leucociti del sangue, di solito mescolati ad altre componenti minori (…) oppure cellule più purificate quali le cellule mesenchimali estratte dal midollo osseo” non gli si offre una cura, gli si offre un cocktail shakerato non mescolato. Ma i malati non sono James Bond. Hanno aspettative, ripongono qualcosa di molto più importante della loro persona nelle mani del medico “alternativo”, ripongono la fiducia.

E allora c’è chi paga 40.000 euro per non ottenere nessun risultato, che contrae debiti con le banche (che non è che ci vadano di scartino!) che coltiva speranze e sogni che poi non si avverano. Se vuoi provare una cura che è “altro” da quello che ti offre il SSN te le paghi. E questo è giusto. Ma dall’altra parte, se ci sono solo sperimentazioni (ma sperimentazioni di che?? Le cellule staminchiali non c’erano) non si può costringere una famiglia a indebitarsi fino all’osso.

Se c’è gente che crede nel proprio metodo curativo, faccia il sacrosanto favore di dare GRATIS le sue cure, in modo da permettere a tutti di accedervi, e di accettare soltanto donazioni liberali. Che la gente doni quello che può, perché una iniezione (o “infusione”, come si usa dire ora) di un beneamato niente non può costare 40.000 euro.

Buon Natale? Buon Natale staminchia!