Diffamazione a mezzo stampa: la Cassazione ribadisce il no alla pena detentiva per i giornalisti

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Si attende il verdetto della Corte Costituzionale sull’annoso tema, già previsto tra qualche mese: la pena detentiva prevista per i giornalisti per il reato di diffamazione a mezzo stampa è legittima? Oppure viola l’articolo 10 della Carta dei Diritti dell’Uomo sulla libertà di espressione? In breve: è legittimo che un giornalista (e, per traslato, qualunque cittadino italiano) venga condannato al carcere (sia pure con la sospensione condizionale della pena) per un articolo o espressioni lesive dell’altrui dignità? Nel frattempo è arrivata la Corte di Cassazione (5a sezione) a metterci una pezza e a stabilire che la detenzione può essere giustificata solo in casi del tutto eccezionali (discorsi d’odio o istigazione alla violenza). La sentenza n. 38721 del 19 settembre 2019, emessa dalla quinta sezione penale della Cassazione ribadisce che  “con la sentenza pronunciata nella causa Sallusti contro l’Italia del 7 marzo 2019 e ancor prima con la sentenza Belpietro contro Italia del 24 settembre 2013, ha affermato che la pena detentiva inflitta ad un giornalista responsabile di diffamazione è sproporzionata in relazione allo scopo perseguito di proteggere la altrui reputazione e comporta una violazione della libertà di espressione garantita dall’art. 10 Cedu. Più precisamente la Corte, con la sentenza nella causa Sallusti contro Italia del 7 marzo 2019, «ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza» e precisa che la violazione sussiste anche se la pena detentiva è stata sospesa”.Così è stata annullata la condanna a tre mesi di reclusione inflitta dalla Corte d’Appello di Salerno nei confronti del direttore del giornale “Altre Pagine” Fabio Buonofiglio, per un articolo pubblicato il 13 agosto 2011 e intitolato «L’allegra compagnia d’una giustizia che va a puttane», che era stato ritenuto gravemente lesivo della reputazione del magistrato Maria Vallefuoco, sostituto procuratore della Repubblica di Rossano. Pena annullata e reato nel frattempo caduto in prescrizione, dunque, ma Buonofiglio rischia comunque di essere riconosciuto colpevole di diffamazione in sede civile e di dover risarcire il danno provocato alla vittima. La sentenza della Corte Costituzionale è attesa prima della prossima primavera.

La morte di Eleonora Bottaro: alcune motivazioni della Corte d’Appello

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“L’ordinamento non pone il diritto di vita o di morte dei figli nelle mani dei genitori, al contrario i genitori sono custodi della vita dei figli, che hanno l’obbligo di proteggere“ “sottrarre la figlia all’unica cura che la scienza medica conosce e che, fortunatamente, è anche una cura con elevata possibilità di successo, non è una scelta che risponda a prudenza e perizia. La salute di un figlio non può essere lasciata al mero arbitrio del genitore che senza alcun vincolo possa adottare qualunque scelta a suo piacimento, come se il figlio fosse una sua mera estensione secondo una prospettiva che, dietro una apparente modernità, finisce per negare al figlio la sua natura di soggetto autonomo portatore di diritti propri” (…) “I genitori erano convinti che Eleonora non dovesse sottoporsi alla chemioterapia. Hanno scelto di sottrarla all’unica cura riconosciuta come tale dalla medicina, e di lasciare che il tumore guarisse da solo” (…) “Il genitore viene meno ai suoi doveri di cura e tiene una condotta gravemente negligente e imprudente, quando a una di queste teorie prive del minimo valore scientifico affida la vita del figlio”.

Sono questi alcuni stralci delle motivazioni della sentenza di appello che ha condannato a due anni di reclusione ciascuno (pena sospesa) i genitori di Eleonora Bottaro, che rifiutarono la chemioterapia come cura della leucemia che aveva colpito la figlia, a favore delle teorie del medico tedesco (radiato dall’ordine, e successivamente deceduto) Ryke Geerd Hamer. Ancora Maalox.

Diffamazione: la Corte di Cassazione annulla la condanna inflitta a Oscar Giannino nei confronti di Luca Cordero di Montezemolo

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La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte di Appello di Milano nei confronti di Oscar Giannino e di altri giornalisti, al risarcimento di 15000 euro nei confronti di Luca Cordero di Montezemolo, dopo che Giannino aveva pronunciato la frase “Prima della nostra rottura, Luca Cordero di Montezemolo mi ha chiesto: tu quanto mi costi?” in un comizio tenutosi a Perugia il 12 gennaio 2013. Il processo andrà rifatto tenuto debitamente di conto che “il bilanciamento tra la libertà di espressione del pensiero e il diritto alla riservatezza della persona si attua con pesi e misure profondamente differenti quando la libertà di stampa ha ad oggetto questioni politiche e di pubblico interesse, ovvero tocca la persona di soggetti politici, cui si richiede un alto tasso di resistenza e di tolleranza alla critica, soprattutto allorché quest’ultima si inserisca in un contesto di agone politico – come quello qui in discussione – dove prevale l’interesse a tenere alto il livello di dibattito pubblico” e che “bisogna circoscrivere l’analisi di una «notizia diffamante», nel contesto politico, ove il linguaggio ha sempre carattere salato, suggestivo e allusivo, poiché tende alla captatio benevolentiae, e quindi ammette invasioni di campo nella sfera privata molto più ampie rispetto ad altri contesti di critica giornalistica. Affinché il dibattito politico, inteso come il «cuore della democrazia», possa svolgersi il più liberamente possibile, è così ammesso il ricorso ad affermazioni esagerate, provocatorie e persino smodate”. Secondo gli ermellini “la libertà di dibattito politico, in effetti, è la più ampia forma di manifestazione della libertà di espressione il cui esercizio – che avviene tradizionalmente attraverso il pubblico comizio, l’intervista, il mezzo della stampa, anche tramite l’uso di altri media e di Internet – misura il tasso di democrazia raggiunto in un Paese, in quanto è precipuamente finalizzato a fornire al pubblico un mezzo per scoprire e formarsi un’opinione sulle idee e le attitudini dei diversi soggetti che si confrontano nell’arena politica”, e, infine, che “il limite immanente all’esercizio del diritto di critica è, pertanto, costituito dal fatto che la questione trattata sia di interesse pubblico e che, comunque, non si trascenda in gratuiti attacchi personali”.

Stefano Cucchi: tutti assolti per insufficienza di Stato

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C’era qualcosa che non mi tornava, ieri, nell’apprendere la notizia dell’assoluzione degli imputati al processo d’appello per la morte di Stefano Cucchi. Al di là del comprensibile dolore dei familiari e della stigmatizzazione degli imputati che esibivano allegramente il dito medio alla platea, al di là di questo -dicevo- mi mancava un elemento: se è stata fatta giustizia e se degli imputati sono stati assolti, perché gridare impropriamente contro uno Stato inadeguato e chiedersi “se non sono stati loro allora chi?”, a parte il fatto che in un’aula di giustizia si decide se Tizio è colpevole e non si va a vedere chi possa essere stato nel caso Tizio risultasse innocente?

E la risposta alla chilometrica questione è che l’assoluzione di tutti gli imputati è avvenuta sì, ma per mancanza di prove. Cioè non per non aver commesso il fatto, non perché il fatto non sussiste (ci mancherebbe solo che qualcuno andasse a illazionare sul fatto che Stefano Cucchi non è morto), non perché il fatto non costituisce reato. Solo ed unicamente per mancanza di prove. Il che significa che quand’anche l’assoluzione dovesse andare confermata in Cassazione, finché il reato non va in prescrizione c’è ancora il tempo di raccogliere prove a carico di Lorsignori e di riaprire il processo. E un’assoluzione per mancanza di prove è, sostanzialmente, un rimprovero alla pubblica accusa, che non è stata capace di trovare sufficienti elementi che possano far condannare questi signori.

Quindi, più che di una morte di Stato bisogna parlare di una inerzia dello Stato nel trovare i colpevoli e di inchiodarli al muro delle loro responsabilità. Tutti assolti per insufficienza di Stato, quello Stato che non c’è quando si tratta di cittadini affidati alla sua custodia. E’ uno Stato condannato e additato al pubblico ludibrio da quegli stessi giudici allenati ad accogliere “pedetemptim” tutte le tesi accusatorie che vengono loro proposte. E’ la resa dello stato diritto. Ma almeno avremo la possibilità di sperare in uno Stato di verità.

Signor Giudice noi siamo quel che siamo.

Roberto Saviano e la Mondadori condannati a rifondere 60000 euro per aver copiato brani di “Gomorra”

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da www.wikipedia.org - Foto di Piero Tasso - Questo file è licenziato in base ai termini della licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported

Roberto Saviano è stato condannato dalla Corte d’Appello di Napoli al risarcimento di 60.000 euro (che non sono nemmeno tanti, voglio dire), assieme alla Arnoldo Mondadori Editore, a favore della Libra scarl e di varie testate giornalistiche, per aver illecitamente riprodotto tre aricoli tratti da “Cronache di Napoli” e “Corriere di Caserta” nel suo celebre romanzo “Gomorra”.

In primo grado il procedimento si era concluso con l’assoluzione di Roberto Saviano che ha sempre invocato il pubblico dominio delle informazioni contenute in quegli articoli, e che “riduce” il danno parlando di “autonoma attività creativa dell’autore” e che “I giudici hanno (…) ritenuto che due passaggi del mio libro avrebbero come fonte due articoli dei quotidiani di Libra. Neanche due pagine su un totale di 331. Ricorrerò in Cassazione. Anche se si tratta dello 0,6% del mio libro – conclude – non voglio che nulla mi leghi a questi giornali.”

Alla prima obiezione c’è solo da rispondere che in Germania il Ministro della difesa Karl-Theodor zu Guttenberg si dimise per aver copiato una parte della sua tesi di laurea. Saviano non riveste alcuna carica pubblica e non può certo dimettersi da niente. Ma è un personaggio pubblico, è uno scrittore stimato dalla gente (non tutta, a dire il vero), appare in TV, vende milioni di copie in tutto il mondo, parla, ma soprattutto è considerato autorevole. Lo 0,6% è anche troppo.
Se voleva che nulla lo legasse ai giornali che gli hanno fatto causa (vincendola!) avrebbe potuto evitare di copiarli o, quanto meno, di prenderli come fonti. O avrebbe potuto citarli. Non è il ragazzino che va dall’insegnante con una ricerca copiata da Wikipedia.
Ricorrerà in Cassazione? Benissimo, è un suo preciso e fondamentale diritto. Ma la Cassazione civile, come quella penale, non interviene più nel merito dei fatti (che con il processo di appello rimangono accertati), ma sulle procedure.
Saviano afferma che, anzi,  sarebbe stata la Controparte a plagiare qualche suo scritto originariamente pubblicato su “Repubblica” e “il Manifesto”. Bene, agisca in giudizio e potrà avere ragione delle sue lamentele in un giudizio separato, qui non si tratta di vedere se qualcuno ha copiato Saviano, ma del contrario, ovvero del fatto che Saviano abbia copiato qualcuno.

Una cosa che non ha ancora detto nessuno è che sia Saviano che la Mondadori sono stati anche condannati al ripristino dello “stato di fatto” ovvero alla modifica del testo di “Gomorra” in modo che contenga il riferimento ai brani copiati. Le spese di giudizio ammontano a quasi 20000 euro.

Per la cronaca, ho usato come fonti il “Corriere del Mezzogiorno” on line («Copiate alcune pagine di Gomorra» Saviano e Mondadori condannati in appello in http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2013/21-settembre-2013/copiate-alcune-pagine-gomorrasaviano-mondadori-condannati-appello-2223230781946.shtml) e il dispositivo di sentenza. Tanto per esser chiari.