Corretto il link a valeriodistefano.com sul Corriere della Sera

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Questa mattina ho ricevuto una mail dalla giornalista Alessandra Bravi che, su mia segnalazione, ha provveduto a correggere il link sbagliato sulla pagina dell’edizione fiorentina del Corriere della Sera, come avevo segnalato qui:

https://www.valeriodistefano.com/public/post/il-corriere-della-sera-mi-cita-ma-sbaglia-il-link-1651.asp

Nel mio blog ho parlato di cultura libera, di difesa strenua della privacy, dai miei siti diffondo centinaia di migliaia di file al mese, la gente scarica musica, libri, audiobook, sono uno dei pochi che dice la verità su Wikipedia e questi per cosa mi recensiscono? Per un post su una ragazzina pisana immaginaria che si presta a fare la testimonial alla Coca Cola.

Uno potrebbe dire: che culo!! E invece vi avverto subito, non è finita qui. Stay tuned…

Charlotte Casiraghi, “ventisett’enne”

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Charlotte Casiraghi ha partorito il suo primogenito. Notizia della quale, in sé, ci interessa il giusto. Cioè nulla.

Quello che ci interessa, è che nella foga di dare una non-notizia il Corriere della Sera, nel voler indicare la giovane età della neo mammina principessata (27 anni) ha scritto “ventisett’enne”.

Purtroppo non ho lo screenshot con l’errore marchiano del Corriere. Però, nell’andare a cercare su Google il termine esatto “ventisett’enne”, si viene rimandati a una foto-gallery su “Io donna” che contine rimandi testuali tipo “Ventisett’enne con l’apostrofo scritto sul Corriere” e un probabile commento di un utente che recita “Chi è quella bestia che ha scritto “ventisett’enne”?”

Ma quello del Corriere non è un errore isolato. Libero, il portale di Wind-Infostrada ci dice che un “Ventisett’enne soffre di diabete” (e va beh, ce ne saranno anche di più giovani, suppongo)

mentre “La provincia di Varese”, nel riferire della traslazione della salma di un giovane morto all’estero, ripete lo stesso identico errore

E basterebbe scrivere “27enne”. Fa un po’ SMS ma almeno non ci si fanno queste figure cacine.

Settimo: paga in contanti! [Forse…]

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E’ bello doppo ‘l morir vivere anchora, ed è bello tornare a parlarvi di privacy dopo tanto tempo.

Quello della privacy sembra un tema noioso e incomprensibile, per certi versi lo è, ma il succo, l’enunciato fondamentale, quello che non bisogna mai perdere di vista è che la privacy è quello che noi non siamo disposti a tollerare che gli altri facciano coi nostri dati personali.

Una persona può benissimo essere disposta a postare le sue foto discinte pubblicamente su Facebook. Un’altra no. Ma magari la persona che non vuole pubblicarsi scollacciata su Facebook è stata un po’ troppo prodiga nel dare il suo numero di telefono in giro e viene contattata quotidianamente da agenzie che vendono di tutto.

Due giorni fa sul “Corriere” è stato pubblicato un decalogo per tutelare la propria privacy in rete. Già il fatto che si tratti di un “decalogo” mi rende un tantinello nervoso. Sa di Mosè che scende giù dal Sinai con le tavole della Legge in mano e i capelli scaruffati.

Il settimo comandamento recita: “Pagate sempre in contanti, quando possibile e a maggior ragione se acquistate qualcosa che potrebbe essere fonte d’imbarazzo: con la carta di credito siete sempre rintracciabili.”

Ora, non si capisce bene (o, meglio, lo si capisce FIN TROPPO bene) quale sia questa “fonte d’imbarazzo”, ma andiamo avanti.
La maggior parte delle transazioni per acquisti in rete avviene con pagamento anticipato (sì!). Ora ci dovrebbero cortesemente spiegare come si fa a pagare in contanti anticipatamente per un acquisto via internet se l’acquirente si trova a Bressanone e il venditore a Siracusa. Cosa si fa, si mette il contante dentro il modem e lo si invia?
C’è il contrassegno, certo, cioè pagare al postino o al corriere al momento della consegna. Ma il guaio è che c’è da pagare qualcosa di più, ok, per non essere sgamati dalla moglie mentre compriamo i nostri DVD porno si può fare questo ed altro, ma si dà il caso che il postino passa al mattino, e che potrebbe essere proprio nostra moglie a ritirare il pacco coi nostri sollazzi visuali, rompendoci le corna al nostro ritorno. No, non funziona.
E allora? E allora PayPal. E’ comodo, viene accettato da un numero sempre maggiore di siti in rete e, soprattutto, funziona.
PayPal non mi paga per dire bene di loro, solo che lo uso da anni con molta soddisfazione (sto scrivendo come Paolo Attivissimo, aiuto!). Lo si associa a una carta di credito ricaricabile, si trasferiscono i fondi, si acquista quello che si vuole e il gioco è fatto.

Non vi illudete, però. Le tracce rimangono sempre. Quella del trasferimento dalla vostra carta di credito impersonale ricaricabile e quella di PayPal che paga per vostro conto il venditore. Ma è già qualcosa.

E certo che con la carta di credito si è sempre rintracciabili! Il fare qualcosa in rete, come poter comperare quello che si vuole, costa qualcosa, e il costo in questione è esattamente una parte di noi stessi.
Bisogna vedere quanto siamo disposti a venderci.

Lorella Cuccarini: fare sesso due volte alla settimana mantiene giovani

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Screenshot da: www.ilcorriere.it

Recentemente il “Corriere” on line ha pubblicato un rimando a un’intervista che Lorella Cuccarini ha rilasciato a “Oggi”, e in cui avrebbe dichiarato che:

a) nella sua vita sessuale preferisce assumere la posizione di “dominata” rispetto a quella di “dominatrice”;
b) fare sesso due volte alla settimana aiuta a sentirsi giovani.

Ora:

a) sono affari suoi, e non vedo che interesse (se non quello indotto dall’intervista) potrebbe assumere a livello di pubblica opinione la cosa;
b) grazie tante, figurarsi che c’è gente che lo fa anche più spesso.

La creazione delle non-notizie riesce a fare in modo di bucare l’intimità della gente andando perfino a dissertare sull’indumento che ciascuno porta, le mutande. Che devono essere le più amate dagli italiani (per forza, se no non si spiega…).

Silvia Avallone lascia la scuola

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Screenshot da corriere.it

La signora Silvia Avallone ha annunciato oggi sul Corriere della Sera la sua volontà di rinunciare all’insegnamento perché, a suo dire, l’Italia non sarebbe più un paese per insegnanti.

Ci sarebbe da eccepire, di rimando, che vorremmo proprio sapere quando mai lo è stato. Ma questa è una domanda retorica, evidentemente.

La signora Avallone, dunque, lascia la scuola. Bene, ne prendiamo atto.

Così come prendiamo atto che la signora Avallone, in quanto autrice di un romanzo di successo (che a me non è piaciuto, personalmente non lo consiglierei, ma si tratta di una opinione squisitamente personale), ha tutte le risorse economiche per poter prendere in piena libertà una decisione di questo genere.

Si dà il caso, però, che la maggior parte della classe insegnante di ruolo o precaria che  sia, non faccia la romanziera. Forse perché troppo impegnata a gestire il romanzo più grande che è la propria vita personale e familiare. O quella Comédie Humaine che è la scuola  pubblica, narrazione quotidiana di ben più ampio respiro.

La signora Avallone si goda, dunque, i proventi delle vendite dei suoi scritti.

A scuola restano i precari da pochi euro al mese. O gli insegnanti di ruolo che non è che  vengano trattati poi tanto meglio sul piano economico e della considerazione sociale.
A scuola restano quelli che rischiano la galera ogni giorno.
A scuola restano quelli che ci credono.

Wikipedia, tra 91% di partecipazione maschile e l’abito di nozze di Kate Middleton

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Screenshot dal corriere.it

Sul “Corriere” on line di oggi è stato pubblicato un (interessante) articolo di Camilla Baresani intitolato “Se il sapere di Wikipedia è al 91% degli uomini”.

Pare che Jimmy Wales abbia segnalato un dato che la giornalista definisce “francamente sconfortante”, ovvero che su 100 collaboratori volontari a Wikipedia, 91 siano di sesso maschile.

Naturalmente, sottolinea la Baresani, non c’è, in questo dato, alcun tipo di lettura sessista e/o razzista. Non può essere insita nel dato una “discriminazione oggettiva” (che non esiste) e che quindi, la percentuale deve essere letta in modo neutro. Ossia: se su 100 volontari 91 sono uomini non è per scarsa disponibilità delle “quote rosa” in Wikipedia, ma perché, semplicemente, è così. E’ come dire che in un determinato comune ci sono più individui di sesso maschile che di sesso femminile, o che ci sono più maiali che mucche.

Appunto, allora se è così, se un dato è un dato, perché la Baresani lo definisce “francamente sconfortante”?

Vediamo un po’. Tutto nasce dall’inserimento su Wikipedia di una voce (presumo sull’edizione in lingua inglese) sul vestito di nozze di Kate Middleton da parte di una donna (il 9% esiste!). Un “collaboratore/revisore” (già, quando è che su Wikipedia il volontario cessa di essere volontario proponente e diventa volontario giudicante?) ha cancellato la voce motivando il gesto con lo scarso interesse enciclopedico (la giornalista scrive “ritenendola ininfluente”). Ne è nata una discussione e la voce è stata ripristinata: l’umanità conoscerà i dettagli del vestito di Kate, perché, è stato deciso che questo sia un dato fondamentale per la cultura e l’enciclopedismo, perché, se in Wikipedia sono ospitate voci come «Episodi di South Park (tredicesima stagione)» o «Anello di purezza» non si vede perché non debba esserlo l’abito da sposa della Middleton. Ma non si dice, invece, che sono di scarso interesse tutte e tre, indipendentemente da chi le ha proposte, discusse, rifiutate o accettate.

Ritengo che il “casus belli” non sia il fatto che su Wikipedia sia stata scritta una voce poco interessante, ma che questa voce sia stata scritta da una donna e poi censurata (sia pure temporaneamente) da un uomo.

La Baresani, dunque, spiega il tutto affermando che “il Web 2.0 è profondamente maschile, perché sono maschi quelli che l’hanno progettato”. E va beh, ma una cosa è progettare l’ossatura di un progetto (ad esempio il software che permette a tutti di immettere contenuti e di correggerli) altra cosa sono i contenuti. Il contenuto (un articolo, una biografia, una bibliografia) non ha nulla a che vedere con il web 2.0. Può essere anche una pagina in HTML puro scritta dieci anni fa e lasciata lì.

Se Wikipedia è maschile non è detto che lo siano anche i suoi contenuti. Che possono essere anche incredibilmente maschilisti. O femministi si veda il caso. Il problema non sono i dati e le percentuali, ma quello che le persone che quei dati e quelle percentuali rappresentano fanno e scrivono. E il problema, come al solito, è vedere cosa venga considerato cultura libera e cosa no. Wikipedia ha un grandissimo potere, e non è solo quello di respingere o accettare le voci su un abito di nozze.

A 57 anni si pente di aver avuto un bambino. Il “Corriere” si chiede se è giusto “condannarla”

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Una donna di 57 anni ha deciso di portare avanti una gravidanza. Ha avuto un figlio. O una figlia. Poi se n’è pentita.

Non credo che, inseguito al pentimento, abbia deciso di soffocare l’infante nel sonno, o di abbandonarlo, o di darlo in affidamento, o di affidarlo al canile municipale, quindi penso di poter supporre, con un buon margine di certezza, che questa crisi emozionale dovuta a chissà che cosa (mancanza di forza fisica, o, più probabilmente, stigma da parte della gente che un figlio in età avanzata non te lo perdona, no, proprio no…) non abbia avuto conseguenze dirette e nefaste per il minore più debole.

Si è pentita. Semplicemente. Come ci si pente di tante cose nella vita. Tutte le volte in cui si dice “Se potessi tornare indietro non rifarei questa o quella cosa…” Lei non si è pentita di aver fatto figlio. Si è pentita, magari, di averlo fatto a 57 anni. Sarà COMPRENSIBILE?

No, il titolo del servizio sul “Corriere della Sera” on line è eloquente: “E’ giusto condannarla?”

Ah, perché adesso il pentimento su una scelta personale e delicatiossima come quella di avere un figlio a tarda età è una CONDANNA addirittura? E chi la condannerebbe, di grazia?? Non certo un giudice, almeno finché non c’è un maltrattamento o un abbandono di minore. E allora chi?? Ma certo, il conformismo, il dito puntato, la morale becera e profittatrice dell’opinione pubblica, una modalità insinuante e pregiudiziale: non hai rispettato i tempi di madre natura? Ora non ce la fai a tenere il figlio? Ti condanniamo.

Il giornale non si chiede, si badi bene, se si sia d’accordo o meno con la scelta della signora, e anche quello sarebbe riprovevole, rientrando la scelta della gravidanza e il successivo pentimento nella sfera irrinunciabile degli intoccabili affari suoi. No, si chiede se sia giusto condannarla. E’ una domanda che non ha che una risposta, ma certo che non è giusto. Come non è giusto condannare chi sceglie di avere un bambino a 15 anni (la scelta sarà fatta con gli strumenti che una ragazzina ha in quel momento), o di abortire a 30 o a 40. O chi decide di partorire e di non riconoscere il bambino e darlo in affidamento.

Non ci può essere condanna perché non ci può essere giudizio preventivo. Se non per un sensazionalismo da stampa che, proprio per il fatto di occuparsi di informazione, dovrebbe lasciare in pace i drammi della gente.

Oggi per Salvatore Parolisi non ci sarà nessuna verità (mettetevi l’animo in pace!)

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Il “Corriere della Sera” on line oggi intitola: “Delitto Rea: è il giorno della verità per Salvatore Parolisi. Oggi il gup decide.”

Cosa capisce una persona che legge questo titolo? Che oggi un giudice stabilirà la verità, e cioè se Salvatore Parolisi è colpevole o innocente al di là di ogni ragionevole dubbio dell’omicidio della moglie, per cui è accusato.

Niente di tutto questo. Oggi il GUP (Giudice dell’Udienza Preliminare) deciderà SOLAMENTE se Parolisi potrà accedere al rito abbreviato condizionato, così come ha chiesto tramite i suoi legali, e cioè se il processo si farà sulle carte finora raccolte (allora il GUP darà il via agli interventi di accusa, difesa e parte civile), oppure se la sua richiesta verrà respinta e dovrà, dunque, andare a un dibattimento in cui saranno ammessi testimoni, ci sarà un contraddittorio tra accusa, difesa e parte civile e si formerà la “prova provata” che dovrà incastrarlo, se mai. Se non si formerà verrà assolto.

L’unica cosa di effettivo interesse in questa notizia è che se il GUP deciderà per il rito abbreviato, Parolisi avrà diritto allo sconto di un terzo della pena. In pratica non rischierà l’ergastolo ma “solo” trent’anni di reclusione. Se, invece, si va con il rito ordinario, allora sì, ci può essere anche l’ipotesi che Parolisi, se condannato, debba scontare l’ergastolo. Naturalmente alla fine di tutti e tre i gradi di giudizio.

E’ tutto lì. Non è il giorno della verità, è il giorno della legge. La verità dei fatti in un processo penale non esiste. Esiste solo quello che emerge dalle carte e dalle indagini.

Non m’importa niente sapere con quale rito verrà giudicato Parolisi, da cittadino voglio sapere se ha ucciso o no sua moglie e sulle risultanze di che cosa.

Ma, come sempre, l’informazione gridata è sempre più forte di quella sommessa. Peccato che sia molto meno efficace.

I diritti delle donne e il 9 marzo di Geppi Cucciari

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E’ il giorno successivo all’otto marzo, quello in cui si fanno bilanci, analisi, riflessioni, previsioni, si esprimono speranze, si pospettano auspìci, il tutto riguardo al tema del “ruolo della donna nella società”, come se le donne avessero un ruolo nella società solo l’otto marzo, come se le donne potessero far sentire la loro voce solo in quella data, come se l’anniversario di una tragedia sia di per sé una festa in cui regalare chicchi di mimosa che hanno ormai perduto ogni odore.

Il “Corriere della Sera”, oggi, pubblica un intervento di Geppi Cucciari. Che non ho mai capito bene chi sia o che cosa faccia nella vita. Cioè, so di per certo che fa l’attrice comica, e che recentemente ha “salvato” lo share della serata finale del Festival di Sanremo, ma mi è sempre sfuggito il motivo della sua popolarità. Non importa, non devo capirlo io, dev’essercene pur uno. Ogni tanto la vedo far pubblicità a uno di questi yogurt che sgonfiano la pancia grazie a un particolare fermento lattico, ma nient’altro.

Diciamo che il suo articolo sul “Corriere” di oggi è quanto di più compiuto io abbia letto o fruito della produzione di questa artista, e tanto sia.

L’articolo si intitola “Buon 9 marzo a tutte (e a tutti)”. Bene, la sfera maschile viene messa tra parentesi. E’ decisamente un buon inizio. Oh, per carità, mi sta benissimo anche essere messo tra parentesi, ma in un clima in cui si invoca tanta parità ed equità di diritti, una bella parentesi è proprio quello che ci vuole.

Il testo non mi entusiasma. E’ una comicità che non mi pare abbia elementi di particolare originalità, quella della Cucciari. E’ uno stile lellacostiano con punte neo-littizzettiane (“Com’è andata, donne? Avete ceduto alle lusinghe della cena con le colleghe, del conto alla romana, dello strip alla californiana? Come avete mostrato il vostro orgoglio uterino? Abbeverandovi di sapere gratuito in un museo, oppure di mojito pagato in un capannone di periferia, magari infilando monete da due euro nella canottiera di uomini dall’incarnato caramellato e muniti di sopracciglia depilate ad ali di gabbiano?”).

Il senso dello scritto ruota intorno al luogo comune (che, in quanto luogo comune, corrisponde a una perfetta verità) del “guarda che democrazia e che diritti hanno all’estero mentre noi in Italia siamo più indietro delle ruote dell’ultimo vagone di un Eurostar”.
Sì, lo sappiamo che all’estero stanno meglio di noi. O, magari, per certi versi, anche peggio. Solo che noi siamo portati a vedere quello che più ci fa bene vedere. Forse perché effettivamente stiamo così male, e siamo messi perfino peggio, che basta veramente poco a superarci.

E dov’è che si sta meglio? Ma in Spagna, naturalmente. Terra di mille diritti (sacrosanti, aggiungo) riconosciuti (giustamente, aggiungo) e legittimati. Ci si può perfino sposare tra gay in Spagna. Non è l’unico paese in cui i matrimoni omosessuali sono riconosciuti, naturalmente, ma è quello in cui il dato in questione salta subito all’occhio, chissà mai perché.
E infatti: “Per dire: cos’ha la Spagna più di noi? A parte Messi, intendo. Di sicuro una legge sulla procreazione assistita degna di questo nome, ad esempio. Che non si mette a contare gli ovuli come fossero «gratta e vinci» e permette persino la fecondazione eterologa. Forse ho sbagliato esempio, ma un viaggetto, Barcellona, lo vale comunque. Bocadillo, sangria e fiocco azzurro. O rosa, se sperate che sia femmina e volete chiamarla come vostra madre.”

E’ bella questa visione della Spagna. Il “bocadillo” (come se in Spagna non si mangiassero anche delle meravigliose ‘tapas’, tradizione gastronomica che ci dà tonnellate di polvere, il faut le dire…), la “sangria” (roba da turisti, su riconosciamolo… Oh, mica che gli spagnoli non la bevono, ma sanno di poter bere molte più cose, e, già che ci sono, lo fanno -magari chi va a Barcellona si degusta anche una “copa” di anisetta, di quelle che ti fanno gridare al miracolo-) e… il fiocco azzurro o rosa.
Sembra un pacchetto turistico. E, per certi versi, lo è. E’ triste che sia una comica a segnalarlo. Certo, i matrimoni gay e la fecondazione eterologa sono diritti incontestati in Spagna, ma c’è il rovescio della medaglia, ovvero che le coppie, spagnole o straniere che siano, per avere un figlio, sborsano una barca di quattrini a una sanità di tipo privato che smuove una quantità di denaro incredibile.

Sono i diritti che si trasformano in industria, dove quello della maternità e della paternità non è solo un diritto, ma è anche, e per inciso, un business.
E’ il business del “bimbo in braccio”, che è un’espressione molto infelice e scoraggiante che dovrebbe essere l’equivalente di “chiavi in mano”, solo che non si parla di automobili, ma di bambini, di madri, di padri, di donatrici di ovociti e di donatori di spermatozoi, tutto pronto, tutto subito, basta farsi un giro in Internet per vedere i siti delle cliniche spagnole e i relativi prezzi di fornitura di n. 1 embrione con garanzia di successo, analisi cliniche relative, cure ormonali per le donatrici, accuratamente selezionate, però, perché non ti salti fuori un bambino coi capelli rossi se la futura mamma e il futuro papà sono mori. O biondi. Vale anche per le coppie omosessuali, ça va sans dire.
Barcellona è lì con la sua movida. Fare un figlio sembra facile almeno come andare a bere un cocktail. Un “Mojito”, naturalmente. Perché fa molto “movida”, el ritmo de la noche, salsa, fiesta, vamos a la playa, ma intanto chi non ha i soldi alle libertà degli spagnoli non può accedere e sono tragedie marginali perché non possono essere narrate come postille alle pagine del Corriere della Sera da una attrice comica che si sgonfia con l’Acidophylus.
Perché nella perfetta Milano-da-bere del Corriere, anche un testo suppostamente comico va calibrato su una serie di stereòtipi duri a morire. Mancavano solo “corrida”, “olé”, “una mano en la cintura”, “un movimiento sexy” e “baila guapa”.

Poi è la volta della Svezia: “Riproviamo: cos’ha la Svezia più di noi? Una legge sulla maternità degna di questo nome, giusto per non scomodare solo gli Abba. E infatti il tasso di disoccupazione femminile è più basso di quello maschile e il papà ha l’obbligo (sì, l’obbligo) di prendersi il congedo di paternità. E anche la differenza tra salari maschili e femminili è tra le più basse al mondo. Forse per quello le donne sono più fertili e a Barcellona ci vanno solo a vedere la Sagrada Familia.”
La legge sulla maternità (e sulla paternità, aggiungerei, ma sempre tra parentesi, così anche la Cucciari è contenta) ce l’abbiamo anche noi, e, comunque, sì, in Svezia la legge è senz’altro migliore. Con buona pace degli Abba, dell’Ikea (citata poco dopo), di Filippa Lagerback (lasciata, per fortuna, fuori dai giochi dell’articolo) e di Stieg Larsson (non citato, forse perché non sta bene tirare in ballo le persone defunte).
Quindi sì, possiamo annunciare trionfanti, addobbando festosi i nostri veroni, che in Svezia la maternità è molto ben tutelata. Per chi ci arriva alla maternità, perché la Svezia è uno dei paesi europei con la più alta incidenza di suicidi tra la popolazione femminile. Depressione, pare. Che sommata alla depressione “post-partum” (tanto sempre di maternità si parla) è un cocktail davvero micidiale, altro che “mojito”.
E, si sa, le svedesi non sono tutte Lisbeth Salander.

E in Romania non vogliamo andare? “Cosa ci sarà mai a Bucarest che non si trovi a Roma, la città più bella del mondo? Una legge sul divorzio degna di questo nome, per dire. Mettiamo che il marito ti scaldi, certo, ma meno di una volta. Mettiamo che tu voglia cambiare elettrodomestico e che il medesimo sia d’accordo. In Italia per divorziare servono il pil del Belgio, avvocati acrobatici e soprattutto anni di attesa, che a una certa età valgono sette volte tanto, come gli anni dei cani.”
In Romania, dunque, si divorzia. Se hai un calo della libido, una prostatite o un principio di impotenza, reversibili o no che siano queste patologie, tua moglie può chiedere il divorzio e ottenerlo in tempi rapidi e efficaci.
Bello! Poi magari viene in Italia a fare la badante perché, dopo aver divorziato, non trova lavoro nel suo paese che, guarda caso, ha un tasso di disoccupazione molto preoccupante.

Ma voi fatevi ingravidare pure a Barcellona, prendete il vostro sacrosanto permesso di maternità a Stoccolma e mandate pure a fare in culo il partner a Bucarest. Sarete delle donne perfette.

Guido Olimpio condannato per diffamazione dalla Corte d’Appello di Milano: dovra’ risarcire 120.000 euro a Youssef Nada e Chaleb Himmat

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[Luca Bauccio]

L’amico e avvocato Luca Bauccio ha conseguito un brillante risultato rappresentando in giudizio innanzi alla Corte d’Appello di Milano i cittadini Youssef Nada e Chaleb Himmat,  nei confronti del giornalista Guido Olimpio del Corriere della Sera, che dovrà risarcire 120.000 euro alle controparti.
Nella motivazione della Corte di Appello a favore di Youssef Nada e Chaleb Himmat si legge che quanto riportato da Guido Olimpo costituisce “mere congetture e illazioni” da cui è derivata una “seria lesione alla reputazione”.

A Luca Bauccio i migliori complimenti da parte del blog.

Severgnini, l’anonimato e gli pseudonimi

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Di Beppe Severgnini ho già parlato, en passant, qualche mese fa.
Non ho assolutamente nulla contro di lui, lo considero uno scrittore ed opinionista leggero, ideale e divertente da leggere in aereo per passare quelle due o tre ore da Roma a Dublino (o Londra, O Berlino, o Parigi, O Budapest, o…) e/o viceversa, giusto per distrarsi dalla tensione che ci prende quando siamo in quota e che ci fa aggrappare alla moquette dell’aereo direttamente con le dita dei piedi. Quei libri comprati nelle librerie internazionali degli aeroporti di tutti il mondo, e di cui poi regolarmente ci dimentichiamo con un sorriso assieme al nostro carico di souvenirs, carte d’imbarco scadute, passaporti da rimettere a posto, calzini sporchi da lavare, e una scheda da 2 Gb di foto che avremmo voluto far vedere ai nostri amici di Facebook.
E, comunque, quella di Servergnini è una letteratura di "genere", da gentleman d’antan, da ritrattista dei vizi e costumi degli italiani, e mi va anche bene, ma recentemente ha scritto un articolo sull’anonimato in rete (1) che mi ha lasciato alquanto interdetto, dal titolo "Blog, forum o gorillaio (abbasso l’anonimato!)". Evviva, almeno fin dal titolo sappiamo come la pensa Severgnini e possiamo decidere se andare avanti nella lettura o meno.

Scrive il Nostro:
"La questione è quella dell’anonimato. E’ stato detto e scritto, anche da parte di persone informate e perbene, che rappresenta la libertà. Non sono sicuro di questa equivalenza, in una società aperta. Temo possa diventare, invece, un invito all’irresponsabilità e una copertura per l’ignavia; a lungo andare, la ricetta per l’irrilevanza. Non sapere chi dice una cosa rende questa cosa meno interessante: non viviamo dentro un romanzo di Sciascia."

Ora, l’affermazione secondo cui non si vive dentro un romanzo di Sciascia mi pare facilmente confutabile. Di uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaqquaraqquà è pieno il mondo e Severgnini è troppo intelligente per non essersene accorto. Chiaramente è una captatio benevolentiae.
L’anonimato, in rete e non, sicuramente rappresenta la libertà anche in una società aperta. Si va dalla libertà di non indicare il mittente in una lettera alla fidanzatina per paura che la mamma di lei ci sgàmi alla libertà di fare squilli anonimi con il #31# premesso al numero di telefono dell’amante per evitare che la sgàmi il marito e la corchi di mazzate. Sono solo due degli usi (il primo è un po’ romantico e assai rétro, lo ammetto…) più diffusi e quotidiani di anonimato.
Ci possono essere migliaia di motivi per cui uno decide di restare anonimo, e possono essere tutti legittimi e perfino di beneficio (se non altro per evitare le mazzate di cui sopra). Ma questo l’ho detto tante volte.

Poi, parlando del suo blog "Italians", ospitato dal Corriere on line, chiarisce:
"Da tre mesi abbiamo introdotto la possibilità di commentare le dieci lettere quotidiane (le migliori tra quelle che arrivano). Immediato successo (di numeri) e immediati problemi (di comportamento). Firmandosi Lettore 98765, Scarpette Rosse o VendicatoreBrianzolo – nomi di fantasia, non voglio gratificare gli esibizionisti – molti hanno preso a tempestare il blog di ripetuti, petulanti, lunghissimi, anonimi commenti."

Il problema di Severgnini non è, dunque, l’anonimato ma lo pseudonimato, di cui, si sa, la rete è piena.

Severgnini confonde un vezzo con un diritto. Il fatto che Internet sia piena di gente che pensa di potersi rendere invisibile firmandosi "Lambretta" o "Paciughina58", oppure ancora "SciurCumménda" (nomi anche i nostri di fantasia, e comunque, seguendo il ragionamento di Severgnini, di esibizionisti ne abbiamo molti, e gli spammer, grazie al cielo, non mancano…) , non significa che questo sia anonimato.
Scambiare l’anonimato per maleducazione, o pretesa di impunità, in rete è profondamente sbagliato. Perfino un blog scalcinato come questo registra gli indirizzi IP di tutti i commentatori. Scegliersi uno pseudonimo in rete è un po’ come pretendere di andare in giro con una macchina e non voler essere identificati dal numero di targa. Indignarsi per questo significa non sapere come funziona la rete. Non c’è nulla di male a non sapere come funziona la rete, e, certamente, nessuno è degno di critica solo per questo, ma le opinioni si agganciano sempre ad altre opinioni. Petulani? Noiose? Ripetute? E sia. Ma l’anonimato (ossia l’essere effettivamente irrintracciabili sulla rete) è ben altro. E’ quello che permette a chi vive o opera in regime di censura o di limitata libertà di informazione e comunicazione di non essere perseguito per quello che scrive. Severgnini potrebbe dire che lui ha parlato di chi vive in una "società aperta". Appunto. Sarà mica una
società aperta quella che ci mette al 77° posto nel mondo per libertà di informazione!


"Tra i compiti di un grande giornale, sono convinto, c’è anche quello di chiedere una piccola prova di educazione civica. E adesso, avanti: ditemi pure che sbaglio. Ma ditelo mettendoci nome e cognome."

Severgnini sbaglia. E io il mio nome e cognome sul mio blog ce l’ho sempre messo.

Di Roberto Saviano e del perseverare dell’apostrofo

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Non è che Beppe Severgnini sia, come si suol dire da qualche parte, esattamente "nei miei santi".

Ho un paio di libri suo che ho letto con distrazione ma, tutto sommato, con gusto. Lo stesso gusto che mi dà un sandwich al pollo servito sull’aereo quando ho fame. Si può mangiare e non c’è neanche troppo da fare gli schizzinosi. Anche se dopo si atterra e si va a mangiare qualcos’altro.

Oggi però ho trovato interessante la disamina, un po’ impietosa e un po’ comprensiva, che Severgnini ha fatto del modo di scrivere su Twitter dei più famosi personaggi della cultura e dello spettacolo.

Il "casus belli" è uno svarione, per la verità abbastanza comune, di Roberto Saviano che su Twitter ha lanciato un messaggio che testualmente recitava: «Khadz Kamalov, un giornalista coraggioso, è stato ucciso. 70 giornalisti russi uccisi in Russia. Qual’è il peso specifico della libertà di parola?»

Ora, il problema è che "Qual è" si scrive senza apostrofo. Da sempre.

Invero è un errore piuttosto comune. Specialmente se si scrive al computer o si mandano SMS. Un altro errore frequente è quello di scrivere (appunto!) "un’altro" con l’apostrofo. Certo, non è detto che, siccome l’errore è frequente è diffuso, solo per questo non è un errore. Diciamo che è una di quelle cose che fanno tutti, come copiarsi i CD, mettersi le dita nel naso ai semafori o non rilasciare lo scontrino fiscale. Trova tolleranza nel senso comune ma non lo trova nell’ortografia. E va beh.

Severgnini, a dirla tutta, non si mette nemmeno poi troppo a bacchettare Saviano, anzi, scrive che un errore del genere aggiunge "genuinità" a quello che si scrive. Lo rende più umano, meno asettico.

E, in fondo, appunto, tutti sbagliamo o possiamo sbagliare.

Certo, è vero, tutti sbagliamo o possiamo sbagliare. Io lo faccio continuamente. Ad esempio uno degli errori più frequenti che mi vengono è "telfono" per "telefono". Mi può capitare di ripetere due volte un concetto in una frase. A proposito di un mio post recente qualcuno ebbe a bacchettarmi perché, nel titolo parlai di "rapporto tra alunni e allievi" (quando, evidentemente, dovevo scrivere "rapporto tra insegnanti e allievi"). Oh, per carità, nulla che non si possa correggere, ma il "Crucefige!" è sempre lì, ognuno ha la sua pietra pronta e la scaglia anche perché l’ortografia offende, giustamente, il senso estetico di molti e, per carità, è una questione di stile ("Ah, che disgrazia le questioni di stile!"). Roberto Saviano, poi, ha corretto l’errore e tutto si sarebbe potuto concludere a tarallucci e vino, ovvero, con un articolo sul sociologico-pignolino andante di Severgnini e il "mea culpa" di Saviano. E viandare, voglio dire, gli apostrofi sono importanti ma non se ne può fare una questione di vita o di morte. In fondo Saviano ha scritto solo un intervento su Twitter, mica il discorso di ingresso all’Accademia della Crusca!

Quella che lascia perplessi è la successiva reazione di Saviano (affidata, manco a dirlo, a Twitter): «Ho deciso : - ) continuerò a scrivere qual’è con l’apostrofo come #Pirandello e #Landolfi. r.» [1]
Ora, preso atto della captatio benevolentiae di Saviano e della sua faccina, bisognerebbe ricordargli in primo luogo che non è né Pirandello né Landolfi, ma questo, probabilmente, lo sa già per conto suo.
E, successivamente, fargli presente che ciò che, forse, disorienta il lettore, non è tanto l’errore in sé e per sé, quanto il fatto che venga da uno scrittore e tra i più osannati e riveriti del nostro tempo.
Voglio dire, il minimo che uno si aspetta da uno scrittore di professione e che vende milioni di copie dei suoi libri è che non faccia di questi errori.
Se qualcuno che mi manda una lettera scrive sulla busta "Roseto degli Abbruzzi" (come mi càpita spesso di vedere) ci rido, ma se "Il fatto Quotidiano", come fa spesso, scrive "Abbruzzo" con due "b" un po’ mi incazzo,  perché pago un giornale in cui lavorano giornalisti e tipografi che spero conoscano il loro mestiere.

La fretta, la necessità di mettere in linea tutto e subito, l’intervento magari mandato a Facebook o Twitter dal telefonino mentre si è in movimento costituiscono le attenuanti generiche per tutti. E, proprio per questo, basterebbe dire "E va beh, ho sbagliato…" anziché dichiarare "continerò a scrivere qual’è con l’apostrofo". Adesso aspettiamo anche che Saviano scriva "continuerò a pubblicare per Mondadori".

[1] https://www.valeriodistefano.com/public/savianoapostrofo.png

L’aborto di una sedicenne e la “piccola storia ignobile” che vale almeno due colonne sui giornali

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"…è una storia un po’ complicata
è una storia sbagliata.
Cominciò con la luna sul posto
e finì con un fiume d’inchiostro"


I fatti sono men che interssanti. E’ una storia imbarazzante, magari nemmeno da home page di un quotidiano locale. E’ una di quelle storie un po’ torbide, "una storia per parrucchieri", come l’avrebbero definita Fabrizio De André e Massimo Bubbola. Tanto che per questo post scelgo di non utilizzare nessun tipo di materiale iconografico, a parte quello che serve a documentare le affermazioni, e che metterò in nota.

Una ragazza di 16 anni è rimasta incinta di un ragazzo albanese appena maggiorenne.
Il ragazzo non dimostra di essere affidabile, in ogni caso non piace ai genitori della ragazza. Che in un primo tempo, anche contrariamente al parere dei suoi genitori,  sceglie di tenere il bambino, ma, dopo un colloquio con un magistrato, cui gli stessi genitori si erano rivolti, cambia idea. E abortisce.

Fatti nudi e crudi, questi, per i quali ci vorrebbe un po’ di pudore, un po’ di quel "rispetto" che piace tanto ai luoghi comuni di certa gente perbene che si trincera dietro la lettura del "Corriere della Sera" o di "Repubblica". Quel rispetto che non c’è più neanche fra di noi, come canta Zucchero, quel rispetto che ci fa vedere in una ragazza di 16 anni una minorenne che vive una serie incredibile di drammi, e che come tutte le minorenni che vivono dei drammi (affrontare una scelta la cui responsabilità ricade unicamente su se stessa dvanti a un magistrato, sia pure con tutte le cautele del caso è un dramma grandissimo) deve essere lasciata in pace.

Non è una notizia.

Ci sono centinaia di ragazzine minorenni che restano incinte. E i drammi familiari che ne conseguono sono tutto men che da sbattere sui giornali.

Il "Corriere della Sera" [1] fornisce la notizia in modo abbastanza sobrio. Si limita ad aggiungere che il ragazzo albanese, partner della sedicenne, l’avrebbe picchiata spesso. Non è una bella cosa. Né picchiare una sedicenne, dico, né, tanto meno, fornire questo dato "accessorio" che comincia ad aggiungere dramma al dramma.
Ma fin qui la notizia risulta equilibrata, quanto meno non trascende troppo.
"Repubblica" [2] [3], invece, comincia a sciorinare tutta una serie di dati imbarazzanti perfino per il lettore finale (che dovrebbe essere, nel crudele gioco delle parti, il destinatario a cui si danno in pasto questi resoconti poco edificanti, utente finale di una strategia di scelta delle notizie che, tra l’altro, non dipende nemmeno da lui.

Intanto, oltre al luogo in cui il fatto è avvenuto (riportato anche dal Corriere), Repubblica riporta il nome della ragazza. Che sia il nome vero o sia completamente inventato non ha importanza. Quello che importa è che alla ragazza qualcuno ha voluto procurare una identità agli occhi di chi legge. Vera o fittizia che sia. Non conta che si chiami Lilly, Milly, Fuffy, Baby, Trilly o Deborah, piuttosto che Samatha, piuttosto che Valentina, o qualche altro nome da canzone di Antonello Venditti o da romanzo di Federico Moccia. Conta che per "Repubblica" la ragazza sia uscita dal suo diritto all’anonimato (quello che interessa, sempre ammesso e non concesso che interessi, in questo caso, è la notizia, non chi sia lei).

Poi sappiamo che la ragazza "portava sul corpo i lividi" (delle percosse, immagino). Carini. Gentili a scriverlo. E’ un atto di politesse notevole da parte di un giornale a diffusione nazionale affondare il pennino non già nell’inchiostro della libertà d’informazione, ma nelle carni già abbastanza lacerate di una ragazzina minorenne, e oltretutto picchiata.

Ma quello che stupisce, se possibile, ancora di più, a parte il riportare le parole del direttore del settimanale diocesano "Vita", che non si sa bene cosa c’entrino con la scelta-non-scelta di una ragazzina di sedici anni, è che "un anno fa (…) aspettava un altro bambino e aveva fatto ricorso alla pillola abortiva."

Ma come si permettono? Una interruzione di gravidanza è un’esperienza strettamente personale, cosa importa se la ragazza, un anno fa, abbia fatto ricorso alla pillola abortiva o a un intrevento ospedaliero o ambulatoriale? E quanto dolore deve ancora sopportare una ragazzina (certamente poco avveduta, poco accorta, magari anche poco responsabile e/o responsabilizzata nelle proprie scelte) oltre al non vedersi riconosciuto il sacrosanto diritto all’oblio rispetto a un’esperienza passata, che spunta di nuovo fuori dalla melma del disagio per assurgere il ruolo di carico da undici nei fiumi di inchiostro e di b
yte che ci invadono quotidianamente?
Non voleva abortire, lei. Nel bene o nel male che fosse quella era la sua volontà. Perché io, lettore, io che non conto un cazzo, devo conoscerla? E, soprattutto, perché devo conoscere i suoi precedenti abortivi? Non sono un giudice, non ho nemmeno l’intenzione né tanto meno l’obbligo di dare dei giudizi morali su tutto questo, e la ragazza è carne viva, sì, ma nel senso che è persona presente e senziente.

E invece di lei, del suo volere, di quello che avrebbe voluto per sé, non si sa niente, tanto c’è chi si occupa di accompagnarla nelle sue decisioni e le chiosa con il proprio metro personale di valutazione, sia esso giornalista, direttore di testata diocesana, magistrato, assistente sociale o genitore.

Decenni or sono Guccini avrebbe parlato di una "piccola storia ignobile" che "non vale due colonne su un giornale".

E’ valsa, invece, sofferenza e spettacolarizzazione. Il sangue quotidiano della cronaca.
 
[1] https://www.valeriodistefano.com/public/abortocorriere.png
[2] https://www.valeriodistefano.com/public/abortorepubblica1.png
[3] https://www.valeriodistefano.com/public/abortorepubblica2.png

Milena Gabanelli e “Reportime” sulla web TV di corriere.it

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Ora, io non lo so se avete avuto la possibilità di vedere, come ho fatto io, Milena Gabanelli (ché va scritto con una sola "b", se no la gente s’arrabbia assai, poi la Gazzetta del Rancore scrive "Abbruzzo" ma non se lo fila nessuno) ospite da Fabio Fazio nel corso di  "Che tempo che fa!", trasmissione prodotta da Endemol, che fa capo al Gruppo Fininvest.

Non so se il suo intervento vi sia piaciuto. A me no.
L’ho trovato, sia dal punto di vista dei contenuti che da quello della strategia della messa in onda, decisamente lontano dallo slogan "Milena Gabanelli for President", che, pure, feci mio quando "Report" aveva vissuto tempi d’oro.
Non che oggi la trasmissione sia scaduta, anche se trovai pessima quella dedicata ai temi legati alla privacy su Facebook, quella in cui intervistarono un signore che disse che stavano per scadere i diritti d’autore sulle opere di Francis Scott Fitzgerald, (ma non ho mai capito -né la Gabanelli lo spiegò, invero- cosa avesse a che vedere quell’intervento col tema generale della trasmissione), programma criticatissimo dalla rete, critiche a cui la Gabanelli replicò: "Poi se non è piaciuto pazienza".

Va beh, la Gabanelli va da Fazio, e riferisce, tra le altre cose, che lei va in onda con gli stessi abiti con cui va in giro (e va beh…), e che l’estate scorsa si è fatta ben quattro giorni di vacanza. Informazioni senza le quali il pubblico applaudente della domenica sera, evidentemente, non può proseguire il suo percorso vitale.

Già, l’estate scorsa… l’estate scorsa cosa succede alla Gabanelli? Succede che le sue piante di melanzane si mettono a fare pomodori. Anche questa è una notizia fondamentale per il pensiero filosofico occidentale, ma curiosità vuole che la notizia fu data dal Corriere della Sera, nella sua versione bolognese on line.

Ed eccola, finalmente, la notizia. La "squadra" di Milena Gabanelli apre un canale che si chiama "Reportime"su uno spazio messo a disposizione proprio dal CorriereTV, la webTV del Corriere della Sera.
L’edizione cartacea del giornale dell’11 ottobre scorso (ieri, per me che scrivo e per voi che leggete) dedica l’intera pagina 40 a pubblicizzare l’iniziativa della Gabanelli e della sua "squadra" ( le virgolette della parola "squadra" non significano l’uso improprio del termine, ma riportano esattamente le parole usate nell’annuncio).
Una bella mossa pubblicitaria, che si conclude con il motto del Corriere della Sera.it: "La libertà delle idee".

Ma non basta, a pagina 31 della stessa edizione si trova un articolo a firma di Renato Franco (che riporta come casella di posta elettronica una improbabile "twitter@RenatoFranco70"sic!!!! provate a usarla per scrivergli…–  in cui si riportano le parole del direttore Ferruccio De Bortoli "Milena Gabanelli ha la massima libertà. La libertà di fare tutte le inchieste che vuole." [1]

Non ho nessun dubbio che la Gabanelli abbia la libertà di criticare la stessa RCS che la ospita.
Ho qualche dubbio in più che la Gabanelli possa arrivare a toccare il Sanctasanctorum dei politici e della gestione dello Stato, considerato che il gruppo stesso percepisce la più grande elargizione di denaro pubblico destinato al sostentamento delle iniziative editoriali in Italia.

Insomma, finché ci si becca fra noi va tutto bene, ma quando si becca la mano di chi ci dà da mangiare…

[1] https://www.valeriodistefano.com/public/gabanellicorriere.png

Le melanzane di Milena Gabanelli fanno i pomodori

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Da una pianta di melanzane dell’orto di Milena Gabanelli  è nato un pomodoro.

E’ una notizia? Parrebbe proprio di no, ma l’edizione di Bologna del Corriere della Sera l’ha, comunque, riportata sulla versione web (l’articolo lo trovate qui) con tanto di sottotitolo alla Agatha Christie: "l”enigma’ di casa Gabanelli", corredato da una serie di fotografie (cinque) in cui si mostra, sempre usando tra virgolette il sottotitolo di un classico del noir: "Lo ‘strano caso’ nell’orto di Milena".

Dopo l’arresto di Salvatore Parolisi si tratta sicuramente del caso più appassionante e inquietante di questa torrida estate: chi avrà messo i tumati insieme alle melanzane nell’orto della Sora Milena?

L’istruttoria comincia con la ricostruzione della stessa Gabanelli che dice: «Ho acquistato la piantina in un consorzio di Sasso Marconi. Le melanzane erano buonissime, però mi sono chiesta: come mai dalla stessa pianta crescono anche i pomodori?»
A risolvere l’annoso enigma ci pensa il Dott.  Francesco Orsini: «Si tratta di una pianta innestata (…) Chi vuole ottenere in vivaio una pianta di melanzane, di solito la innesta sulle radici del pomodoro perché queste sono più resistenti. Stavolta probabilmente non avevano tagliato bene l’apice e, assieme alle melanzane, è cresciuto anche un rametto di pomodori. È un inconveniente che può succedere, ma non ci sono rischi per la salute. Gli ortaggi possono essere tranquillamente mangiati».
Conclusa l’indagine, e visto che non c’erano prove sufficienti per incastrare il pomodoro malvivente, la Gabanelli conclude: «Vorrà dire che mangerò anche i pomodori, le melanzane erano già buonissime».

Ecco, un bell’articolo linkato in home page dal Corriere, e tutto perché il mondo sappia che la Gabanelli mangia le melanzane con la pummarola ‘n coppa.

Ora possiamo tutti dormire sonni più tranquilli.

Il dialogo tra Grillo e Celentano sul Corriere della Sera nell’italica Puttanopoli

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Qui a Puttanopoli, tra anchormen, zoccole, prove tecniche di regime, nipotine di Mubarak, igieniste dentali e palazzo della politica blindato non poteva che mancare il profeta Adriano Celentano a fare da sommo sacerdote e riportare le parole di Gesù in prima pagina sul Corriere della Sera, in un "dialogo" con Beppe Grillo che, ovviamente, a tratti non capisce cosa stia dicendo l’interlocutore.

Il "Corriere", come è altrettanto logico, trova che questo colloquio tra Celentano e Grillo sia il massimo della democrazia e della tolleranza. Scrive infatti il Direttore De Bortoli:


Adriano Celentano, ogni tanto, manda un suo scritto al Corriere. Non sempre siamo d’accordo con lui. Ma la libertà dell’artista, specie di questi tempi, è sacra ed è sempre una ventata d’aria fresca. Per fortuna. È un colloquio con Beppe Grillo su temi d’attualità. Grillo non è mai stato tenero con noi. Ma anche la sua libertà qui è rispettata. (f. de b.)


Ora, il fatto che Celentano mandi uno scritto al Corriere ogni tanto non significa che il Corriere debba per forza pubblicarlo.
C’è un sacco di gente che scrive lettere ai giornali e fa telefonate alle testate televisive e radiofoniche per dire come dovrebbe fare il Presidente della Repubblica a sbrogliare la matassa della crisi del Governo, o a dire che ci penserebbe volentieri lei, se potesse, a fare andar bene le cose. Però mica son così scemi da pubblicargliele anche, o di mandarle in onda.


Quelle di Celentano, invece, sì, si pubblicano sempre.
De Bortoli come Voltaire, "Non sono d’accordo con la tua opinione ma darei la mia vita perché tu possa esprimerla liberamente."


Le affermazioni di Celentano sono "una ventata d’aria fresca" per il maggior quotidiano italiano, e da oggi abbiamo scoperto che in Italia anche uno come Beppe Grillo può dire la sua.

Caspita che democrazia!

E così eccoci tutti ad ascoltare Celentano che auspica qualcosa di "Rock" per uscire dallo Stato Melmoso di Puttanopoli.

Ed eccole le perle di saggezza che aspettavamo tutti: "Come diceva Gesù: "Se già nel piccolo si è onesti, a maggior ragione lo si è nel grande".

Certo che a citare Gesù di Nazareth ci si sente un po’ santoni, soprattutto se Gesù quella frase non l’ha mai detta. Oh, prendete i Vangeli se non credete a me, e andate a ripassarvi quei quattro simpaticoni di Matteo, Marco, Luca e Giovanni e poi ditemi voi dove si trova una cosa del genere, perché io non la trovo. Non la trova nemmeno Grillo che infatti sente puzza di bruciato: "Io non so se Gesù l’ha detta veramente questa cosa (…)"

Celentano dice che "la gente ha bisogno di uno SCATTO. Uno scatto che gli indichi la DIREZIONE. Quella direzione ormai remota e persa tra le pieghe di un sogno purtroppo svanito."
E Grillo gli fa giustamente notare "Però non mi hai ancora detto in cosa consiste lo scatto di cui parlavi" (della serie: "vai al sodo"). i
Il Profeta, di rimbalzo: "Forse perché non ho ancora ben chiaro a quale scombussolamento esso ci porterebbe". Giusto cielo! In Italia c’è ancora chi usa "esso" come pronome personale!

Neanche i Profeti, quelli veri, quelli dell’Antico Testamento tradotti da Giovanni Diodati nel ‘700 usavano un linguaggio così ampolloso e desueto.

E quelli del "Corriere" che nel riportare il battibecco fra Grillo e Celentano, chiamano il cantante "Adrian" (non "Adriano") perché evidentemente fa più figo.

Del resto, un santone fa sempre comodo, e lo si ricicla sempre volentieri, in un’Italia di puttane e puttanieri figuriamoci se uno che ha cannato un’operazione commerciale di bassa lega come "John Lui" non si ricicla condannando i secondi e dicendo alle prime "andate e non peccate più". Ci manca solo che qualcuno raccomandi alle donne di conservare l’unguento per la propria sepoltura e poi siamo a posto.
Per poi concludere che "È incredibile come l’Italia sia ridotta a un vero e proprio groviglio di conflitti di interesse."

Ecco, se n’è accorto anche Celentano.
Ora aspettiamo con gioia la sua iscrizione al Partito Democratico.

Corriere della Sera: “L’e-book cambieranno la conoscenza!”

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– Ti chiami "Corriere della Sera"??
– Vuoi occuparti anche tu di cultura???

Ma figùrati, non c’è problema, di CULTURA® te ne diamo a ballini, sempre e comunque.

E poi vanno dimolto di moda gli ibùc, non lo sapevi??

E allora quale migliore occasione per fare un bell’

ERRORE GRAMMATICALE(Tm)???

Di’ pure a tutto il mondo che ti legge ollàin

"L’ebook cambieranno la conoscenza"

e ti trasformerai come per incanto nel quotidiano più stampato, comprato, letto e finanziato pubblicamente d’Italia.

Un bell’investimento (e i consigli te li diamo gràtisse, poi dinne male…)

Corriere della Sera: la pedofilia femminile e’ un “disturbo mentale”

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I giornali ormai scrivono robe da neurodelirio. E il bello è che prendono anche sovvenzioni pubbliche per scriverle.

Il “Corriere della Sera”, in versione on line, ha dato l’allarme sulla pedofilia femminile.

La fa passare come una sorta di fenomeno di nicchia, sconosciuto, di cui si parla con pudore, o, preferibilmente, non si parla tanto volentieri.

E lo tratta come un “disturbo mentale”. Sconvolgente finché si vuole ma sempre un disturbo mentale.

Dunque, c’è da chiedersi, se la pedofilia delle donne è un disturbo mentale (come la depressione, l’ansia, l’Alzheimer), cioè una patologia psichiatrica, perché quella degli uomini è un reato?

E com’è che se un pedofilo molesta un ragazzino lo incarceriamo (giustamente) per mesi e se lo fa una donna è malata?

Messaggi nevrotici. Cortocircuito dell’informazione.

Finché non crolleremo tutti per aver espiato la pena di sopportare queste falsità.

3 ottobre 2009: la protesta della vergogna dei blogger

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Le iniziative strampalate ed estemporanee in rete pullulano di idee vecchie come il cucco e sempre più ripetitive.

Il 3 ottobre qualcuno si è inventato la protesta dei blogger. Vorrebbero che ciascuno si unisse alla protesta della stampa italiana di regime per il bavaglio alla libertà di informazione. Pretenderebbero o auspicherebbero, in altre parole, poveri illusi, che i blogger scendessero vitualmente in piazza per protestare contro le leggi che stanno per chiudere loro la bocca in Internet, appoggiandosi al baillàme dei vari “Repubblica”, “Corriere”, “L’Unità” e compagnia cantante.

Avranno pensato che se il baraccone mediatico trascina i grandi, qualche pesce piccolo si può sempre unire alla fanfara e fasri suonare il suo pezzetto di musica dal tamburo principal della banda d’Affori dell’editoria, che comanda da solo centocinquanta pìfferi.

I blogger scendono in piazza assieme agli organi di stampa che godono delle sovvenzioni e dei contributi pubblici che lo Stato elargisce a piene mani da Giuliano Ferrara a Concita Di Gregorio, passando anche per “Liberazione”. Un blog non riceve sovvenzioni da nessuno. E c’è una differenza sostanziale.

Dicono che il 3 ottobre tutti dovremo uscire con un post contro la repressione della libertà di opinione e di divulgazione del pensiero. Ma è quello che sto facendo da sempre. Perché mai questa attenzione al 3 ottobre? Il 4 forse le cose miglioreranno? Cambieranno? No di certo.

E che dire del fatto che il tre ottobre prossimo la manifestazione dei precari della scuola sarà oscurata dal tam tam dei blogger e dei giornalisti di regime che si sono accorti solo ora che c’è qualcuno che li sta trattando con il bastone. Ma è lo stesso padrone dalla cui mano hanno mangiato volentieri le carote.

Vergogna blogger!!

Mara Carfagna scrive una lettera al Corriere e difende Berlusconi. Cioe’ se stessa.

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Il "Corriere della Sera" arriva a scuola ogni giorno.

Ce ne mandano tonnellate di copie con la stampigliatura "Copia scuola" perché nelle scuole superiori italiane c’è sempre qualche collega (donna!) che ti calpesta i testicoli con i tacchetti a spillo all’inizio di ogni benedetto anno scolastico e ti dice "Vuoi partecipare all’iniziativa ‘Il quotidiano in classe’"?.

Ecco, detta così sembrerebbe anche una cosa interessante, ma il punto è che gli unici giornali che arrivano solo "Il Sole 24 Ore", lasciato intonso perché chi se ne frega dell’economia, e il "Corriere della Sera", sfogliato svogliatamente dai ragazzi solo nelle pagine dello sport e solo quando gioca il Milan.

Questi quotidiani non ci fanno un regalo a inviarci tutte quelle copie. Sono già pagati coi finanziamenti pubblici (tutti dindini che scuciamo noi!) che lo stato elargisce a palate alle testate giornalistiche. E quando è suonata l’ultima ora vanno a finire direttamente nella raccolta della carta.

Ogni tanto capita che qualche classe vada in gita, oppure che smetta di venire a scuola perché gli esami di stato si avvicinano e non c’è trippa per gatti.

Allora lo sfogli il giornale. Lo apri e ti ritrovi la Carfagna che ha preso carta, penna e calamaio per scrivere nentemeno che al direttore.

Una lettera-delirio di cui vale riportare e commentare ampi stralci che fanno rimanere basiti sia per l’italiano con cui sono scritti, sia per la faccia tosta e la miopia intellettuale, morale e istituzionale che li permea.

La Carfagna ci prende bellamente per i fondelli, e sono convinto che da qualche parte d’Italia, qualche collega (sempre donna!) abbia letto in classe con gli alunni questo testo che trasuda opportunismo e pretende anche di essere preso sul serio.

"Gentile Direttore, trascorso un anno da un attacco mediatico di inaudita volgarità a cui sono stata sottoposta, sono qui a fare alcune considerazioni su vicende che in questi giorni ci sono state date in pasto con una morbosità e un’ossessività che ricordano molto quelle che hanno riguardato la sottoscritta."

La Carfagna parte subito, lancia in resta, a dire che lei è stata vittima di un attacco di "inaudita volgarità", quando sappiamo benissmo che la prima ad aver fatto uso della volgarità nella sua vita pubblica, anzi, esposta al pubblico, è stata proprio lei, icona del velinismo strisciarolo, ex bonazza da balletti col Gabibbo e oggetto dell’immaginario erotico del becerismo italiano per sua stessa volontà. Non vuole difendere il Premier (che tanto si sa che è lì che va a parare!), vuole, attraverso la giustificazione dei comportamenti del Premier, giustificare se stessa e togliersi di dosso un marchio che solo lei ha contribuito ad avere addosso. Usa parole come "volgarità", "morbosità" e alla fine parla di se stessa come se stesse scrivendo un atto pubblico: "la sottoscritta". Ma cosa sottoscrive? Non si sa, andiamo avanti…

"Sono qui a dire la mia, se mi è consentito."

Ha paura la Carfagna, e usa indirettamente il "mi consenta" che il suo datore di poltrona le ha insegnato, con una captatio benevolentiae stucchevole, come l’alunna che sta sempre zitta e poi, dal fondo, alza il dito per chedere il permesso di parlare, e finisce quasi sempre per dire cazzate.

"Qualcuno è ancora convinto che io, giovane donna che dalla tv è passata alla politica con Berlusconi, non abbia il diritto di parlare, non abbia nulla di sensato ed intelligente da dire."

E qui, non c’è che dire, ci ha preso in pieno.

"Ed invece vorrei osare così tanto. Mi sia consentito."

Lo ripete. Vuole osare. Vuole far vedere che anche in lei alberga la possibilità di realizzare un pensiero, senza abbandonarsi a quelle espressioni di stupore a cui ci ha abituati.

"Lo faccio perché ho testa. E cuore."

E tette e culo, certo.

"Certo, mi riconosco una buona dose di coraggio se sono qui…"

La Carfagna ricorda tanto la scena della dettatura della lettera in "Totò, Peppino e la Malafemmina" in cui Peppino De Filippo, che trascrive la dettatura di Totò, si deterge il sudore quasi stesse facendo una fatica erculea, peggio che andare a zappare i campi. Certo, anche qui dobbiamo dare ragione alla Carfagna, scrivere è certamente un atto di coraggio, per lei.

"Suvvia, siamo realisti. Il Parlamento vede tra i suoi banchi alcuni uomini dalle assai dubbie capacità politiche. Ma nessuno si sorprende."

No, certo, se in Parlamento siede lei, che di capacità politiche ne ha da vendere, perché stupirsene??

"Ma nessuno mai si è indignato. Onorevoli che candidamente hanno ammesso di prostituirsi prima di approdare alla Camera, altri che, durante il loro incarico, sono stati sorpresi a contrattare per strada prestazioni con transessuali."

E anche Onorevoli che si sono fatti appiccicare negli abitacoli dei camion per sollevare il morale ai poveri camionisti costretti a viaggiare per giorni con ogni condizione atmosferica.

"Ed è sorprendente che le dichiarazioni e la persona dell’ex fidanzato di Noemi Letizia, condannato per rapina, secondo qualcuno meritino più rispetto dell’impegno e della persona di una donna che ha l’unica colpa di aver lavorato in tv. Cosa è più grave, mi domando, aver lavorato in tv o essere stato un rapinatore?"

Poi, con la calma e la cautela del caso, qualcuno dovrebbe spiegare alla Carfagna che c’è chi ha lavorato e lavora in TV come la Gabanelli, oltretutto da precaria, e che non si è mai spogliata per nessun servizio fotografico. O forse si vuol far credere che il soubrettismo e il giornalismo d’inchiesta sono sullo stesso piano? No, ce lo spieghi la Carfagna, visto che parlando di Berlusconi, che è stato dichiarato corrotto da Mills in una sentenza di primo grado, lo ha definito:

"Un leader mai prepotente o arrogante, consapevole di una innata capacità seduttiva che ha usato a fini di ricerca del consenso e non per scopi morbosi. Un uomo leale, perbene e rispettoso. Una persona di garbo e gentilezza, doti che qualcuno vorrebbe declassare a mera finzione e che invece sono autentiche."

E ci dica, alla fine di questa estenuante ma necessaria disamina, cosa ci sarebbe di innatamente seduttivo nello sputare sui giudici che hanno avuto il solo demerito di appurare una verità che, se confermata da una sentenza definitiva passata in giudicato, a cui Berlusconi non arriverà mai, lo porterebbe dritto in galera. Anche in quegli ambienti qualche foto della Carfagna sarà stata appesa, giusto per ingannare un po’ il tempo.

Il Corriere della Sera mi cita. Ma sbaglia il link

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Mi sono arrivate in dieci minuti almeno due mail e un SMS in cui mi si comunica che su una pagina dell’edizione fiorentina del Corriere della Sera, si cita il mio blog.

La prima mail giunge dall’ormai onnipresente Pallesi Danilo (o Papanti Astarotte), che non mi scrive nè mi telefona mai, a meno che non muoia qualcuno di mia conoscenza (per cui quando vedo il suo nome sul display mi gratto adeguatamente le gònadi), che la su’ figliòla, l’infanta Marusca, non abbia dubbi grammaticali instillati da maestre da prendere a schiaffi, che non voglia indietro quelle cinquecento lire che mi prestò quindici anni fa.
La seconda segnalazione, sotto forma di commento, mi giunge da Eleno, Elebor, Alabar, Abracad… ma la gente non si decide mai a chiamarsi con nome e cognome?

Poi un SMS da un amico.

Troppa grazia. E tutto perché un articolo di valeriodistefano puntocò è stato citato dal Corriere della Sera, sia pure in una delle sue edizioni locali. L’articolo del Corriere in cui mi si cita riguarda la pubblicità della Coca Cola che ha come protagonista Giulia di Pisa, personaggio odioso, spocchiosetto, falsamente modesto, infido e antipatico come solo i pisani sanno esserlo, soprattutto agli occhi dei livornesi.

L’articolo è a firma di Alessandra Bravi e lo trovate qui:

http://tinyurl.com/qohh3d

Non ci vedo tutto qusto gran merito, anzi, la trovo una soverchia rottura di coglioni.

Prima di tutto perché quelli del Corriere sono dei pirla e citano i blogger solo per nome di battesimo ("Valerio scrive:", ma vaffanculo, siete voi che scrivete, e male, Valerio chi?? E’ come se io scrivessi "Alessandra mi ha citato", "Gianantonio su Corriere scrive…" trattano i blogger da scolaretti dell’asilo infantile, loro, giornalisti ignoranti), in seconda battuta perché nel voler mettere il link al mio blog hanno messo quello del blog di un altro. La citazione, però, corrisponde. Insomma, un "banale errore di digitazione", come direbbero quelli che l’hanno fatta grossa ma non vogliono che si veda.

Comunque la citazione è questa:

IL MONDO DELLA BLOGOSFERA – Ma è anche il mondo dei blog a scatenarsi. Valerio scrive: «Stasera quella pubblicità l’ho vista in versione televisiva. E’ oscena. Oscena soprattutto perché la protagonista parla di sé e asserisce di chiamarsi Giulia e di venire da Pisa. Che, voglio dire, per un livornese di adozione, ma anche per un non livornese, non è un bel viatico. Giulia da Pisa dice di essere amante delle cose semplici, dice di andare in bicicletta preferendola all’automobile, che così non inquina, che va volentieri a piedi, che preferisce stare a casa piuttosto che viaggiare così risparmia, Giulia, insomma, passa la domenica a casa a gustare il ragù della mamma bevendoci dietro una bella Coca Cola. De’, perché se ci beveva un bel bicchiere di vino un era pisana!».

E non c’è da andarne fieri.

E’ morto Candido Cannavo’

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Candido Cannavò era veramente un brav’uomo.

Un giornalista un po’ all’antica, di quei giornalisti sportivi a tutto tondo che c’erano una volta, e che si chiamavano Maurizio Barendson o Paolo Valenti, che parlavano di calcio con gusto, ironia, istrionismo e che, soprattutto, ne scrivevano sapendo di ortografia, grammatica, sintassi e bello scrivere.

Parlava di etica, di lealtà, sognava uno sport forse più vicino ai valori che alle logiche di mercato. Scriveva di calcio come di un’espressione nobile, e stava lontano da processi e velinismo spicciolo.

Ora lo sport non si potrà più neanche leggere, figuriamoci guardarlo