Consulta: “Inammissibile il referendum elettorale. Il quesito è eccessivamente manipolativo”

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La Corte costituzionale si è riunita oggi in camera di consiglio per discutere la richiesta di ammissibilità del referendum elettorale “Abolizione del metodo proporzionale nell’attribuzione dei seggi in collegi plurinominali nel sistema elettorale della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”, presentata da otto Consigli regionali (Veneto, Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia,Sardegna, Abruzzo, Basilicata, Liguria).
Oggetto della richiesta referendaria erano, in primo luogo, le due leggi elettorali del Senato e della Camera con l’obiettivo di eliminare la quota proporzionale, trasformando così il sistema elettorale interamente in un maggioritario a collegi uninominali.
Per garantire l’autoapplicatività della “normativa di risulta” – richiesta dalla costante giurisprudenza costituzionale come condizione di ammissibilità dei referendum in materia elettorale – il quesito investiva anche la delega conferita al Governo con la legge n. 51/2019 per la ridefinizione dei collegi in attuazione della riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari.
In attesa del deposito della sentenza entro il 10 febbraio, l’Ufficio stampa della Corte costituzionale fa sapere che a conclusione della discussione la richiesta è stata dichiarata inammissibile per l’assorbente ragione dell’eccessiva manipolatività del quesito referendario nella parte che riguarda la delega al Governo, ovvero proprio nella parte che, secondo le intenzioni dei promotori, avrebbe consentito l’autoapplicatività della “normativa di risulta”.
Preliminarmente, la Corte ha esaminato, sempre in camera di consiglio, il conflitto fra poteri proposto da cinque degli stessi Consigli regionali promotori e lo ha giudicato inammissibile perché, fra l’altro, la norma oggetto del conflitto avrebbe
potuto essere contestata in via incidentale, come in effetti avvenuto nel giudizio di ammissibilità del referendum.

Roma, 16 gennaio 2020

La sentenza della Consulta sul caso Cappato: da oggi siamo davvero tutti più liberi

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La notizia a quest’ora non è più una notizia. Le implicazioni della sentenza della Consulta sul processo a carico di Marco Cappato sì. Finalmente la Corte Costituzionale ha stabilito che, con determinati paletti, aiutare qualcuno a realizzare il suo proposito suicida, quando sia affetto da una patologia irreversibile che renda indegne le sue condizioni di vita, non solo è possibile, ma addirittura non costituisce reato ai sensi del famigerato articolo 580 del Codice Penale, pensato e redatto negli anni ’30 e mai scalfito da una qualche disposizione di legge successiva. C’è voluta la Corte Costituzionale, dunque, per riempire una parte della voragine che costituiva il vulnus lasciato incolmato da un Parlamento inerte e da interessi di partito e di parte trasversali a tutto l’arco parlamentare. I cattolici e i benpensanti dicano quello che vogliono: da oggi siamo tutti, ma veramente tutti (anche coloro che di questa sentenza non faranno mai uso, che sono la maggioranza) più liberi di autodeterminare il nostro “fine vita”. E’ la sconfitta della politica nel senso più bieco del termine, che non ha saputo o voluto, nell’arco di un anno, redigere una legge che esimesse la Consulta dal dare il suo parere su una materia così sensibile e delicata, è la sconfitta di tutti coloro che nelle ultime ore hanno tirato per la giacchetta la Corte Costituzionale pregandola di dare un tempo più lungo al Parlamento per decidere in materia. E’, invece, il trionfo dello Stato di diritto e della disobbedienza civile, dello sforzo di tante persone umili e determinate (penso a Beppino Englaro e Mina Welby, alla compagna di DJFabo, senza voler omettere nessuno), della libertà del singolo di autodeterminarsi, del trionfo della Costituzione italiana sui particolarismi e sulle divisioni della società. Restano le parole del comunicato stampa della Consulta che recitava:“La Corte  ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Tutto il resto, come le mie, sono opinioni. Legittime, liberamente esprimibili, ma pur sempre opinioni. Ma lasciateci respirare questo sorso d’aria pura finché c’è.

Marco Cappato: la giustizia in sospeso

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Il Palazzo della Consulta - foto tratta da Wikipedia -
Il Palazzo della Consulta – foto tratta da Wikipedia –

Tutti sono soddisfatti della decisione salomonica della Corte Costituzionale di rimandare al 24 settembre 2019 la decisione sulla costituzionalità dell’articolo 580 del Codice Penale in materia di aiuto al suicidio, decisione che sbloccherebbe, in un modo o nell’altro, il processo a carico di Marco Cappato per la morte di DJ Fabo e di rinviare al Parlamento il compito di riempire il vuoto legislativo esistente. Tutti soddisfatti, dicevo, perfino lo stesso Cappato. Tutti contenti, tutti felici. Tranne me.

Per l’amor di Dio, non è che la mia opinione sia determinante e fondante nella questione, ma trovo che si stia prolungando oltre ogni ragionevole attesa questo stillicidio e questa cottura sulla graticola di Cappato e dei diritti fondamentali alla vita e alla vita del diritto. Dai giudici di merito di primo grado del processo la palla è stata passata alla Consulta che ora la rilancia (“verticalizzando l’area di rigore”, direbbe un altro Poeta) al Parlamento che dovrebbe produrre un assist formidabile e insaccarla in porta di testa, producendo un testo di legge che colmi tutti i vuoti legislativi esistenti, cosa che questa maggioranza disgraziata giallo-verde non farà mai.

Rimaniamo ancora un anno col vuoto. La Consulta è stata cronometrica nel fissare la data della sentenza di merito che poteva dare già ieri e colmare quel vulnus che tanti additano e liberare Marco Cappato dalla spada di Damocle del dubbio. Tra una sentenza favorevole della Consulta e il suo processo, infatti, ci sono 15 anni di galera. E sono dati su cui non si scherza, o si scherza pochissimo.

La montagna ha partorito il topolino dell’attesa. E chissà il Parlamento quale non-pasticcio combinerà.

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La sentenza della Consulta sul caso di Marco Cappato

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Foto tratta da www.wikipedia.org
Foto tratta da www.wikipedia.org

Questo è un post a brevissimo termine.

Tra pochissime ore (se non minuti) la Corte Costituzionale si esprimerà sulla sorte di Marco Cappato, il cui processo per l’aiuto al suicidio nei confronti di DJ Fabo è stato sospeso in attesa del giudizio di legittimità costituzionale.

Sapremo, cioè, se l’aiuto (e non l’istigazione) al suicidio possa trovare una scriminante nei casi irreversibili e di gravissima rilevanza medica, oppure no.

Sapremo, inoltre, se possiamo ancora considerare quello in cui viviamo uno Stato di diritto oppure no.

Ho presagi oscuri. La materia è troppo importante e il fatto che si sia costituito l’avvocato dello Stato a difesa del Governo del Paese (il governo Gentiloni, per l’esattezza) mette un senso di inquietudine e di ansia insieme.

C’è solo da aspettare. E che l’attesa non si trasformi in stillicidio. Ne riparleremo nel pomeriggio/sera.

 

Incostituzionalità assoluta

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Siamo in gamba noi italiani. Abbiamo, per fortuna, una Corte Costituzionale che riporta le leggi dei parlamentini della seconda repubblica sui binari dello spirito della volontà dei Padri Costituenti.

Solo che lo fa sempre in ritardo (non per colpa sua, certamente).

E’ stato il caso dell’incostituzionalità di alcune parti della Legge Elettorale cosiddetta del “Porcellum”. Abbiamo accolto il ripudio della mancanza delle preferenze e della quantificazione di un esageratissimo premio di maggioranza con un sospiro di sollievo. Ma intanto un paio di parlamenti sono stati eletti con quei criteri, e i danni che hanno fatto non può cancellarli più neanche una cimosa imbevuta nell’acido cloridrico.

La legge 40 sulla fecondazione assistita è una delle pagine più buie della storia del Paese. La sentenza di ieri ne ha cancellate per sempre alcune parti. Ma la storia è piena di coppie che hanno affidato a gente senza scrupoli il desiderio di avere un figlio, e che si sono recate all’estero (magari raccondando una serie di balle ai propri familiari, come un periodo di vacanza da trascorrere in Ungheria, in Spagna o in Grecia -chi non vorrebbe visitare Budapest in pieno gennaio??-) dopo essersi sottoposte a cure con effetti collaterali non indifferenti, terrorizzate alla partenza per la consapevolezza di andare a commettere quello che per lo Stato italiano è un illecito e terrorizzate all’arrivo per doversi mettere nelle mani di medici che gestiscono strutture al limite della decenza e per dover pagare cifre molto importanti per poter sperare, tra gli ovuli donati da ragazze giovani e con problemi economici e sociali (nessuno dica che lo fanno gratis, ho cinquant’anni e non odo fiabe dall’età di bimbo che ebbi breve, come diceva Brancaleone da Norcia) o gli spermatozoi “conferiti” (ah, la meravigliosa asetticità della lingua italiana!) in stanzacce sporche che immagino tappezzate dalla solita dose media giornaliera di tette e culi su patinata.

Sono vite intere, in questo crocevia che immette in strade indeterminabili a priori, per cui la Consulta ha determinato la parola “fine”. Che è anche quella di tutti quelli che, fino ad oggi, non ce l’hanno fatta.

Ascesa e tramonto arancione di Antonio Ingroia

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Il volto del Pubblico Ministero Antonio Ingroia campeggia su un banner pubblicitario del neo-nato “Movimento Arancione”. Che, da quello che ho capito dovrebbe essere un movimento che raccoglie alcuni esponenti e militanti dell’ormai trascorsa formazione di “Rifondazione Comunista”.
Insomma, i rossi diventano arancioni. Sbiadendosi quel tanto che basta. Del resto, come diceva il Poeta, “Si muore un po’ per poter vivere”.

Dunque Ingroia. Non candidato premier (qualcuno lo vorrebbe tale, ma non ci sono ancora notizie ufficiali in proposito), ma certamente testimonial di un movimento. Il solco della scia di Beppe Grillo viene imitato da molti, evidentemente. Qualcuno ci mette la faccia, il nome, l’immagine, la credibilità, l’esperienza. Per fare andare avanti altri, magari giovani, magari pieni di speranze, di scarsa preparazione politica ma di onestà di fondo. In breve, nulla di nuovo sotto il sole.

Ora, il banner evidenzia frasi come “Io sarò con voi” che hanno un suono e un retrogusto vagamente religioso.

C’è una sorta di odore di santificazione di un magistrato, e sono pienamente convinto che ergere un magistrato a vessillo della battaglia politica sia una sconfitta sia per la magistratura che per la politica. Soprattutto è una sconfitta per quella divisione e separazione dei poteri dello stato che dovrebbe essere uno dei cardini della nostra democrazia.
Non tanto dal punto di vista fattuale (un magistrato può sempre mettersi in aspettativa mentre svolge il suo mandato parlamentare, e non esercitare per quel periodo) quanto da quello dell’opportunità: un magistrato potrebbe, da parlamentare, proporre o modificare delle leggi che, poi, una volta cessato il mandato, applicherà nell’esercizio della sua diversa e separata funzione.

Non è il caso di Ingroia, se è vero che non si candiderà.
Anche perché immagino che il Dottor Ingroia in questo momento abbia altri problemi. La Corte Costituzionale ha accolto l’eccezione presentata dal Presidente della Repubblica sulle intercettazioni telefoniche a cui Napolitano è stato sottoposto in maniera casuale, a proposito della cosiddetta trattativa Stato-Mafia.
Facendo parte Ingraia della Procura della Repubblica indagante e a cui la Consulta ha dato torto, mi pare che una sentenza di questo genere non giochi particolarmente a favore dell’immagine politica di Ingroia.
Si tratta di un nodo centrale che non può e che non deve essere sciolto.

Perché delle due l’una:
a) o Ingroia e la Procura (che, immagino, avranno avuto modo di difendersi compiutamente e adeguatamente, nonché di ribadire le proprie posizioni) sono stati sconfessati nel merito delle loro argomentazioni, e questa è democrazia;
b) o si dovrebbe presumere uno scenario di fantagiustizia, secondo il quale i poteri dello stato sarebbero dominati e soggiogati da una volontà superiore che ne influenzerebbe (il condizionale è d’obbligo) decisioni e pensieri.

Invece no, viviamo in uno stato di diritto. E secondo questo stato di diritto Ingroia ha torto. Io stesso volevo e avrei voluto che i testi di quelle intercettazioni venissero pubblicati. Ma io sono un privato (e provato!) cittadino che esprime le sue opinioni, Ingroia fa parte di una delle parti in causa e si pone (o viene posto) come modello politico in un arancione, che assume la colorazione del tramonto prima ancora dell’alba.