Quelli che “quando tutta questa emergenza finirà ci abbracceremo”

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E poi ci sono quelli che “quando tutta questa emergenza finirà ci abbracceremo”.
Gente che fino a dieci giorni fa quando si incontrava per strada si sarebbe sputata in faccia per un mese intero, gente che faceva il leone da tastiera in internet e sui social, mandando a quel paese ora questo e ora quello, che improvvisamente si ritrova risvegliata da questi sentimenti buonisti (e buonistici!) e appende sui propri veroni a sciorinare le bandiere italiane che neanche lo storico incipit della novella “Libertà” del Verga.
“Quando tutta questa emergenza sarà finita ci abbracceremo”, dicono. Ma perché ci si deve per forza abbracciare?? Non ci si potrebbe tornare ad ignorare o a sopportare pesantemente come prima? La normalità prima del coronavirus non era quella di volersi tutti bene a tutti i costi, ma anche quella di starsi sui coglioni. Io, se mai sopravviverò a questo virus, voglio tornare a essere odiato come prima. Non me ne faccio di niente dell’abbraccio di un sopravvissuto, la democrazia sarà anche stare tutti bene e tirare un sospiro di sollievo per il passato pericolo, ma è anche e soprattutto essere diversi, profondamente e radicalmente diversi. Ecco, io non so cosa farmene di essere uno dei tanti che lottano contro un virus nel periodo dell’emergenza, quello che voglio recuperare è la mia dimensione di persona nel periodo della normalità. Questa è la vera sfida. Così come è sfida il capire che sì, ci sarà senz’altro un momento in cui tutto questo finirà, ma per ora quel momento non è ancora arrivato e quindi c’è ben poco da ravanare, l’arrosto è finito, dobbiamo accontentarci di pucciare il pane nell’intingolo che è rimasto, che xé anca massa, come scriveva il Goldoni. La sfida non è stare in casa, ma sopravvivere al coronavirus per tornare ad ignorarci e a starci sui coglioni. Non è una passeggiata. E’ il Camino di Santiago de Compostela. E lo abbiamo appena iniziato.