La banconota da 300 euro

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C’è un racconto di Mark Twain (ma cosa ve lo racconto a fa’? Sapete assai voi!) che si intitola “La banconota da un milione di sterline”.

Parla di una banconota (il massimo della logica!) del valore di un milione di sterline (ma va’?) che due eccentrici signori acquistano alla Banca d’Inghilterra per metterla in mano a un poveraccio che vive di stenti ed espedienti. Con una scommessa: uno dei due pensa che il meschino avrebbe avuto difficoltà a cambiare quella banconota, e che la sua vita sarebbe ulteriormente peggiorata perché nessuno si sarebbe fidato di un vagabondo che portasse in dote tale valore, l’altro, invece, assai più ottimista, pensava che negozianti e venditori gli avrebbero comunque spalancato le porte facendogli credito sulla fiducia.

Ora non v’illudete, non mi ricordo niente di come finisce la storia (a parte il fatto che il malcapitato si fidanza) che lessi quando ero poco più che infante.

Però ci ho ripensato leggendo di quella retata storica di falsari associati a delinquere che gestivano il 90% del denaro falso circolante nel mondo (sono quegli annunci esagerati delle forze dell’ordine. Se fosse vero il 90% delle banconote false nel mondo dovrebbe sparire, e invece no). Sono riusciti perfino a stampare una banconota (falsa perché inesistente) da 300 euro, spacciandola a un credulone tedesco. Che gliel’ha regolarmente cambiata! Ora, per pensare a una banconota, realizzarla, stamparla, portarla in Germania, abbindolare un ghiozzone e farsela cambiare vuol dire che non si è dei criminali incalliti associati a delinquere di stampo danaroso, vuol dire che si è dei geni (cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, colpo d’occhio e rapidità di esecuzione). Questi della banconota da 300 euro (realizzata peraltro in ùnice copia, chè le opere d’arte non si duplicano, nossignori) sono riusciti a superare un genialità perfino il cavalier Antonio Trevi che vendette la fontana romana omonima a un boccalone americano, con la spalla di Nino Taranto che parlava in fiorentino. QUesta è gente che non dovrebbe andare in galera, dovrebbe essere messa a disposizione della Guardia di Finanza e delle forze dell’ordine per debellare il rimanente 10% mondiale di traffico di denaro falso, esattamente come gli hacker arrestati aiutano i sacerdoti impegnati CONTRO la pedofilia (ce ne sono, pochi ma ce ne sono, non è che tutti la praticano!)

Ulteriore beffa: nella retata è rimasta impigliata anche la mamma della bambina di Caivano precipitata da un balcone del proprio palazzo dopo essere stata abusata sessualmente. Un pesce piccolo, perché le è stato imposto soltanto il divieto di dimora. Si ipotizza che comperasse diversi quantitativi di soldi falsi che poi rivendeva ad altri che le spendevano in negozi, supermercati, e viandare. Trasmissioni come “Chi l’ha visto” e “Quarto grado” ne avevano fatto un po’ l’icona della purezza e della semplicità, una giovane mamma che ha perso la propria figlia in circostanze così tragiche e misteriose era preda da telecamere, adesso del caso non parla più nessuno.

Saranno cose da prima pagina, ma la genialità napoletana non si mette in galera!

Il romanzo popolare di Elena Ceste

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E’ un po’ di tempo che non faccio “outing”.

Quindi dichiaro davanti a persone di specchiate fede e moralità quali reputo i lettori del mio blog, che io guardo “Chi l’ha visto?” il mercoledì su RAI3 e anche “Quarto grado” il venerdì su Rete Quattro. E’ l’unica coincessione che faccio ai canali di Berlusconi ma lo guardo.

Mi piacciono questi programmi che vanno a rimestare nel torbido e che per farlo hanno bisogno della qualifica di “televisione di servizio”. Sono letteratura, non televisione. Letteratura di genere “minore”, certo, come erano i romanzi di Carolina Invernizio o i racconti di cappa e spada, come il giallo Mondadori comprato ogni due settimane all’edicola. O come “Urania”. O “Segretissimo”. O “Il giallo dei ragazzi”, per chi se lo ricorda (e ci vuole una memoria di molibdeno tungstenato a ricordarselo).

Il genere è quello del romanzo popolare. La quotidianità si fa racconto, e allora è avvincente anche quando viene ricostruita decine e decine di volte (si veda il caso, perché non esistono risvolti giudiziari consistenti).

Il caso di Elena Ceste è stato sviscerato fino all’inverosimile. Oggi il marito è stato raggiunto da un avviso di garanzia per omicidio volontario (non si sa se anche per occultamento di cadavere). Il cadavere, o quel poco che ne restava, è stato trovato giorni fa.

Mi aveva sempre colpito la religiosità di questa donna che ha fatto quattro figli e che ora rischiano di trovarsi, oltre che senza madre, anche senza padre. Una religiosità che semprava costituire una zavorra al suo poter vivere in maniera libera. Quasi sicuramente questa donna aveva tradito il marito, e il senso di colpa ha fatto sì che o lei si suicidasse o che venisse ammazzata. Ed è il senso della “vergogna”, del “peccato” a farla da padrone. Come se non dovesse/potesse esserci anche un senso del “perdono” da parte di un marito che, se la sera del litigio non si fosse messo a guardare “Don Matteo” alla televisione, magari avrebbe fatto meglio. E’ morta nuda perché la nudità è lo stato in cui l’uomo e la donna furono cacciati dall’Eden, dopo aver mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (boia come sono ganzo!). Aveva chattato su Facebook (mal gliene incolse!), aveva ritrovato persone che aveva conosciuto, aveva approfondito la conoscenza, magari aveva anche consumato qualche rapporto sessuale con una o più di queste persone, ma ci sono tante cose, in primo luogo il perdono e, nel caso, la separazione e il divorzio. Ma per chi ha una vita di fede questi non sono rimedi a cui ricorrere, sono marchi di infamia, sono stigmi. E allora si va a morire, nudi, per aggiungere vergogna a vergogna e per farla finita con quello che si è vissuto come un’onta incancellabile.

Bella storia, sì. Poi magari vi parlo anche di Roberta Ragusa.

Cittadella: “Io sono un ispettore di polizia e lei non è nessuno”

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Foto tratta da ilgazzettino.it
E’ accaduto a Cittadella (PD).

A Cittadella ho vissuto e lavorato per quattro anni. E’ una cittadina a cui voglio molto bene. Quindi questo è un episodio che mi tocca in modo particolare dal punto di vista emotivo.

E’ accaduto all’Istituto Comprensivo di Cittadella. Lì è stato prelevato dalla polizia Leonardo, un bambino di dieci anni, in applicazione a un’ordinanza del Tribunale dei Minori che ne prevedeva l’affidamento al padre, rigettando una richiesta di sospensiva presentata dalla madre.

Un video di un minuto e mezzo, probabilmente girato da una donna che il piccolo Leonardo chiamava “zia”, e trasmesso ieri sera da “Chi l’ha visto?”, e oggi disponibile su tutti i siti delle principali testate on line, dimostra in maniera chiara e inequivocabile le modalità con cui tale ordinanza è stata eseguita.
Il bambino ha cercato di divincolarsi dalla stretta degli agenti che, si vede dal filmato, lo portano via prendendolo per le caviglie e per le spalle. Chiede aiuto alla zia. Poi viene caricato sull’auto dove continua a cercare di liberarsi dalla stretta degli agenti.

E’ assolutamente terribile, agghiacciante e indegno di un paese civile che un minore che viene affidato allo Stato per l’esecuzione di una legittima ordinanza della magistratura che ne dispone l’affidamento al padre venga trascinato via a viva forza. E’ un bambino di dieci anni. E lo Stato, rappresentato in quel momento da quegli agenti, non poteva e non doveva creargli un tale choc.

La dirigente Marina Zanon ha dichiarato: “Abbiamo fatto uscire dalla classe i compagni dell’alunno destinatario del provvedimento del giudice e solo dopo sono entrati gli assistenti sociali e i poliziotti. Tutto all’interno della scuola si è svolto senza urla e senza che gli altri compagni di scuola vedessero, in quanto sono rimasti dentro le aule fino a quando il bimbo è stato portato in auto.”
Bene. Ma come si sente un bambino che vede allontanarsi i compagni e subito dopo entrare assistenti sociali e poliziotti? C’è da chiedersi se ci fosse, assieme alle forze di polizia e agli assistenti sociali almeno uno psicologo infantile di supporto al bambino. Se non c’era, perché? E’ già tanto che tutto si sia svolto in modo più o meno “tranquillo fino a quel momento”.

E perché un prelevamento di un minore viene effettuato a scuola, luogo in cui un individuo (che sia alunno, insegnante, dirigente o collaboratore) dovrebbe sentirsi protetto nel massimo grado del termine?

Ma c’è una cosa ancor più agghiacciante e riprovevole che è stata documentata in quel filmato. Quando una persona (probabilmente l’autrice del video, zia del minore), ha chiesto se l’istanza di sospensione che era alla base dell’ordinanza del giudice fosse stata rigettata o accolta, si è sentita rispondere: “Io sono un ispettore di polizia e lei non è nessuno”.

Non è tollerabile che un rappresentante delle forze dell’ordine possa trattare con queste parole un cittadino. Perché in quel momento rappresenta quello stesso Stato a cui il cittadino si rivolge per avere spiegazioni, e quello stesso stato che sta trascinando un minore con modalità che, per usare un eufemismo, potrebbero essere definite “non del tutto ortodosse”.
Probabilmente voleva dire: “Io sto eseguendo degli ordini della magistratura e non sono tenuta a darle informazioni in merito.” Già, poteva dirlo. Magari voleva anche dirlo. Ma non lo ha detto.
Dicendo “Lei non è nessuno” non ha detto “Lei non ha diritto a sapere queste cose” o “Io non sono tenuta a dirgliele”.
Ha creato uno stigma tra l’autorità (che non è autoritarismo!) e il cittadino.
E questo è di una gravità inaudita.

Anche perché mi risulta che una decisione del giudice del Tribunale dei Minori che decide di rigettare un ricorso, sia un atto pubblico. Quindi conoscibile da chiunque. Non a caso “Chi l’ha visto” ha dato conto di alcuni stralci di quella ordinanza. Per cui i casi sono due, o “Chi l’ha visto” ha violato un segreto d’ufficio o effettivamente quelle decisioni erano di pubblico dominio e, quindi, non c’era nessun motivo per tenerle nascoste.

Che la logica dell’“io so’ io/e voi nun zète un cazzo” resti relegata a un meraviglioso sonetto del Belli. O alle trasposizioni cinematografiche del Marchese del Grillo di Mario Monicelli.

Questo è uno Stato di diritto.

“Chi l’ha visto?” e il caso della scomparsa di Ida Russo: era a casa sua

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Su “Chi l’ha visto” tempo fa hanno trasmesso un appello in occasione della scomparsa di Ida Russo che è stata cercata dal 29 marzo all’8-9 aprile scorso per ogni dove, tanto da giustificare la richiesta di intervento di una trasmissione del servizio pubblico televisivo.

Ora Ida Russo è stata, fortunatamente, ritrovata. Sapete dov’era? A casa sua!

La sua famiglia di origine è di Salerno, ma lei ha una casa anche a Campi Bisenzio. E ha un vizio molto brutto Ida Russo, non ha la televisione. O, se ce l’ha, non le interessa “Chi l’ha visto?”. Eh, son robe che non si perdonano, sapete? Cose che non possono passare inosservate. Ma come, tutto il mondo ti cerca, si sono mobilitati carabinieri, polizia, forze dell’ordine, magistratura, e perfino “Chi lha visto?” e TU ti permetti il lusso di startene a casa TUA???
Oltretutto durante questi giorni in cui non ha più dato notizie di sé ha ricevuto anche delle visite. Cioè ci sono persone che L’HANNO VISTA. Cioè, qualcuno la vedeva ma NON quelli che avrebbero dovuto vederla DAVVERO.

Ma come, Dio mio, si allerta tutto l’ambaradàn e in dieci giorni nessuno si sogna di andare a vedere se questa persona, per caso, si trovi nella casa in cui vive?

E ha dovuto anche rilasciare una dichiarazione alla stampa. Una dichiarazione in cui ha detto, in pratica, che lei era lei (cosa lapalissiana, ma, sapete, le cose lapalissiane son sempre le più difficili da mettere in conto) e che sì, si trovava esattamente a casa sua.

Le hanno chiesto dei suoi rapporti con i genitori e la famiglia di origine. E lei è stata estremamente paziente, anche se avrebbe potuto dire “Queste sono cose personali, come vi permettete di venire a ficcare il naso in questi aspetti che non vi riguardano?” Ha detto che ci sono delle “divergenze culturali di opinione”. E che questo l’ha portata ad allontanarsi (del resto è maggiorenne…) e a vivere, guarda caso, a casa sua. Punto.

Siccome ormai i giornali non sapevano più che cosa scrivere, non hanno mica scritto, no, che “Chi l’ha visto?” e tutte le forze dell’ordine coinvolte avevano fatto un buco nell’acqua clamoroso, non cercando la ragazza dove era più logico cercarla, hanno scritto che è dimagrita. E’ dimagrita?? Sì, e allora? E’ importante?? Cosa aggiunge questo dato alla mia conoscenza di cittadino riguardo al fatto, ammesso e non concesso che mi interessi sapere che una persona è a casa sua?

La vera rivoluzione, oggi, è quella di Ida Russo. Niente TV, nessuno spazio per la realtà riprogrammata dai media. Solo la verità più semplice e diretta: io abito da me.