Journal irresponsable: siamo tutti Charlie ma io già un po’ meno

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E così, tutti siamo Charlie.

Della gente è morta, i vivi sono scesi in piazza, una nazione è rimasta paralizzata dalla paura, l’inchiostro delle prime pagine dei giornali si è trasformato in sangue, tutti si sono sentiti coinvolti in prima persona rispolverando il diritto alla satira e alla libera espressione, per permettere a Charlie Hebdo di pubblicare vignette che ritraggono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che si inchiappettano e costituiscono la scusa di parlare dei matrimoni omosessuali che sono delle cose serie.

Non me ne frega niente che abbiano scomodato la Trinità cara ai cattolici (questo, caso mai, sarà un problema dei cattolici), o che si autodefiniscano in prima pagina “Journal irresponsable”, voglio che se si parla di diritto di satira quello che pubblicano faccia ridere. Perché è vero che la satira è ciò che va “al di là”, ma qualcuno ci dica “al di là” di cosa. Della vita stessa? Dello stesso senso del ridicolo?? Conforme, si muoia pure per una risata, così la risata ci seppellirà -già che c’è e già che s’ha da morire!- ma questo non è nemmeno un ghigno. E’ un contenuto forzato (e non deformato, come la satira vorrebbe) che non fa vedere dove vuole andare a parare. Quando guardavo le caricature di Walter Molino su Grand’Hotel, da piccino, c’erano Mike Bongiorno col nasone, Nada con la bazza, Mina con gli occhi di fuori e la gente rideva spontaneamente. Ho riso come un matto quando il Manifesto ha pubblicato la didascalia “il Pastore tedesco” sotto la foto di Ratzinger neoeletto Benedetto XVI. Eppure in quel caso sono bastate una foto e una scritta.

Ma noi no. Noi con le matite spezzate in mano abbiamo a tutti i costi lottato non per il supposto diritto alla libera espressione ma per il diritto di dire quello che ci pare e che gli altri se ne stiano anche parecchio zittini. Eh, ma non funziona mica così!

E quindi siamo tutti Charlie ma io già un po’ meno.

Checkpoint Charlie

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E’ fin troppo facile munirsi dell’hastag #JeSuisCharlie e campeggiare con un centoquarantacaratteri su Twitter. E’ anche fin troppo facile scendere in piazza a protestare con la stessa scritta stampata su un foglio A4 e ostentata sopra le testa ad altezza selfie e una matita in mano. Resta comunque da osservare che i francesi in piazza ci scendono e gli italiani no.

Scontato anche dire che quello perpetrato contro Charlie Hebdo sia in realtà un attentato alla libertà di espressione e a quelle di critica e di satira, che ne derivano: è una realtà fin troppo evidente.

Molto più difficile, per non dire impossibile, è ammettere che i primi nemici della libertà di espressione siamo noi stessi, terroristi primigeni di ogni vignettismo.

Siamo noi che appena arriviamo in rete e leggiamo una cazzata non ci fermiamo a constatare il fatto che la presenza di cazzate in rete è l’espressione di quella stessa libertà che rivendichiamo per noi. Anzi, ci sentiamo in diritto e in dovere di dire non solo che quello che leggiamo con ci piace (perché fin qui…) ma che chi l’ha detto o scritto è un imbecille e che non dovrebbe usare lo spazio che gli viene messo a disposizione in quel modo. Siamo noi che scriviamo su Facebook frasi deliranti come “Se sei d’accordo dillo, se non sei d’accordo stai zitto” (alla faccia del diritto di critica, n’est-ce pas?) oppure “Come ti permetti di scrivere queste cose sulla MIA bacheca Facebook?” (la bacheca non è affatto tua, coglione, te la offre Facebook perché tu ci faccia quello che ci vuole LUI, non tu). Siamo noi che litighiamo per un tweet (una volta uno scrittore che sta ottenendo un discreto -ma a mio giudizio immeritato- successo voleva a tutti i costi il mio numero di telefono per litigare di persona) o per un post di un blog (avete mai provato a dire che la musica della “Canzone dell’amore perduto” di De André non è sua ma di Telemann? Ecco, io sì.)

Per noi un’opinione diversa non è e non resta un’opinione. Diventa, inevitabilmente, una polemica quando va bene, un’ingiuria ad personam quando va così e così e come una vera e propria ignominia nel peggiore dei casi.

Un esempio: la figlia di Pino Daniele ha “postato” su Facebook un pensiero in ricordo di suo padre. Tra i 700 e passa commenti ce n’era almeno uno che rimproverava a questa ragazza il fatto che avrebbe dovuto starsene a piangere riservatamente anziché esternare i suoi sentimenti sul social network.
E va beh, sì, magari avrebbe anche potuto, ma se se la sentiva di fare diversamente cosa facciamo, la fuciliamo in piazza come nemica del popolo? Vogliamo sindacare perfino su come una persona gestisce il suo dolore, cioè qualcosa di personale, intoccabile, dato sensibile per eccellenza. Figuriamoci se non ci occupiamo delle opinioni.

Esisterà sempre chi batte i denti, chi prende il ritmo e ci balla sopra. Così come chi sarà disposto a sparare sul ballerino: gli stessi che oggi si nascondono dietro a un tweet.