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It’s wonderful!
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Un certo signor "Gerardo", mi chiede se non sia il caso di togliere il post, visto che lo trova diffamatorio.
Ecco lo screenshot del commento e la mia risposta:
Gentile Signor "Gerardo",
ho visto il Suo commento al post su "Lu Maritiello" che ho
scritto sul mio blog qualche tempo fa. Ho visto anche che ce
n'è uno precedente in cui difende, come è Suo giusto
diritto, questo capolavoro della musica contemporanea.
Mi rimprovera di non essermi accorto che si trattasse di una
versione "taroccata" del brano, e invece me ne sono accorto
e come, tanto che nel post (che Lei, certamente, non ha
neanche letto) sta scritto:
"Ottenne, manco a dirlo, un successo planetario. Visto che
allora non c'era ancora la possibilità di duplicare i 45
giri, venivano realizzate delle versioni "imitate"
dell'originale. I dischi, così incisi, venivano venduti
sottobanco alle fiere paesane (credo che il brano che vi
propongo sia tratto proprio da una di queste versioni)."
Quanto alla Sua proposta di cancellare il post dal blog, non
ci penso nemmeno, sono sul mio blog, su un mio dominio, su
uno spazio web che mi è stato dato in concessione, non
vedo perché non dovrei esprimere un giudizio negativo che,
oltretutto, non offende nessuno e che ho ampiamente motivato
e documentato.
Tolgo, piuttosto, il Suo commento, che mi sembra basato,
più che sulla lettura di quello che scrivo, su un
sentimento di astio. Perché, in caso non lo avesse capito,
a casa mia (e il mio blog è casa mia), se non commetto
reato penso quello che voglio, dico quello che voglio e
critico chi voglio.
Soprattutto perché quando scrivo mi firmo con tanto di
nome e cognome e sono una persona comunque identificabile,
al contrario di Lei, che si identifica solo con il nome. E
che non ha nessun diritto di venire in casa mia a fare
quello che vuole.
La chiami pure "censura", se crede.
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Il 1968 fu l’anno in cui lasciai definitivamente la natìa Germania per venire in esilio in Berlusconia.
Mantenni i contatti, inutile dirlo, con la Tante Dickmeis (chi sia la Tante Dickmeis, vi chiederete, va beh, un giorno ve lo spiegherò…) che prese a spedirmi, con sorprendente regolarità, i 45 giri (ma per Natale mi arrivò anche il Long Playing, beninteso) di Heintje. "Heintje" è il diminutivo di Heins Simons.
Heintje era un bambino bruttarello con i dentoni, ma dotato di una straordinaria estensione e potenza vocale. Doti che avrebbe perso molto presto, con la crescita e l’età adulta, in cui, per la verità, ha acquistato una voce per nulla musicale.
Dunque, questo piccolo fenomeno del do di petto teutonico, fu ampiamente spremuto dalla sua casa discografica (la "Ariola") che lo impegnò in incisioni nazional-tedesco-popolari, in cui si lodavano le figure delle nonne, delle mamme, i sentimenti dell’amicizia, il cielo, le stelle, la gioia di vivere in un mondo tedesco perfetto, tanto l’altra Germania era ancora "di là".
L’ultima volta che sono tornato a Colonia, ho visto alla TV un servizio su Heins Simons come è ora. Si occupa di cavalli, beve birra, ogni tanto incide qualche piccola stronzatina (come, per esempio, una riedizione di "Guten Abend, gute Nacht", su un arrangiamento della "Ninna nanna" di Brahms che farebbe impallidire perfino James Last, in cui duetta, da adulto, con se stesso bambino), insomma sta benone.
Uno dei suoi successi più eclatanti fu la versione tedesca e quella olandese (di cui vi propongo un letale frammento) di "Mamma".
Vi assicuro che ascoltanto Heintje e i suoi gorgheggi, vi sarà impossibile trattenere una lagrima. Non deamicisiana ma rigorosamente tedesca.
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“Lauretta” motivo men che nazional-popolare, è la quintessenza del Kitsch, l’esatta espressione dell’orrido, la rappresentazione musicale del pessimo gusto.
E’ una sorta di sceneggiata romanesca, condensata in un rigidissimo tempo di valzer e accompagnata da una fisarmonica ruffiana e leccaculo, che narra la storia di un padre che l’indomani deve accompagnare la figlia all’altare. Siccome non sa come altrimenti rompere i coglioni, decide di scrivere, di suo pugno, una serenata da cantare alla figlia.
Da qui i versi immortali, secondi solo a quelli del Divin Poeta:
“Lauretta mia
Bimba adorata
la serenata
te la canta papa’
la voce trema
dall’emozione
io ‘sta canzone
l’ho fatta pe ‘tte…”
Per rendere al meglio tutto il potere magico della suggestione di questa canzone (di cui non sono riuscito a identificare gli autori che, se ancora viventi, sarebbero stati presi a sacrosante nerbate dai miei lettori) ho scelto l’interpretazione di Enrico Musiani.
Perdonate me e lui, ma “Lauretta” non poteva mancare tra le più belle canzoni della nostra vita.
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Jersera, nel mentre gustavamo gàrruli una merendina da niente preparataci dalla Cummara (Cous-Cous freddo di gamberi e pomodori pachini, carpaccio di polipo, salsiccia di tonno alla rucola e capperi, insalatina di mare con carciofini e punte di asparagi, brodetto caldo di pesci vari da inzupparci il pane per una vita, sangría, grappa tagliatella) il mio amico nonché Cumpare Bernardeschi Ivo (o Morganti Luana, ora non rammento bene), nel mandarmi cordialmente a fare in culo per la latitanza della preziosa rubrica "Le più belle canzoni della nostra vita", gesto nobile e di cortese affetto di cui ancor oggi lo ringrazio, mi ricordava una trasmissione televisiva degli anni ’70 che si intitolava "Come quando fuori piove".
Al carissimo e stimatissimo cumpare Morganti Luana debbo però far notare che egli, sia pure nell’impegno profuso generosamente, è ancora insufficiente nel rendimento, giacché jersera medesima, mi diede come conduttore della trasmissione medesima il buon Febo Conti. Invece no, caro Luana, "Come Quando Fuori Piove" (majuscolo, perché le lettere iniziali hanno a che fare con "Cuori, Quadri, Fiori e Picche") era condotto da Vanna Brosio e Raffaele Pisu.
Ma ecco qui la sigla iniziale, cantata da quei formidabili ragazzetti che prendevano il nome collettivo de "I Domodossola".
L’Orchestra era diretta dal Maestro Dario Baldan Bembo. Vai, Luana, vai a posto.
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E allora salutiamo anche i 70 anni di Milva, interprete grintosa, dal repertorio variegato come un pirottino all’amarena, che passa da Brecht e Kurt Weil a Astor Piazzolla, dal mare nel cassetto al "Soldato Nencini" di Enzo Iannacci, passando per l’Alexanderplatz.
Il disco di vinile che ho in camera (l’unico, prima del trasferimento definitivo in Abruzzo della mia discoteca vinilica livornese) è "La rossa", del 1981. Mischia teatro, ironia e doti canore, come se fosse poco.
E che la Rossa (quella vera! -nota per i Lys-) ci regali ancora l’allegria. Del disco di dieci anni fa.
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Una delle canzoni più belle della mia vita è certamente "I treni di Tozeur", che partecipò, se non mi ricordo male (e non me lo ricordo male!) all’Eurofestival del 1984.
Gli interpreti erano Franco Battiato, quand’era un bel po’ più giovane e aveva in testa idee musicali migliori, e Alice. Il pezzo fu inciso, questo è certo, mi ricordo perfettamente il 45 giri,
ma non mi risulta che la versione di Battiato e Alice insieme sia stata inserita in qualche disco successivo. Battiato ha reinciso, storpiandola, la canzone in "Mondio lontanissimi", ma quella versione è solo un surrogato della perfezione formale a cui era arrivato il duo canoro dell’Eurofestival.
Lei, Alice, bella da levare il fiato, e brava come poche.
Battiato in stato di grazia, con immagini potiche di rara efficacia ("Tua madre mi vede/si ricorda di me/delle mie abitudini…" "…distese di sale/e un ricordo di me/come un incantesimo.." "…e per un istante ritorna/la voglia di vivere/a un’altra velocità…")
Chissà se a Tozeur passano ancora lentamente i treni…
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"Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera."
(art. 70, comma 1, L. 633/41 e successive modifiche)
Non ricordi questa canzone? Ascoltane un brano dal nostro lettore di MP3!!
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E Fausto Papetti? Che ce ne vogliamo dimenticare??
Fausto Papetti era famoso per le sue "raccolte". Faceva delle cose molto semplici, prendeva le "hit" più in voga in Italia e all’estero in un anno, le reinterpretava con il suo sax (niente parole, solo musica) e ci faceva un disco, una collezione di dodici brani (rigorosamente, un po’ perché sul vinile non ce n’entravano di più, un po’ perché il "12" è sempre stato il numero magico dei Long Playing).
Poi le numerava (i suoi album non avevano titolo, solo aggettivi numerali ordinali, "XIII raccolta, XIV raccolta", e così via) e sceglieva una donna nuda per ogni copertina. O comunque una immagine vagamente erotica. Roba da educande al tempo di oggi, ma c’era ci ne faceva la collezione. Ovviamente il massimo era avere il disco, perché la copertina era di 30 x 30 cm. e si vedeva meglio il tett&culàme.
Però la cassetta era utile in macchina con la sguència di turno.
Papetti era il sottofondo ideale di chi frequentava i night club e sorseggiava bicchieri di Ballantine’s. I più sfigati bevevano Stravecchio Branca.
Il brano principe di Fausto Papetti fu senz’altro "Emmanuelle". La colonna sonora del film scando che narrava la storia della donna che tutte le donne avrebbero voluto essere per dare un po’ di scandalo.
La versione originale del pezzo non era di Fausto Papetti, ma era logico che lui ci potesse campare di rendita per una vita coi diritti di interpretazione, perché, si veda il caso, anche l’originale era eseguito con il sax e un orecchio poco attento non ne riconosceva l’interpretazione, e poi favaini, l’importante è trombà’, come diceva il povero Antonio, uno che stava di casa vicino a me e che andava in giro con il Caballero (una moto che andava di moda allora) e che morì qualche anno fa, bonànima.
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"Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera."
(art. 70, comma 1, L. 633/41 e successive modifiche)
Non ricordi questa canzone? Ascoltane un brano dal nostro lettore di MP3!!
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Dio come mi piaceva questa canzone!
Sono un tipo estremamente ripetitivo e figuriamoci se non mi piacevano i tre accordi in croce di questo evergreen di Barry Manilow, cantante di cui sono stati pubblicati un paio di "Greatest Hits", ma di cui conosco si e no due canzoni (una è questa).
Mandy, curiosamente, nella versione da cui deriva, incisa nel 1971 dal cantante Scott English, si intitolava "Brandy".
Roba da ubriaconi, che poi è diventata una canzone romantica di successo mondiale.
E’ il destino degli "evergreen": anche "Yesterday" dei beatles era, all’inizio, un inno alle uova fritte dell’English Breakfast per eccellenza.
Basta, ciucciàtevene il ricordo, ve l’ho detto, mi è sempre piaciuta tanto.
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"Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera."
(art. 70, comma 1, L. 633/41 e successive modifiche)
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"Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera."
(art. 70, comma 1, L. 633/41 e successive modifiche)
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Risale al 1974, quando vinse “Canzonissima” (quella che aveva la sigla di Cochi e Renato “E la vita, la vita…”) nella sezione delle proposte folk.
Accadde una specie di quarantotto, perché Maria Carta (donna di una bellezza e di una bravura assolutamente fuori dal comune), che gareggiava in finale con Santagata, aveva interpretato una Ave Maria sarda del XIII secolo, un gioiellino musicale scoperto e rielaborato da lei stessa.
Siccome l'”Ave Maria” di Maria Carta era bellissima e rappresentava davvero la cultura e il folklore della Sardegna, le fu preferita la canzone di Santagata che era un trionfo di luoghi comuni.
Il primo è quello del “villano” del Sud, un po’ cretino e sempre sbronzo, che litiga con la moglie che, alla fine, lo corca con la scopa e lo tempresta di imperiture e sempiterne legnate.
L’armonia musicale era una una schifezza prevedibile, un giro di do puro e semplice e nemmeno completo.
Ottenne, manco a dirlo, un successo planetario. Visto che allora non c’era ancora la possibilità di duplicare i 45 giri, venivano realizzate delle versioni “imitate” dell’originale. I dischi, così incisi, venivano venduti sottobanco alle fiere paesane (credo che il brano che vi propongo sia tratto proprio da una di queste versioni).
Degna di essere ricordata solo per essere successivamente dimenticata, la canzone “Lu maritiello” (“Vino, vino, eccolo qua/vino, vino e tira a campà'”) rappresenta il peggio del peggio dell’Italia degli anni ’70.
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“Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera.”
(art. 70, comma 1, L. 633/41 e successive modifiche)
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"Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera."
(art. 70, comma 1, L. 633/41 e successive modifiche)
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Demis Roussos, dopo la parentesi con il gruppo degli Aphrodites’s Child, con cui cantò una memorabile "Rain and Tears" (praticamente musica classica resa commerciale e commerciabile, ma con buon gusto), tentò la carriera da solo.
Si fece crescere barba e capelli e andava vestito con una tunica lunga fino ai piedi, pareva un incrocio tra Omar Sharif, Joe Cocker e Kabir Bedi prima che interpretasse Sandokan.
"We shall dance" fu il suo primo successo da solista e fu letteralmente planetario. Con quel pezzo Demis Roussos entrò a far parte di quel novero di artisti "intercambiabili", che avevano successo ovunque e cominciavano ad apparire nelle televisioni di tutta Europa, nessuna nazione esclusa.
Dopo di lui, nel 1974, arrivarono gli Abba. ma questa è un’altra storia.
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"Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera."
(art. 70, comma 1, L. 633/41 e successive modifiche)
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“Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera.”
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Peppino Gagliardi, e chi se lo ricordava più…
E’ stato certamente il primo napoletano che è ruscito a liberarsi della canzone napoletana tradizionale senza liberarsi della napoletanità.
Appariva in trasmissioni tipo “Canzonissima” e “Senza Rete”, oltre che al “Festivalbar”, con la giacca aderente con il fazzoletto nel taschino.
Le sue canzoni più famose erano quelle tipiche del night club, del bicchiere di Biancosarti stretto tra le mani inanellate del playboy di turno, delle Muratti Ambassador accese e della camicia con il colletto a triangolo che si apriva su un petto villoso, su cui regnava una pataccona dorata che ritraeva una Madonna di chissà dove.
Cantava le stagioni, Peppino Gagliardi, parlava di settembre, che poi verrà, ma non ti troverà e piangeranno solo gli occhi miei. Ecco, settembre portava via tutto.
Ma lei tornava sempre portando con sé la primavera, come le viole!
Ed erano colpi di charleston e un basso ruffiano a far da cornice al ballo della mattonella tra lui e lei. Poi lui l’avrebbe portata a bordo della sua 850 Special, e lì l’avrebbe fatta sua.
Intanto però uno di questi cantantucoli da quattro soldi ha fatto un remake di “Come le viole” sulla cui qualità rispetto all’originale stenderei volentieri un sudario funebre. Motivo in più per omaggiare il simpatico Peppino Gagliardi con questa foto recente:
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Michele Pecora era un cantautore della fine degli anni settanta che se ne andò con la meteora con cui era arrivato.
La canzone si chiamava "Era lei" ed era piuttosto libertaria per quel tempo.
Diceva, tra l’altro "ti voglio bene ma non conviene innamorarsi e perdere la libertà". Se molte coppie nate nel 1979, data di pubblicazione della canzone, gli avessero dato retta, oggi ci sarebbero molti infelici in meno.
Ma Michele Pecora è famoso per una delle imitazioni più clamorose della storia della canzone italiana. Zucchero ha inciso un pezzo (natalizio, come molti dei suoi) in cui dice (quasi) letteralmente:
"Sere d’estate
dimenticate
c’è un dondolo
che dondola…"
(un dondolo che dondola è il massimo dell’autoreferenzialità).
Ebbene, quelle "sere d’estate/dimenticate" fanno pendant con Michele Pecora che cantava "poesie d’estate/dimenticate".
E’ ovvio che ora, di Michele Pecora non ne parla più nessuno.
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Ci sono canzoni che mi fanno incazzare, e senza mezzi termini.
Soprattutto quando scopro chi ne è l’autore. Ad esempio “La lontananza” di Domenico Modugno, nonché la successiva “Amara terra mia” (che bisognerebbe riascoltare spesso, soprattutto qui in Abruzzo), sapete da chi è stata scritta, oltre che dal Mimmo nazionale?? Da Enrica Bonaccorti.
“Se telefonando” di Mina è la creazione musicale del genio di Ennio Morricone e del barlume di visione mistica di Maurizio Costanzo.
“Testarda io” di Iva Zanicchi (ve la ricordate? “Non so mai perché ti dico sempre sì…”) è stata scritta da Cristiano Malgioglio, quello che anni dopo avrebbe mostrato il ciuffettone ossigenato in ogni tipo di trash show, isole dei famosi comprese, a cantare “Sbucciami” (di cui esisteva una versione spagnola intitolata “
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“Agapimù” è stata una delle canzoni meno ricordate di Mia Martini.
In effetti non era un gran che, ma a me, allora, giovincello e tempestato di brufoli, sembrava bellissima.
La caratteristica di molte canzoni degli anni 70, a parte quella di avere degli attacchi e degli intermezzi di batteria da extrasistole musicale era quella di essere incredibilmente ripetitive.
“Agapimù” di Mia Martini non sfuggiva a questa regola, in effetti, a parte il fatto che si trattava di una pezzo cantato in greco, “Agapimù” era l’unica cosa che si capiva. O, meglio, che si ripeteva, canticchiando sulla spiaggia e battendo le mani, con le ragazze dai capelli lunghi e biondi stile Gloria Guida fermati da una fascia sulla fronte, che regolarmente si infrattavano con buzzurri improbabili che andavano in giro con il Caballero e se le portavano via (erano messaggi poco subliminali, c’è poco da fare!) dalla vista di chi contunuava a gridare a squarciagola alla luna “Agapimù agapimùùùùù“.
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Andrea e Nicole non erano nemmeno dei cantanti.
Sussurravano (e basta!) una canzone, nel 1976, che si intitolava “La prima volta”.
Il titolo era tutto un programma. L’intenzione, probabilmente era quella di replicare, all’italiana maniera, il successo di “Je t’aime, moi non plus” di Serge Gainsbourg e Jane Birkin, sussurri amplessuosi e mugolii a rotta di collo.
Ne venne fuori una cosa inascoltabile, ma per le pruderies dei giovani italiani di allora era anche troppo, e il pezzo scalò le classifiche di vendita, ma fu censurato in RAI, tanto che la “Hit Parade” di Lelio Luttazzi non la faceva nemmeno ascoltare, limitandosi a segnalarne la posizione settimanale.
Oggi l’amplesso finale fa ridere. Lei, a un certo punto, gli dice “Basta, basta!” (evidentemente si è rotta le scatole) e lui, come da programma, le chiede perono per aver rubato quello che prima era intatto.
Da evitare assolutamente.
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Rieccolo, dunque, Domenico Modugno, un anno dopo le lacrime di “Piange il telefono”, cercare di rastrellare una bella ammucchiata di quattrini con un’altra canzone sentimentalistica e teatrale, sfornata nel 1975.
“Il maestro di violino” è una storia molto più semplice di quella che l’ha degnamente preceduta.
Un insegnante di violino si innamora della sua allieva, di trent’anni più giovane di lui.
La canzone è un continuo arrovellarsi il cervello e l’anima sulla moralità di questo sentimento. Non se ne vede il motivo, visto che non si sa, per tutta la canzone, se il maestro e l’allieva siano liberi o meno.
L’uomo si sente finito, distrutto da un amore che giudica impossibile prima ancora di averci provato, quando, all’improvviso, nella tensione drammatica più elevata del brano, l’apprendista manipolatrice di archetti gli confessa di essere a sua volta innamorata di lui.
Strimpellata di pianoforte finale e accompagnamento di orchestra d’archi. Struggimento garantito.
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Con questo post inizia la rubrica "Le più belle canzoni della nostra vita". Preparatevi al peggio perché ho intenzione di spaccarvi i coglioni con un (bel) po’ di ricordi e controricordi di canzoni cadute ingiustamente nell’oblio.
Sarò monotematico ma chi se ne frega, è il mio blog e ci faccio quello che mi pare. E voi, lettori, zitti a subire, perché, si sa, sono una persona particolarmente mugugnosa e brusca, oltre che odiosa da fare schifo.
Fatta questa premessa, la prima canzone che ho scelto per la rubrica non poteva non essere "Piange il telefono" di Domenico Modugno, incisa nel 1974, con la piccola Francesca Guadagno, adesso doppiatrice.
La storia è quella di un evidente bastardo che, sei anni dopo aver messo incinta una donna, e averla abbandonata, sfuggendo alle sue responsabilità di màsculo, si pente e tempesta di telefonate la figlia (o, quantomeno -mi suggerisce mia moglie- quella che lui crede essere sua figlia, perché nel frattempo lei avrebbe potuto avere un’altra storia con un altro stronzo della sua risma, ma tanto non cambia nulla) anticipando di almeno cinque lustri il reato di stalking.
L’uomo colleziona una serie di stercofigure da fare impallidire Berlusconi. La prima è quella di pensare che la figlia abbia sei anni. La bambina, invece, gli fa notare che ne ha solo cinque perché il padre non ha tenuto presente che ci vogliono almeno nove mesi di gestazione, pirla.
Lui non ha provveduto nemmeno a un minimo di mantenimento, dunque la mamma lavora e la vicina di casa accompagna a scuola la piccola.
Modugno compose questo brano in un momento di evidente calo motivazionale e di ispirazione.
L’autore di "Dio come ti amo", di "Vecchio Frac", di "Nel blu dipinto di blu", quello che aveva una sveglietta cà quando cammina fa ticchettàc, si è ricostruito la carriera e il gruzzoletto con un brano teatral-lacrimevole, che diede vita anche a un film e a un paio di canzoni emulatrici fino ad arrivare alla storia del vecchietto dove lo metto. Nulla a che vedere con "Amara terra mia", ma in compenso la faccia è salva.
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(art. 70, comma 1, L. 633/41 e successive modifiche)
Non ricordi questa canzone? Ascoltane un brano dal nostro lettore di MP3!!
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