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Ora va tanto di moda la “biblioterapia”.
E’, appunto, un afflato modaiolo e trendy, l’ultima soluzione prête-à-porter dell’atelier della psicologia da quattro soldi.
Non ho mai visto nessuno guarire con la lettura (e intendo da una vera e propria patologia, non dalla tristezza per essere state abbandonate dal fidanzato, per quella più che “Cime tempestose” basta una passeggiata lungo il mare). Tutt’al più si tratta di una inversione di terapia. Vi ricordate il fulminante incipit de “La Coscienza di Zeno”, quando il dottor S. raccomanda al suo paziente “Scriva, scriva… vedrà come arriverà a vedersi intero!”
Ecco, non si scrive più. E’ in arrivo un assalto di strizzacervelli pronti a sostenere che leggere fa bene. Ma non avevo bisogno che arrivassero loro a dirmelo. La mia maestra delle elementari, la Laura del Quaglierini, non faceva altro che ripeterlo: bisognava leggere, e libri seri, non i giornalini. Ampliava la mente ed educava al bello scrivere. Ecco, non sarebbe abbastanza ancora adesso?
I libri, va detto subito, NON curano. In quanto oggetto fisico (di carta stampata), non hanno alcun effetto terapeutico, men che meno per le parole che vi sono scritte dentro. Siamo noi che li carichiamo di simboli e di aspettative. Nient’altro.
Conosco un tale che in uno dei momenti più oscuri della sua vita si è letto svariati titoli di Erich Fromm. Io probabilmente non riuscirei a fare altrettanto neanche nei momenti in cui sprizzo gioia da tutti i pori. Fromm probabilmente lo ha aiutato a uscire dal pantano in cui si trovava, ma chi l’ha detto che aiuterebbe anche me se mi trovassi in una situazione analoga? Eppure i volumi sono gli stessi, e i contenuti perfettamente identici.
Da giovane non mi piacevano gran che i romanzi di Agatha Christie. Ne lessi un paio senza particolari entusiasmi (eccezion fatt per “Assassinio sull’Orient Express”, che è il giallo dei gialli). Adesso, a 50 anni, ne sono entusiasta. Ma gli scritti della Christie sono sempre stati quelli, non è che siano entusiasmanti adesso o che fossero noiosi allora, no, sono io che, caso mai, ho sviluppato un gusto che mi ha permesso di apprezzarli. Leggere “Poirot sul Nilo” a 50 anni? E sia.
Una volta, quando vivevo da solo, passai tre giorni a casa con una piccola influenza. Antibiotici, Tachipirina, sudare come un finlandese nella sauna e, dulcis in fundo, una notte di tuoni, lampi e pioggia. Compagnia insostituibile un romanzo di Camilleri con Montalbano e relativa ghenga. Dopo tre giorni la febbre era sparita. Ma è stato certamente per merito degli antibiotici, non del pur pregevole libro di Camilleri, anche se febbre, nottata persa (e figlia femmina!), temporale notturno e giallo alla mano fanno molto atmosfera.
Tra i libri di culto della biblioterapia, figura il classico volume di Robin Norwood, “Donne che amano troppo”, autentico manuale del do-it-yourself dedicato alle donne che hanno sviluppato una dipendenza da relazione. Non c’è dubbio che si tratti di un libro molto completo, ma non abbastanza da voler spiegare, tra le sue parti, anche come si possano evitare le donne che amano troppo e perché siano un male.
Insomma, c’è sempre questa deriva buonista a farla da padrona, ma nessuno dice che se è vero (ammesso e non concesso) che i libri curano, la scuola è la prima clinica riabilitativa della società. Con questo suo ostinarsi a far leggere e studiare Dante Alighieri e “i Promessi Sposi”. Con questa testardaggine ossessiva con cui ci propina il Verga. Con queste professoresse antiquate e annoiate che da giovani hanno sognato dietro i romanzi di Carlo Cassola e che spiegano con metodo e costanza (“nello stesso, sullo stesso libro, con le stesse parole”) qualche novella di Pirandello e le poesie di Leopardi.
A meno che, tra i cultori della biblioterapia, non venga fuori qualche omeòpata della materia con la mania che il simile cura il simile, e pretenda di curare il disturbo bipolare con manie suicide a colpi di “Madame Bovary” di Flaubert. Sarebbe troppo.
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Leggere i libri della collana “La Memoria” della Sellerio è una delle cose più sensate che si possano fare, considerato il piattume che regna nell’editoria italiana, così càrica di ciarpame.
A dire il vero qualche nota stonata c’è anche in quella collana (Adriano Sofri, per esempio), ma più che una stonatura si tratta di una disarmonia. Per il resto serie azzeccata, titoli bellissimi, ottima selezione di giallisti (ci sono il Malvaldi, Manzini, Camilleri, la Giménez-Bartlett, Esmahan Aykol, Barbapapà, Barbapepé, Barbalallà, Barbadiquà…), formato ideale per leggere a letto (dove, se no?), carta di qualità, carattere chiaro. Insomma, una roba che ti fa venir voglia di non leggere nient’altro.
Ma voi prendete un Emilio Salgari dei giorni nostri, che ambienta le sue storie a metà tra il giallo, il romanzo gotico e la narrativa per ragazzi, in Inghilterra senza mai averci messo piede e otterrete Alan Bradley, un signore simpatico che (sor)ride da dietro gli occhiali della quarta di copertina, con uno stile che picchia a tratti sul rimanzo vittoriano e che non dispiace proprio per niente.
Poi prendete una bambina di 11 anni che ha perso la mamma durante un’escursione in montagna (“la mia mamma è in cielo!”, diceva Pippi Calzelunghe), datele due sorelle che la prendono toujours per le nàtiche, assai vanitose e solitarie (insomma, le sorellastre di Cenerentola, per dire), un padre non ancora rassegnato al dolore che non fa altro che occuparsi della sua collezione di francobolli, un cameriere fedelissimo, una zia con qualche segreto di troppo, ma, soprattutto, una grande e precoce passione per la chimica e in particolare per i veleni.
Avrete creato Flavia de Luce. Detective in erba che risolve casi maturi.
Quindi cercate di mollare quelle porcherie che state leggendo e convertitevi, peccatori!
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Montalbano s’arrisbigliò malamente. Era sudatizzo e scantàto, che dovevano essere le sei di matina e sacramentò picchì le persiane della verandina erano ristate arrapùte e il sole ci trasiva dintra come lui avrebbe fatto in gioventù con una bella fìmmina, ma ormai si sentiva catapultato nel pissimismo cosmico, come gli diceva Montalbano primo, anzi, nella decadenza dell’impero, come gli diceva Montalbano secondo, anzi, nell’inettitudine totale, come gli suggeriva Montalbano terzo, che alla fine si scassò i cogghiuna di tutti i Montalbani fino al ventiseièsimo e si susì.
Si vìppi una cuccuma di cafè e accumenzò a pensari a chi poteva scassare i cabbasisi ammatìno.
Il Dottor Pasquano no, non era cosa di arrisbigliarlo, che capace si era perso l’anima di sua zia Assuntina all’ultima mano a poker e stava di umore male assà’…. Mimì Augello non era certamente arrivato in commissariato a Vigàta e col picciriddro capace che aviva fatto nuttata. Con Livia c’era stata una sciarrata la sera avanti che lèvati, era meglio chiamarla tanticchia più tardi per dàrici il buongiorno e fare paci.
S’addecise a comporre il nùmmaro di Catarella, ché tanto quello in commissariato ci stava sicuro.
– “Pronto, Catarè’…”
– “Ah, è vossia pirsonalmente di pirsona, Dottori?? E che michia vuole a quest’ora da mìa?….”
– “Catarè’, ma come ti permetti…”
– “Dottori, ma come si permettesse vossìa, che io me stesso medesimo me ne sono stato tutta la notte in loco ove tròvomi or ora, mentre che vossia dormiva alla casa so’ senza fare una venerata minchia di nènti, che verrebbe a dire una fottutissima, Dottori…”
– “Catarè’, ma io non ti riconosco più, ma ti sei rimminchionito??”
– “Nònsi, Dottori, è vossia quello che si vippi il ciriveddro con l’ultimo whisky assieme alla svidisa ajeri a sera, che se la sua zita lo vèni a sapiri ci accunza la faccia come due arancini di Adelina!”
– “Catarè’ non mi scassare i cabbasisi…”
– “E se non vuole che ci scasso i cabbasisi a vossia di pirsona, pòsi il tilèfono e venga al commissariato che ci sarebbi il signori e quistori del Latte con la s in fondo che ci vuole spiari proprio immantinenti, e guardi che nun àvi bone intenzioni…”
Montalbano abbassò la cornetta mezzo scantato, con gli occhi che gli facevano pupi pupi.
Si vippi un’altra tazza di cafè prima di telefonare a Livia a Boccadasse.
– “Oh, Livia, che facevi, dormivi??”
– “No, mi stavo facendo la barba! Che razza di coglione che sei, ma secondo te cosa avrei dovuto fare a quest’ora??”
– “E ti ho svegliata??”
– “Salvo, ma che domande fai… stavo dormendo e ora parlo con te. Certo che mi hai svegliata, ma hai visto che ore sono…?”
– “Scusami Livia, sai, mi è successa una cosa strana…”
– “Un’altra? Sentiamo, che è successo stavolta??”
– “Nièèèèènte, figùrati… no, è solo che ho telefonato a Catarella e mi ha mandato a fare in culo…”
– “E ha fatto bene! Hai bisogno di altro, ora??”
Era accumenzata la jornata.
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Prende vita oggidì questa imprescindibile sezione del blog, dedicata a chi ama i romanzi di Andrea Camilleri e al caro Fabio Montale (o Reginaldi Pilade) che di tutto questo ennesimo troiaio è co-ispiratore insigne.
Laura era l’amica del cori di Livia, quella alla quale confidava i misteri gaudiosi e macari quelli tanticchia meno gaudiosi.
"Vengono qua?"
"Sì, ti dispiace?"
"Per niente, tu sai bene che Laura e suo marito mi sono simpatici ma…"
"Spiegami questo ma".
Bih, che camurria!
"Pensavo che finalmente avremmo potuto stare un po’ più a lungo da soli e…"
"Ahahah!"
Risata tipo strega di Biancaneve e i sette nani.
"Perché ridi, scusa?"
"Perché sai benissimo che a restare sola sarò io, io, capisci, mentre tu passerai la giornata e forse anche la nottata al commissariato dietro l’ammazzato di turno!"
"Ma no, Livia, qua d’agosto, col caldo che fa, macari gli assassini aspettano l’autunno".
"Così’è, una battuta di spirito? Dovrei ridere?"
(Andrea Camilleri, La vampa d’agosto, Sellerio)
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"Si potrebbe domandare a Tommaseo l’autorizzazione a intercettare le telefonate tra Sinagra e…"
"…e l’onorevole Di Santo? Ma in che minchia di mondo campi, tu? Nessun magistrato oggi come oggi ti concederebbe quell’autorizzazione, e d’altra parte non potrebbe manco farlo, perché questa gente sa blindarsi bene, deve prima domandare l’autorizzazione al parlamento. E aspetta e spera che gliela concedono!"
Montalbano lo stava a sentiri con una speci di stanchizza crescente. Pirchì erano paroli che avrebbe detto lui stesso.
(Andrea Camilleri, La danza del gabbiano, Sellerio, 2009)