Sant’Ilario: insegnante licenziata perché non tiene in ordine i registri

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Sant’Ilario non è solo il paesino della stazione. E’ una località in cui, con uno sguardo, se ne accorgono tutti che si tratta di un missionario -non si sa se per nomina o per posizione- quello che ha licenziato, in una scuola privata a carattere ecclesiastico di cui è il direttore, una insegnante a quanto pare molto brava e coscienziosa.

Il motivo è presto detto: l’insegnante era brava, sì, ma non (man)teneva in ordine impeccabile il suo registro. Dunque, licenziata.

Chiariamo: non aggiornare il registro è una rogna da sanzione disciplinare, sì (perché metti che l’alunno esce dalla scuola per andare a fare una rapina proprio alla tua ora, se lasci il registro in bianco gli offri un alibi formidabile: il Tizio era regolarmente presente a scuola perché tu non hai messo la classica “a” di “assente” in corrispondenza del giorno, o perché sei un pirla che non sa nemmeno aggiornare il registro elettronico). Però tutt’al più in una scuola statale avrebbe preso una nota di richiamo. E, soprattutto, ci sarebbe stata una contestazione di addebito, che è un po’ l’informazione di garanzia di noialtri. Se la sarebbe cavata, alla fine, con un ammonimento scritto, che avrebbe potuto far cancellare dopo due o tre anni dal suo curriculum.

Dal commissario al sacrestano, dunque, a Sant’Ilario ci sono tutti. E l’insegnante dovrà trovarsi un’altra sede o un altro lavoro. Senza pretese, senza pretese.

15 anni dalla morte di Fabrizio De André

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Questa è una fotografia scattata in Italia (o in territorio italiano) ed è ora nel pubblico dominio poiché il copyright è scaduto.

15 anni fa moriva Fabrizio De André e noi ci ostiniamo a non volerlo lasciare in pace, a non volerlo considerare come “passato”, a non volerlo vedere come un tempo composto e compiuto. Come qualcosa che “ha fatto parte di noi”, come gli zoccoli delle femministe, gli eskimi, il Rosso Antico e la Magnesia Bisurata Aromatic. In mero senso iconografico, certo, perché De André è stato indubbiamente molto di più.

Abbiamo bisogno di questa sua eterna e fastidiosa santificazione, di questa sua trasformazione dallo status di persona a quello di “Poeta” con la P maiuscola a quello di oggetto di culto, feticcio.

Era solo un cantante, come lui stesso si autodefiniva.

Fabrizio De André è stato trasformato in un oggetto per tutte le stagioni. Lo piangono i cattolici che hanno inserito nei loro innari l'”Ave Maria” da “La buona novella” (“femmine un giorno e poi madri per sempre”, dimenticando che le fanciulle come Maria femmine lo erano ben poco, passavano direttamente dalla condizione di bambine a quella di madre), lo piangono le maestre d’asilo che se verrà la guerra marcondirondera, quelli della RAI che vanno giù di fisarmonica negli stacchetti di “Che tempo che fa”, gli omosessuali di “Amico fragile”, le puttane di “Bocca di rosa”, i carcerati di “Nella mia ora di libertà”, i camorristi co’ Ciccirinella precisa a mammà’, giudici con notti insonni, matti che imparano la Treccani, con abbondante condimento di retorica crocefissa di “pietà che non cede al rancore”.

Di bombaroli neanche più a parlarne. Non vanno più di moda, non sono più opportuni.

Quello che, invece sì, va di moda, è organizzare queste serate orrende di concerti in onore di De André in cui per bene che vada c’è qualche gruppetto che scimmiotta la PFM mentre se vi va di sfiga c’è uno sul palco con la chitarra, con la gamba accavallata, la sigaretta tra le dita (o, peggio, appoggiata al ponticello superiore della chitarra e stretta tra le corde), la voce roca da recitativo, lo sguardo compiaciuto verso il pubblico.

E’ tanto bello sentirsi, in qualche modo, “reincarnazione”. Raccattare qualche applauso, levare una mano al cielo come a dire “Questi applausi non sono per me, sono per Faber che è lassù!”.

Più brutto, ma più necessario è consegnare De André al suo tempo. Che è anche il nostro, ma per puro caso.