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Il mi’ zio Piero, che gli garbava il mare e mi ci portava col vespino assieme alla mi’ zia Iolanda e al cane Boby, aveva un battibatti imbalsamato (chissà cosa ci faceva, o quali virtù avesse il detto battibatti per poter sfuggire alla impietosa putrefazione) e un conchiglione.
Il battibatti lo teneva in camera, ben nascosto. Il conchiglione, invece, era da salotto, da esposizione.
“Mettitelo all’orecchio, si sente il mare”, mi diceva.
E allora io, piccinino, obbedivo, avvicinando all’orecchio il bestio ormai privo del suo contenuto carnoso e carnale, chiocciolone di mare di dimensioni estreme.
Però il mare non ce lo sentivo. Macché. Nada, nichts, nisba.
Mi giravo verso il mi’ zio Piero e gli facevo un sissì meccanico, perché non mi andava di contrariarlo o renderlo infelice, ma io il jovanottesco mare dentro una conchiglia non ce lo sentivo.
Mi sembrava, più che altro, che fosse il fatto che l’orecchio veniva chiuso da qualcosa a fare in modo di sentire quel rumorino che non era il mare, no, era semplicemente un effetto che poteva essere raggiunto con una conchiglia, sì, ma anche, per esempio, con un bicchiere.
Ecco, da allora capii che ci sono un sacco di cose morte e inerti intorno a noi, a cui gli esseri umani trasferiscono aspettative improbabili e impossibili perché sono irrimediamilmente scemi (ma il mi’ zio Piero no, un era scemo, voleva farmi ruzzare un gocciolino…).