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Le feste de l’Unità non ci sono più. Fanno parte di quelle cose di una volta che abbiamo completamente perduto. Come il Dolce Forno Harbert. O le palline clic-clac.
Alla Festa de l’Unità c’era il gioco del tappo, quello del maialino d’India (un povero porcellino costretto a rifugiarsi in una casetta numerata, chi aveva quel numero vinceva il premio in palio -solitamente una pianta-), e si entrava tra gli stand accompagnati da un odore di fritto che ti impregnava anche le mutande, frammisto alla fumicaia delle salsicce arrosto e delle bistecche alla brace che venivano cotte lì per lì, con contorno di fagioli all’olio e pepe, perché, si sapeva, il compagno comunista mangiava bene e scorreggiava meglio. Il vino era quello dei fiaschi che veniva messo sul tavolo così alla sans façon e bevuto nei bicchieri di plastica bianchi.
Poi si andava al dibattito della serata con lo stomaco appesantito, la testa brilla e nessuna voglia di discutere, bastava tirare qualche improperio alla Democrazia Cristiana (allora esisteva anche lei), rimpiangere Terradioboiacini o aver qualcosa da ridire su Berlìnguere, che in Toscana quanto ad accenti non siamo secondi a nessuno.
Ma alle feste del PD cosa servono, il sushi??