Io sono profondamente contrario all’uso generalizzato dei pagamenti elettronici (mediante bancomat o carta di credito) a discapito del contante. Almeno per importi molto piccoli e quotidiani. Come il caffè al bar, il giornale in edicola, il pranzo al fast food, la ricarica telefonica, la spesa al supermercato, la prestazione del barbiere, le sigarette dal tabaccaio, l’ordinazione su Amazon.
Al commerciante la transazione elettronica COSTA (la banca che gli concede il POS si trattiene una percentuale sul prezzo finale del prodotto) e potrebbe “caricare” questo costo sull’utente finale con conseguente aumento dei prezzi.
Ma, soprattutto, il contante è sinonimo di anonimato, e l’anonimato è un valore. Perché dovrei lasciare una traccia elettronica solo perché scelgo di bere un caffè nel bar Tale piuttosto che nel bar Talaltro? Per non parlare della spesa al supermercato, in cui il pagamento elettronico è relazionato all’emissione di uno scontrino numerato in cui viene dettagliato tutto ciò che compro, nei minimi particolari (perfino l’etto di prosciutto del banco della salumeria riporta l’origine: San Daniele, Parma, toscano, nostrano etc…). Si avrebbe così un ulteriore mezzo per profilare i gusti e le abitudini dell’utente, le banche avrebbero una base di dati formidabile, compresi i dati sensibili (il sistema del pagamento elettronico incrociato con lo scontrino funziona anche per le farmacie, per cui sarebbe relativamente semplice verificare se quel giorno, con quel pagamento, ho comprato una scatola di profilattici, piuttosto che un antipressivo triciclico, piuttosto che un’Aspirina, anzi, per le farmacie il database si amplia ulteriormente perché lo scontrino è deducibile dalla dichiarazione dei redditi, e il cerchio della tracciabilità si allarga).
Perché non posso acquistare un’automobile in contanti? Cos’hanno i miei soldi, puzzano? Si presume forse che provengano da attività illecite? Se è così bisogna dimostrarlo. Se non lo si dimostra non vedo perché negarmi il diritto di pagare cash.
Dice: ma c’è da combattere l’evasione fiscale. Senz’altro. Ma perché i cittadini dovrebbero essere obbligati a pagare anche cifre ridicole con un dispositivo elettronico SOLO perché lo stato non riesce a mettere una pezza alla piaga dilagante dell’evasione, magari con leggi estremamente più severe (rendiamoci conto che per un reato ridicolo come la diffamazione sono ancora previsti tre anni di carcere, mentre per le piccole evasioni fiscali non è prevista nessuna sanzione detentiva e se diffami una persona crei un danno SOLO a quella persona, mentre se evadi il fisco crei un danno a tutta la comunità) e controlli incrociati più capillari. Gli strumenti, ancorché a volte inadeguati, ci sono. Si tratta di usarli. Il mio bancomat non fermerà di certo le mafie, il flusso immenso di soldi neri della criminalità organizzata, ma neanche il malcostume spicciolo del dentista che ti dice che ti fa il lavoro a 300 euro senza fattura e a 400 con la fattura (e beati voi se spendete solo 400 euro dal dentista!). Ma, soprattutto, davanti al pericolo dell’eccessiva profilazione dell’utente finale, rivendico il mio diritto a pagare in contanti e a sparire, anziché far parte di un numero indefinito di dati a disposizione dei poteri forti.
L’altro giorno c’è stato un accesso stravagante sul mio classicistranieri.com.
E’ un signore che ha utilizzato un link anonimo per cercare di nascondere i suoi dati. Nulla di male, lo può fare. Anche se non vedo cosa ci sia da nascondere se si naviga in un sito che offre cultura. Certo, oggigiorno la cultura è una cosa da cui bisogna vergognarsi, quindi è meglio che non si sappia troppo in giro.
Ma la cosa curiosa è che di questo signore si sa che si è collegato da Mestre (Ve), che ha usato un Mac con sistema operativo Safari.
Alla faccia dell’anonimato (che è qualcosa di molto, molto più serio)!
Il decreto anti-femminicidio è nato, e come tutte le cose un po’ fighttòfile, lo si annuncia, debitamente, su Twitter.
Lo hanno chiamato proprio così, “anti-femminicidio”. C’è l’antipulci, l’antizanzare, l’antitetanica, l’antivipera (questa parola è bella, si è anti l’animale e non anti l’effetto del suo veleno). Ora c’è l’anti-femminicidio. E l’eliminazione del trattino è solo questione di tempo e di uso della parola.
Non è una cosa che una donna se lo spruzza addosso e non viene più picchiata e violentata fino alla morte dal marito, dal compagno, dal fidanzato o dal padre (perché se le càpita per colpa dello spacciatorello di turno, come nel caso di una giovane di Castagneto Carducci, quello non è femminicidio??). Non ci si inietta una dose di anti-femminicidio per fermare gli effetti di queste violenze e, eventualmente, ritornare in vita. No, non è così che funziona.
Decreto profondamente deludente. Assolutamente mancante di punti di appoggio seri e convincenti.
Intanto c’è da chiedersi se sia stato effettivamente e chiaramente definito il reato di femminicidio. Se esista, cioè, al di là di ogni ragionevole dubbio, una condotta che venga definita “femminicidio”. E, eventualmente, in che cosa differisca il “femminicidio” dall’omicidio tradizionale. Perché una donna uccisa dal marito perché lo voleva lasciare sia diversa da una donna presa a fucilate da uno sconosciuto. Sono domande a cui il governo (che NON è il legislatore, ma che a lui, in questo caso, si sostituisce) DEVE dare una risposta. Risposta che non c’è.
Ci sono, però, i provvedimenti.
a) Querela irrevocabile. Vuol dire che una volta presentata una querela, questa non può più essere rimessa, ovvero ritirata, e continuerà a produrre effetti sia che la vittima continui a volerlo o no.
Quella di presentare querela, oltre che una facoltà è un diritto. A cui, certamente, si può rinunciare. Io posso denunciare per diffamazione uno che mi ha offeso, magari perché in quel giorno ero arrabbiato, basta che lui mi abbia diffamato davvero. Poi, magari, con il tempo, il tipo mi chiede scusa, io mi convinco che forse ho un po’ esagerato, abbiamo fatto pace, magari è nata anche una bella amicizia, e io DEVO poter rinunciare a quel diritto che ho esercitato, se questa è la mia intenzione.
Chi querela per “femminicidio” è in genere una donna che ha subito delle violenze atroci. Ma, allora, non si capisce perché chiamare “femminicidio” il reato o i reati per cui si procede, visto che la donna è ancora viva. Saranno molestie, percosse, violenze sessuali o meno, lesioni più o meno gravi. Ma la donna è viva, tant’è che propone querela. E vogliamo toglierle non solo il diritto di ritirarla, ma anche il diritto di avere paura. Per sé, e per i propri figli. E, eventualmente, di proteggere la sua persona e quella dei suoi cari. Perché lo stronzo quando è querelato minaccia. Se sa che la donna non può più ritirare nulla, allora si sente perduto, e chi non ha più nulla da perdere non ci pensa due volte ad andare fino in fondo.
Sarebbe bastato rendere perseguibili di ufficio e non più a querela di parte quei tanti reati connessi con il maltrattamento. Ad esempio le lesioni con prognosi inferiori ai venti giorni. Perché non è che lo stronzo, se ti fa un occhio nero guaribile in 15 giorni ti ha fatto qualcosa di bello e di piacevole.
Oppure l’obbligo per il medico curante, per il pronto soccorso, per gli assistenti sociali di segnalare alla magistratura quello di cui vengono a conoscenza durante il loro lavoro.
Oppure poter esercitare l’azione penale anche su denuncia (scritta e sottoscritta) di una persona che non sia necessariamente la diretta interessata ma magari qualcuno che le sta vicino (genitori, parenti stretti, un’amica, il parroco).
Perché una donna che non può ritirare una querela, dove la mandi? A lavorare, dico, ammesso che lavori. A far istruire i propri figli, a rifarsi una vita per proteggerla dallo stronzo di cui sopra che non ha nulla da perdere??
b) Se alla violenza assiste un minore la pena è aumentata di un terzo. La presenza del minore deve essere dimostrata in giudizio, ed è l’accusa che la deve dimostrare. Alla difesa basterebbe poter dire “no, no, il bambino era a letto, dormiva e non ha visto nulla”. Vale il sì dell’accusa come il no della difesa, in mancanza di prove valide e sufficientemente solide.
Guardiamo il reato di percosse. L’art. 581 del Codice Penale stabilisce che: “Chiunque percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito, a querela della persona offesa con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 309. Tale disposizione non si applica quando la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato.”
Cioè, io ti meno davanti a un minore, ma se tu non subisci nessuna “malattia nel corpo” (se, ad esempio, mi limito a darti degli schiaffettini superficiali, che non lasciano lividi, magari anche così, per stuzzicarti un po’) io posso essere condannato con la reclusione fino a sei mesi (a meno che i miei schiaffettini non facciano parte di un disegno più ampio e di un delitto maggiore) aumentati di un terzo. Questo se il giudice è talmente rigido da applicare il massimo della pena. O se gli schiaffettini erano continuati nel tempo e il fatto era di particolare gravità.
Se la pena base dovesse essere di tre mesi (metà del massimo) l’aggravante del minore si annullerebbe con la concessione delle attenuanti generiche, e lo stronzo schiaffeggiatore stavolta se ne tornerebbe con una condanna a tre mesi (o a quattro se il reato è continuato), condizionale assicurata, e se patteggia il rito gli consente uno sconto maggiore.
E’ un caso limite, ma è molto esemplificativo. Ah, naturalmente il tutto è perseguibile a querela di parte, ci mancherebbe altro.
c) Il diritto al gratuito patrocinio per le vittime di violenza. Ma non è un istituto che è sempre esistito? Dove sarebbe la novità?? Chi non può permettersi un avvocato deve poter accedere alla giustizia a spese dello stato sia che sia una vittima sia che si tratti di un imputato e debba esercitare una difesa. Lo sanno anche i muri. E in che cosa consisterebbe la grande novità introdotta da questo punto? Non è ancora chiaro.
d) Anonimato. Riferisce Alfano: “da oggi di dà la possibilità a chi sente o sa di una violenza in corso di telefonare alle forze di polizia non anonimamente, ma dando nome e cognome: a mantenere anonimato e protezione ci pensa lo Stato. Si può quindi intervenire su denunce fatte da terzi soggetti, magari il vicino di casa che ha sentito delle urla”
Allora, se io devo dare il mio nome e cognome, o, comunque, declinare le mie generalità alla polizia a cui telefono per riferire di una violenza in atto, NON SONO anonimo. Sono sempre identificabile dall’autorità giudiziaria. Magari lo stato provvederà a mascherare i miei dati agli occhi del presunto colpevole e della vittima, ma se vengo chiamato in un pubblico processo a testimoniare e a riferire che sì, ho sentito dei rumori e delle liti quella sera, poi difesa e parte civile le mie generalità le vogliono. E questo non è anonimato. E le “denunce fatte da terzi soggetti” non è che vanno firmate? Da quando in qua le forze dell’ordine si muovono sulla base di un signor X che riferisce di essere il signor Y e che dice che il signor Z sta picchiando la moglie??? Non esiste più la responsabilità di chi scrive?
Laura Boldrini esulta: “#Femminicidio, violenza contro le donne, #stalking: bene il decreto del #governo, segno di nuova consapevolezza” (su Twitter, naturalmente!)
Tolgono i diritti alle donne e la chiamano “consapevolezza”.
Di Beppe Severgnini ho già parlato, en passant, qualche mese fa. Non ho assolutamente nulla contro di lui, lo considero uno scrittore ed opinionista leggero, ideale e divertente da leggere in aereo per passare quelle due o tre ore da Roma a Dublino (o Londra, O Berlino, o Parigi, O Budapest, o…) e/o viceversa, giusto per distrarsi dalla tensione che ci prende quando siamo in quota e che ci fa aggrappare alla moquette dell’aereo direttamente con le dita dei piedi. Quei libri comprati nelle librerie internazionali degli aeroporti di tutti il mondo, e di cui poi regolarmente ci dimentichiamo con un sorriso assieme al nostro carico di souvenirs, carte d’imbarco scadute, passaporti da rimettere a posto, calzini sporchi da lavare, e una scheda da 2 Gb di foto che avremmo voluto far vedere ai nostri amici di Facebook. E, comunque, quella di Servergnini è una letteratura di "genere", da gentleman d’antan, da ritrattista dei vizi e costumi degli italiani, e mi va anche bene, ma recentemente ha scritto un articolo sull’anonimato in rete (1) che mi ha lasciato alquanto interdetto, dal titolo "Blog, forum o gorillaio (abbasso l’anonimato!)". Evviva, almeno fin dal titolo sappiamo come la pensa Severgnini e possiamo decidere se andare avanti nella lettura o meno.
Scrive il Nostro: "La questione è quella dell’anonimato. E’ stato detto e scritto, anche da parte di persone informate e perbene, che rappresenta la libertà. Non sono sicuro di questa equivalenza, in una società aperta. Temo possa diventare, invece, un invito all’irresponsabilità e una copertura per l’ignavia; a lungo andare, la ricetta per l’irrilevanza. Non sapere chi dice una cosa rende questa cosa meno interessante: non viviamo dentro un romanzo di Sciascia."
Ora, l’affermazione secondo cui non si vive dentro un romanzo di Sciascia mi pare facilmente confutabile. Di uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaqquaraqquà è pieno il mondo e Severgnini è troppo intelligente per non essersene accorto. Chiaramente è una captatio benevolentiae. L’anonimato, in rete e non, sicuramente rappresenta la libertà anche in una società aperta. Si va dalla libertà di non indicare il mittente in una lettera alla fidanzatina per paura che la mamma di lei ci sgàmi alla libertà di fare squilli anonimi con il #31# premesso al numero di telefono dell’amante per evitare che la sgàmi il marito e la corchi di mazzate. Sono solo due degli usi (il primo è un po’ romantico e assai rétro, lo ammetto…) più diffusi e quotidiani di anonimato. Ci possono essere migliaia di motivi per cui uno decide di restare anonimo, e possono essere tutti legittimi e perfino di beneficio (se non altro per evitare le mazzate di cui sopra). Ma questo l’ho detto tante volte.
Poi, parlando del suo blog "Italians", ospitato dal Corriere on line, chiarisce: "Da tre mesi abbiamo introdotto la possibilità di commentare le dieci lettere quotidiane (le migliori tra quelle che arrivano). Immediato successo (di numeri) e immediati problemi (di comportamento). Firmandosi Lettore 98765, Scarpette Rosse o VendicatoreBrianzolo – nomi di fantasia, non voglio gratificare gli esibizionisti – molti hanno preso a tempestare il blog di ripetuti, petulanti, lunghissimi, anonimi commenti."
Il problema di Severgnini non è, dunque, l’anonimato ma lo pseudonimato, di cui, si sa, la rete è piena.
Severgnini confonde un vezzo con un diritto. Il fatto che Internet sia piena di gente che pensa di potersi rendere invisibile firmandosi "Lambretta" o "Paciughina58", oppure ancora "SciurCumménda" (nomi anche i nostri di fantasia, e comunque, seguendo il ragionamento di Severgnini, di esibizionisti ne abbiamo molti, e gli spammer, grazie al cielo, non mancano…) , non significa che questo sia anonimato. Scambiare l’anonimato per maleducazione, o pretesa di impunità, in rete è profondamente sbagliato. Perfino un blog scalcinato come questo registra gli indirizzi IP di tutti i commentatori. Scegliersi uno pseudonimo in rete è un po’ come pretendere di andare in giro con una macchina e non voler essere identificati dal numero di targa. Indignarsi per questo significa non sapere come funziona la rete. Non c’è nulla di male a non sapere come funziona la rete, e, certamente, nessuno è degno di critica solo per questo, ma le opinioni si agganciano sempre ad altre opinioni. Petulani? Noiose? Ripetute? E sia. Ma l’anonimato (ossia l’essere effettivamente irrintracciabili sulla rete) è ben altro. E’ quello che permette a chi vive o opera in regime di censura o di limitata libertà di informazione e comunicazione di non essere perseguito per quello che scrive. Severgnini potrebbe dire che lui ha parlato di chi vive in una "società aperta". Appunto. Sarà mica una
società aperta quella che ci mette al 77° posto nel mondo per libertà di informazione!
"Tra i compiti di un grande giornale, sono convinto, c’è anche quello di chiedere una piccola prova di educazione civica. E adesso, avanti: ditemi pure che sbaglio. Ma ditelo mettendoci nome e cognome."
Severgnini sbaglia. E io il mio nome e cognome sul mio blog ce l’ho sempre messo.
Son debitore delle gratie al polisistèmico (1) Single a trent’anni il quale in uno de’ suoi commenti viciniori m’istiga, anzi, mi pùngola, come suol fare, a ragionar d’un tema che m’è caro, quello dell’anonimato (in rete o no) come diritto.
Ora però la smetto di fare l’imbecille perché il tema sollevato dal diverticolitico (2) è veramente serio.
Intendo per anonimato esattamente il diritto che ciascuno ha di non rendersi riconoscibile, e, quando possibile, irrintracciabile, in qualche modo, dal destinatario di un messaggio, o di una comunicazione scritta o telefonica.
E sì, lo ritengo un diritto. Inalienabile. La nostra Costituzione parla di libertà di corrispondenza (quindi di comunicazione) in questi termini:
La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. [Art. 15]
Quindi non si parla solo di libertà di comunicare a chi si vuole ciò che si vuole, ma anche della segretezza di ciò che si comunica. Quindi anche del mittente delle comunicazioni.
Per "corrispondenza" si intende anche quella spedita in via telematica. E-mail, SMS e telefonate sono ugualmente protette per effetto di una legge che è la 547/93 e che dice che per quello che riguarda le sanzioni stabilite dal Codice Penale:"Agli effetti delle disposizioni di questa sezione, per "corrispondenza" si intende quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza".
Lo so, son cose che dànno fastidio e provocano tremori e fortóri, ma è così.
L’anonimato è un concetto inscindibile dalla libertà di corrispondere.
Uno studente iraniano, o nordcoreano, o cinese, o cubano, o italiano, di qualsiasi altro paese in cui sia messa in serio pericolo la libertà di espressione, e nel quale rischi di dover scontare una pena per aver comunicato le sue opinioni, deve poter restare irrintracciabile.
Proprio perché il fatto di aver trasferito all’estero delle informazioni (ad esempio alla redazione di un giornale) lo espone a un rischio concreto e reale di limitazione della sua libertà.
Per questo esistono strumenti come, a puro titolo di esempio, i remailer anonimi che, uniti all’uso di un programma di crittografia forte come il PGP, rendono praticamente vano il tentativo di risalire al vero mittente di un messaggio.
Ora, quali sono i motivi che spingono una persona a non farsi riconoscere dal destinatario? I più disparati, naturalmente. Una persona potrebbe avere un/un’amante e voler comunicare con lui/lei in modo riservato e senza essere scoperto/a dal/la rispettivo/a coniuge. Sono cose molto delicate, e magari anche spiacevoli, ma in Italia non è un reato avere un/un’amante e, dunque, non lo può essere nemmeno corrisponderci per i fattacci propri. In un regime teocratico tradire la moglie o il marito potrebbe essere reato, epunito con una pena severissima. Per questo ritengo che sia un bene essere anonimi, perché non vorrei mai che un uomo o una donna fossero frustati a sangue solo perché sono innamorati di un altro/a. O solo perché si sono fatti una trombatina extra e si sono dati appuntamento nel tal luogo alla tale ora. Oppure si può scegliere l’anonimato perché si sta facendo qualcosa che non dovrebbe essere illegale (ad esempio rifiutarsi di denunciare un cittadino extracomunitario clandestino alle autorità) ma che lo è. O perché anche se non c’è nulla di male nell’inviare un mazzo di fiori al proprio avvocato (donna) io non voglio che il fattorino dell’Interflora sappia da chi riceve i fiori il mio avvocato (donna!). In particolare non voglio che sappia che li riceve da me. Così come non voglio che il postino o l’addetto alla distribuzione delle racomandate sappia chi è che scrive ai destinatari a cui consegna le lettere. Come tutti spedisco i miei auguri di Natale, ma non per questo metto il mittente sul cartoncino o sulla cartolina (lo so, non si scrive mai il mittente su una cartolina, ma perché, è proibito, forse??). Potrei aver bisogno di rispondere a un utente di un newsgroup, o di scrivere qualcosa su una bacheca pubblica e non volermi far riconoscere perché, si veda il caso, il punto è ciò che ho da dire, non chi sono ("che importa di me?")
Insomma, una persona può scegliere l’anonimato perché sono sacrosanti cazzi suoi.
"Anonimato" significa irriconoscibilità o irrintracciabilità, non libertà di sfottimento e di rompere gli zebedèi al prossimo. Certo, questo in linea di principio. Ma tra i principij e l’agire c’è una gran bella differenza. Sappiamo benissimo che una denuncia anonima non dovrebbe nemmno indurre la magistratura ad agire, ma spesso succede. Perché non è detto che una informazione, solo perché anonima, sia necessariamente falsa.
La gente ha paura dell’anonimato perché non si sa difendere. Già, ma perché bisognerebbe difendersi da un diritto? E, soprattutto, perché mai è necessario pretendere per noi quello che non siamo disposti a dare agli altri? Perché, parliamoci chiaro, il famoso #31# premesso a un numero di telefono perché non gli arrivi il numero del chiamante lo abbiamo usato tutti, prima o poi. Perché ci piace tanto vedere se quello risponde o no, per vedere se il telefono del destinatario è acceso (già, e perché ci interessa?) o perché, appunto, sono sacrosanti cazzi nostri.
Essere anonimi non significa usare uno pseudonimo (o "nickname"). Ma soprattutto non signica necessariamente commettere dei reati. I reati sono una cosa, e i diritti un’altra. Se una persona commette un reato credendosi irrintracciabile senza esserlo in realtà è un pirla. Se uno stato non è capace di proteggere i suoi cittadini dai reati che subiscono è uno stato che non ha nessuna credibilità.
Ma non si può negare ai cittadini il diritto di cercare la maggior protezione possibile della identità delle persone rispetto a quello che si ha da comunicare.
Quindi, non sono disposto a rinunciare all’anonimato solo perché qualcuno potrebbe utilizzarlo in un modo non del tutto ortodosso. Mi dispiace molto se una signorina viene trattata male anonimamente per via delle sue grazie o delle sue incontestabili abitudini sessuali, ma non è un buon motivo per togliere un diritto a miliardi di cittadini che, magari, lo usano per scopi leciti.
In una realtà in cui l’anonimato dovesse andare fuorilegge solo i fuorilegge avrebbero diritto all’anonimato.
Ed ecco perché non voglio una realtà senza anonimato, perché non voglio vivere tra i fuorilegge.
Per ora è solo un progetto di legge, il 2195, quello con cui l’onorevole Gabriella Carlucci (PDL) intende "assicurare la tutela della legalità nella rete Internet" delegando al Governo "l’istituzione di un apposito comitato presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni"; quello con cui si vorrebbe che ogni testo postato online potesse venire ricondotto ad un cittadino della rete, vietando di fatto la possibilità di esprimersi in maniera anonima.Continua la lettura di “Gabriella Carlucci contro l’anonimato in rete”→
La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.
La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.
Articolo 15 della Costituzione Italiana
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
Omissis.
Articolo 21 della Costituzione Italiana
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