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Elena Ferrante è una delle scrittrici più di moda in questo momento in Italia.
“Di moda” non significa necessariamente che sia anche una delle più promettenti. Ha successo, e tanto basti a circoscriverne l’identità.
Perché quello di “Elena Ferrante” è uno pseudonimo (qualcuno si azzarderebbe anche a definirlo un eteronimo) dietro al quale si cela una persona non ben meglio identificata che pubblica i suoi romanzi con la casa editrice e/o e vende un numero considerevole di copie.
Nulla di nuovo, in fondo. L’anonimato, o lo pseudonimato, se si preferisce, esistono e sono disponibili per chiunque li voglia usare. E la sedicente Elena Ferrante li usa da almeno venticinque anni. Venticinque anni in cui nessuno è stato capace di risalire alla sua vera identità, venticinque anni trascorsi senza rilasciare un’intervista, senza mostrarsi in televisione, senza fare niente di niente se non scrivere e, appunto, vendere. E’ questa la caratteristica che la distingue da altri pseudo-anonimi, come il collettivo Wu Ming di cui si conoscono nomi e cognomi dei componenti.
Recentemente Elena Ferrante sta diventando oggetto di un vero e proprio bombardamento, anche mediatico, da parte di chi vuole scoprire chi veramente si celi dietro a questo (bel) nome (sì, perché se lo è scelto anche bello, bisogna dirlo).
Ha cominciato Marco Santagata. Professore, romanziere, insigne petrarchista, filologo e, di recente, esperto per la selezione dei concorrenti del Rischiatutto di Fabio Fazio (“vedi giudizio human come spess’erra”?) che dopo una disamina dei romanzi di Ferrante identificava in Marcella Marmo la scrittrice su cui è andato a raccogliere ogni sorta di indizio. Smentita categorica da parte dell’interessata, che è una persona dal carattere mite e riservato e che ha preso con una buona dose di ironia tutto l’interesse che si è scatenato sulla sua persona.
Poi è stata la volta del Sole 24 Ore, che ha addirittura pubblicato un’inchiesta, ripresa anche dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung e da The New York Rewiew of Books per arrivare a puntare il dito contro Anita Raja, moglie del più noto Domenico Starnone. Il Sole 24 Ore pubblica i dati relativi agli introiti della casa editrice e/o evidenziandone l’impennata proprio negli anni del boom editoriale della Ferrante, incrociandoli con quelli di Anita Raja, che non collimerebbero con il ruolo di traduttrice freelance rivendicato dall’editore, che ha pagato a Raja oltre sette volte quanto corrisposto nel 2010.
E’ una serie di operazioni assurde e senza senso. Da Santagata ci saremmo aspettati magari una critica sui singoli romanzi e, che ne so, una valutazione sul loro valore letterario, cioè se quello che scrive Ferrante sia letteratura cólta o di massa. E’ un argomento interessante, ma nessuno ne parla. Si è preferito tramutarsi in novelli Sherlock Holmes, impegnati a vivisezionare anche la più minuscola delle suggestioni letterarie per poi approdare a conclusioni sbagliate. Dal Sole 24 Ore, poi, ci saremmo aspettati un po’ più di rispetto per la privacy: ammesso e non concesso che Elena Ferrante sia Anita Raja non è carino (no, proprio no) andare a vedere quanto guadagna per soddisfare una curiosità che farebbe solo bene a rimanere tale.
Perché, diciamocelo fuori dai denti: a chi interessa sapere chi è Elena Ferrante? A nessuno, certamente. E perché insistere con questa determinazione a ravanare nel torbido dell’incertezza, per dare un volto a chi un volto ha deciso di non averlo?
E pensare che a me Elena Ferrante nemmeno piace!