Io non capisco la gente che non ci piacciono i generici

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Ecco, ve ne sarete accorti tutti che quando si va in farmacia con la ricettina bella pronta e firmata in mano la prima cosa che la farmacista (generalmente giovane e carina, con lo sguardo inconsapevole) ci chiede è: “Le do l’originale o preferisce il generico?” E tutti, soprattutto i vecchietti, normalmente rispondono: “No, no, niente generici, io voglio l’originale!” La sciacquetta carina e gentile prova a ribattere: “Guardi che con l’originale paga tot euro di ticket, mentre con il generico non paga nulla”. E il vecchietto di turno la massacra: “Non me ne importa nulla, mi dia l’originale, il generico non lo voglio.” Oppure, se quella di turno è una vecchietta, guarderà la bambinella con occhio di superiorità e dirà: “Mi dia quello che c’è scritto sulla ricetta”. E sulla ricetta generalmente è sempre indicata la specialità medicinale griffata.

Il motivo di tanta diffidenza non è che il generico sia un farmaco di serie B, un po’ come la cola del discount rispetto alla Coca-Cola e alla Pepsi ufficiali, no, il punto è che per noi il generico è inefficace e in un certo senso, non fa lo stesso effetto. Ma se è lo stesso principio attivo! Magari possono cambiare gli eccipienti, ma quello che del farmaco fa effetto è la stessa esatta identica molecola del farmaco di marca.

Ricordo il caso di mia nonna, l’Angiolina buonanima (di cui non vi parlo da anni, ormai). Per dormire meglio la notte e contrastare l’ansia che la opprimeva le avevano prescritto delle compresse di diazepam. L’effetto fu deleterio. Mia nonna la notte si agitava moltissimo e praticamente ballava sul letto. Riconsultato il medico, la tranquillizzò e le prescrisse lo stesso dosaggio di diazepam, sotto forma di gocce al gusto di limone (quindi molto gradevoli al palato). Il farmaco (che non era esattamente un generico, ma una specialità medicinale con un altro nome) fece effetto e mia nonna stava da Dio. Aveva preso esattamente la stessa cosa.

Una molecola è una molecola. Non ha nessun marchio se non quello del “copyright” che dopo 20 anni dal deposito scade. E’ per questo che esistono i generici. Che costano meno e sono ugualmente efficaci.

Siamo fatti di chimica, e una molecola è una molecola, sia che me la produca l’azienda di grido che ci ha messo il brevetto, sia che la produca chi immette sul mercato solo farmaci generici, e allora perché non approfittarne? Perché siamo malfidati, ecco perché. Pensiamo sempre che ci sia qualcuno pronto a fregarci con qualche intruglietto, che se costa meno deve anche valere di meno, quindi in quanto a efficacia lascerà probabilmente a desiderare.

Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro.

Mamma

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La mi’ nonna Angiolina mi diceva sempre “Un ti devi fidà’ nemmeno di tu’ mà’ cane!”. Del resto, cosa volete, la mi’ nonna Angiolina era una persona fine, dai modi delicati e dall’eloquio forbito.

Per noi italiani la mamma è un simbolo, di più, è sacra, assume un alone incontrastabile di intoccabilità: “mamma, sei tu la vita e per la vita non ti lascio mai più”, “Portami a ballare”, “Di mamme ce n’è una sola” (ce n’è una sòla??), “Una mamma fa tutto per il bene dei figli” (questa poi è bellissima).

Cioè, si diventa mamme e tutto è lecito e permesso. Devono aver inventato l’extraterritorialità delle genitrici. Quante volte abbiamo sentito frasi come “Una mamma certe cose le sente!” (non si sa bene cosa, ma una mamma le sente lo stesso, una suora, una ragazza, una donna nubile evidentemente no! Uno a zero e palla al centro.) Oppure “Nessuno ti vuole bene come la tua mamma”, altra locuzione terribile, perché si dà per scontata l’incapacità di amare di un marito, di una moglie, di un compagno, di una fidanzata e perché no, del figlio che abbiamo a nostra volta.

Sono tutte balle, ma noi non ce ne accorgiamo. E comunque diamo sempre per assodato che una madre agisca sempre per il bene. Mai per il male. Non importa che tramesti nel cellulare del figlio per vedere chi è la donzella di turno che lo distoglie dalle caserecce attenzioni (che comunque è sempre una troia per definizione), o che quando il pargolo ha l’influenza lo costringa a sorbirsi inutili brodaglie della donna (perché se una mamma ha deciso che una cosa ti fa bene non ci sono santi, ti fa bene e basta).

Poi succede il black-out, il corto circuito: le mamme possono uccidere. “Ma io non penso che una mamma possa arrivare ad uccidere il proprio cucciolo!!” Ah no?? E perché mai?? Cosa glielo impedisce? Tu, che oltretutto usi una parola orribile come “cucciolo” per indicare un essere umano, ma non ti vergogni a trattare tuo figlio in questo modo? Se lui è un cucciolo tu cosa sei, una leonessa? Un’orsa?? Una tigre??? Una iena????
“Dio mio come mi fa incazzare la gente che non vuol capire…” diceva Giorgio Gaber. Quando si sente dire qualcosa c’è sempre qualcuno che dichiara “Era una mamma molto attenta nei confronti dei suoi figli”. E si vede, che diamine!

Ma sì, continuiamo pure a difendere queste assassine con argomenti inoppugnabili come “E’ impossibile, una mamma non lo farebbe mai”, troveremo senz’altro un giudice pronto a darci ascolto, ad assolvere la rèa e a cancellare tutto il male dal mondo pur di ricongiungere un figlio (felicemente supersite e virtualmente orfano di madre) alla sua genitrice, e a me mi sa tanto che aveva ragione ma la mi’ nonna Angiolina.

Tim e Vodafone: ora gli “avvisi” si pagano

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La mi’ nonna Angiolina, requiescat in pace, le chiamava “chiapparelle”.

Il mi’ nonno Armando, bonànima anche lui, che usava un toscano arcaico, forte e gentile come una roncolata su’ ‘ piedi, li chiamava “miràoli” (miracoli).

Si trattava, in entrambi i casi, non già di fregature vere e proprie, ma piuttosto di trucchetti, di escamotages, di piccoli espedienti per sbarcare il lunario, per concludere la giornata con non dico tanto, ma almeno qualche centesimino in più (ai tempi del mi’ nonno Armando e della mi’ nonna Angiolina i centesimi c’erano, ma della lira, quella con l’effigie di quell’altro de cuius di Vittorio Emanuele III).

Da oggi (o era ieri? Mah, non importa) se avete Tim o Vodafone pagate gli avvisi che prima non pagavate.

Gli “avvisi” sono quei messaggi (solitamente sotto forma di SMS ma non necessariamente) che vi informano se un numero che avete trovato occupato o spento (perché la gente giustamente un po’ di cazzi suoi ogni tanto se li fa) è tornato raggiungibile e, soprattutto, chi vi ha chiamato quando eravate voi occupati o spenti.

Ci sono diverse modalità di pagamento e di prezzi, si va dal costo infinitesimale per ogni singolo messaggio a un costo a forfait per tutti i messaggi ricevuti in una giornata (però pagate dopo il ricevimento del primo messaggio, non dopo l’ultimo, e che diàmine!).

Bellino, eh? Per cui, se avete Tim o Vodafone sbrigatevi a disattivare queste opzioni (si può farlo, sissignori) perché se tenete il telefono spento un giorno, appena lo riaccendete, se solo vi ha cercato qualcuno, pagate.

Ora, io, voi, chi ci legge di sottecchi, siamo tutti personcine intelligentine che si rendono conto di quello che succede e, soprattutto, siamo in grado di fare qualcosa per prevenire lo sgocciolamento salassale. Se non altro siamo in grado di chiedere informazioni ed indignarci.
Ma penso alla mi’ mamma, per esempio, alla Pieranna, la figliòla più piccina dei suddetti Angiolina e Armando, piccina sì, ma cià 72 anni. Il cellulare è un suo nemico dichiarato, non lo può vedere, se squilla va in tilt, proprio “non ci se la dice”. Però ce l’ha. Ed ha un numero TIM. Finora riceveva i messaggi di chi l’aveva chiamata anche a telefono spento, ma tanto era come se non li ricevesse, perché non li sa nemmen guardare. Però da oggi li paga.

E come lei ci sono fior di anziani che usano il cellulare per necessità o comodità, ma sanno accedere solo alle funzioni di base, adolescenti disinformati che navigano, navigano, navigano, cazzo navigano, andassero un po’ a studiare, almeno. E viandare.

Per l’amor del cielo, son cifre irrisorie, che non buttano sul lastrico nessuno, ma stanno meglio in tasca a noi che in tasca a loro. E in tasca ce lo buttano, che poi ci si lamenta che la gente si tuffa su Uozzàpp!!

E’ arrivato Frate Indovino!!

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L’altro giorno è arrivato “Frate Indovino” a mia moglie.

Una volta il mi’ nonno Armando diceva: “E’ arrivato Frate Indovino!!”, “E’ arrivato Selezione!!” (intendendo “Selezione dal Reader’s Digest”), “E’ arrivata la bolletta della luce, natidancani!!!”.

Frate Indovino faceva parte della posta di ogni giorno, sia che arrivasse il calendario o che si trattasse di più opportune richieste di denaro, sotto forma di donazione liberale o acquisto di qualche ninnolo recapitato “comodamente” a casa per posta.

Quindi non solo Frate Indovino esiste ancora, ma ha addirittura un sito web su cui vende on line tutto ciò che è possibile vendere per posta. A volte mi stupisco ancora di quanto la tecnologia si sia ramificata.

L’avessero mandata a me la paccottiglia cartacea inviata a mia moglie avrei fatto una  richiesta di accesso ai dati per vedere chi glieli ha dati il mio nome e indirizzo. Ma mia  moglie dice che in fondo Frate Indovino le sta simpatico e allora transeat.

Per la cronaca “Frate Indovino” è esistito davvero, si chiamava Padre Mariangelo, al secolo Mario Budelli, nato a Cerqueto nel 1915. Cominciò nel 1945 a regalare un almanacco come  allegato natalizio alla “Voce Serafica di Assisi” ed è quello che viene definito come il Calendario di Frate indovino”. Morì nel 2002.

Insomma, semine, consigli, trucchi, segreti, orti, orticelli, erbe officinali, erbette aromatiche, riflessioni, lune piene, lune nuove, eclissi solari, allunaggi e quant’altro.

La prima cosa che mi è saltata agli occhi è stata una nota a pie di pagina di quelle scritte pidocchine pidocchine in calce al volantino di propaganda per le preparazioni a base di erbe (sì, perché vendono anche le tisane!):

“Frate Indovino” è un marchio! Ma come si fa a fare un marchio del nome (sia pure popolare) di una persona? Sì, lo so che  è possibile, Martini è un nome che è diventato un marchio, Rana lo stesso, se ne potrebbero  fare a iosa di esempi, ma, appunto, Martini è sempre rimasto nell’alveo degli alcolici, Rana
in quello dei prodotti alimentari, Frate Indovino è passato dalla editoria parareligiosa al marketing delle tisane.

E ce ne sono di vari tipi, balsamica, digestiva, rilassante e perfino carminatica, che non sapevo che cosa volesse dire e oggi su Internet apprendo che “si compone di una miscela di piante dalle rinomate proprietà benefiche nei riguardi dell’apparato gastro-intestinale con particolare azione sull’eliminazione dei gas intestinali“. Anche a me càpita di carminare spesso, solo che non lo sapevo, pensavo solo di fare delle scorreggine, ecco tutto.

Al giornale di Frate Indovino e al volantino sulle erbe carminative è allegato un bollettino di conto corrente postale. Per cosa lo posso utilizzare? Mah, per esempio per “richiedere S.S. Messe“.

Era da quand’ero piccino che non vedo più oblazioni in danaro per le messe a suffragio dei defunti o in ricordo degli eventi. La mi’ nonna Angiolina due volte l’anno si vestiva  ammodino, andava in Chiesa, parlava col prete e tirava fuori una banconota per la messa dei  suoi genitori (che sarebbero il mi’ bisnonno Arturo e la mi’ bisnonna Armida)  nell’anniversario del loro trapasso.

O vediamo un po’ cosa fa il marchio Frate Indovino: sul sito Internet c’è un rimando a un volantino (scaricabile in PDF o in DOC o quello che è) in cui si dice:

“in numero sempre crescente, alcuni nostri Lettori ci chiedono la celebrazione di S.S.  Messe, secondo quelle che sono le loro intenzioni. Se anche Lei crederà opportuno inviarci una Sua richiesta, Le confermo che attualmente l’offerta media da noi ricevuta si aggira tra i 15 ed i 20 euro.”

Io sapevo che le messe sono gratuite. E che uno ci può andare se vuole e pregare per chi crede. Non sapevo che per un “servizio” (tale viene considerata dal sito la celebrazione di una messa) del genere ci fosse una sorta di “media statistica” di 15-20 euro. Certo, non è  un tariffario strettamente obbligatorio, tant’è che subito dopo si legge:
“Tuttavia La pregherei di considerare che accettiamo anche offerte minori a cominciare da 10 euro, come indicato dalla Conferenza Episcopale Umbra.”

Ah, ecco. Nientemeno che accettano ANCHE offerte inferiori, a partire da 10 euro! E se io non ho i soldi e non posso pagare 10 euro e ne invio, poniamo il caso, due o tre (che per pronunciare un mome in una funzione religiosa vanno già bene)? E se io ritengo che 10 euro  siano troppi e voglio darne 5? Cosa fanno, non l’accettano? Una offerta è una offerta e deve essere lasciata  alla liberalità della persona, non dovrebbe mai essere prestabilita nel minimo.

Però se volete un ciclo di messe gregoriane, la nota spiega che “L’offerta per la celebrazione delle 30 S.S. Messe Gregoriane si aggira tra i 450 ed i 550 euro”

e la nota alla nota chiarisce che “Per il maggior onere, costituito dal celebrare le Messe Gregoriane, i fedeli sono soliti offrire al sacerdote un’oblazione un po’ più consistente  della consueta”.

Adesso che ho letto tutto corro subito a richiederne una, sì…

Elogio del comprare libri on line

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Ma come sarà bello ordinare i libri on line?

Oddio, on line è bello comprare di tutto, “anche un culo gnudo”, come diceva la mi’ nonna Angiolina, ma i libri sono una particolare goduria.

Ti fanno uno sconto variabile dal 15 al 30% se va bene. Se ordini più di 19 euro di letture (ed è difficilissimo stare sotto questa cifra) ti abbuonano le spese postali, invece se non li raggiungi lo sconto ti ammortizza i costi di invio e se paghi qualcosina in più rispetto al prezzo originale di copertina ti sei risparmiato la rottura di palle di andare in libreria, cercarlo, poi magari non l’avevano, hai dovuto ordinarlo, ci devi tornare, non hai notizie, la libraia è scema, e comunque in poco tempo arriva il corriere (hop!) che te lo porta a casa.

Scegli cosa ti pare e soprattutto non rischi di trovare l’intellettualino sfigato che fa finta di sfogliare qualcosa che non acquisterà solo per darsi un tono.

Non ti addebitano il costo dei libri fino al momento della spedizione e quando il tutto ti arriva a casa, anche se sai già cosa c’è dentro, c’è l’allegria di aprire un pacco (quella di ricevere un pacco, prima di internet era una sensazione che si assaporava solo a Natale), toccare libri praticamente usciti dalla casa editrice senza che qualcun altro li abbia sgualciti o sporcati.

What a wonderful world!

Il mi’ zio Piero

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Anche il mi’ povero zio Piero morì il 6 di febbraio, per l’esattezza il 6 febbraio del 1986.

La sera prima mi disse “Domattina cosa fai, vai all’Università?? Ecco, bravo, io invece son di fèsta!!”. Era in pensione.

Il mi’ zio Piero contribuì alla mia educazione musicale. Mi comprò uno stereo che mi sembrava bellissimo (era uno Schneider!), contribuì al completamento della mia raccolta de “I Grandi Musicisti” della Fratelli Fabbri Editori dedicata alla musica classica con dischi a 33 giri con incisioni davvero pregevoli (avrei raccolto volentieri anche quelli del jazz, ma di jazz non ho mai capito una venerata, e nemmeno il mi’ zio Piero, a dirla tutta).

Mi insegnò la passione per la registrazione, per la conservazione dei suoni e delle voci, passione che non mi ha mai abbandonato.

Aveva un registratore a nastro, un Philips con le bobine piccole (il mi’ zio Piero, con incredibile fantasia li chiamava “i rotolini”), di quelli col microfono esterno che ssssssstttttttttt!! non si deve parlare mentre si registra sennò viene la voce e rovina tutto.

Il suo vicino di casa si chiamava Beppe il Papi. Era un bestemmiatore di professione. Aveva fatto della bestemmia un’arte, una forma letteraria, praticamente un atto creativo demiurgico a sé. Scandiva le bestemmie come quello delle previsioni del tempo scandisce le temperature minime, anzi, di più, come la voce alla radio che legge il bollettino per i naviganti (ma c’è ancora??). Allora il mi’ zio Piero, dal terrazzo di sopra, calava il microfono in direzione della voce di Beppe il Papi che sacramentava in endecasillabi a rima baciata, lo immortalava sui “rotolini”, e ridacchiava di gusto.

Il mi’ zio Piero è lo sposo nella fotografia, quando sposò la mi’ zia Iolanda. Il mi’ nonno Armando è il primo da sinistra, dritto come un fuso e bello come tutti se lo ricordano. La mi’ nonna Angiolina nella foto non c’era (dev’essersi rotta i coglioni prima ancora del flash del fotografo). Dietro al mi’ zio Piero c’è il pòvero Eraldo, pescatore.

E quella piccina che fa da damigella, con la ghigna a tagliòla è la mi’ mamma.

(cliccate sull’immagine per vederla con una definizione maggiore)

La mi’ nonna Angiolina e la banconota falsa

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La mi’ nonna Angiolina, Dio l’abbia in gloria, ma ci credo poco, è forse quella che mi ha insegnato che nella vita farsi mettere i piedi in testa non conviene.

Eccola qui, la mi’ nonna Angiolina, quando era ancora verde, preparare un caffè sul fornello della cucina di casa mia. La mi’ nonna Angiolina era, lo devo dire, una pessima cuoca. Oddio, non che al mi’ nonno Armando, suo marito e perfetto opposto (calmo, pacifico, retto, onesto, dritto come un fuso e di poche parole) la cosa fosse poi di tanto disturbo. A lui andava bene un piede d’insalata che condiva per conto suo con molto aceto, molto sale (il mi’ nonno Armando era di pressione alta e si curava così, e non c’eran versi…) e poco olio, lo mangiava con un tocco di pane che faceva paura e lo accompagnava da mezzo bicchiere di vino. Nei giorni grassi riusciva anche a tirare una gozzata di marsala o a fumarsi mezza sigaretta senza filtro. Poi nient’altro. Della cucina della mi’ nonna Angiolina rammento solo i crostini ai ventrigli di pollo, e certe polpettine di patate che io e mio padre che odiamo le polpette più di ogni altra cosa al mondo (sì, penso di avere in astio le polpette quasi come il caldo, i carciofi e Carmen Consoli) divoravamo famelici.

Vabbene, dicevo, una volta alla mi’ nonna Angiolina fu rifilata una banconota falsa. La depositò in banca senza saperlo e àpriti cielo e spalàncati terra.
Il giorno dopo si mise il vestito buono, prese la borsetta puzzolente di carborina dall’armadio e andò dal direttore dell’istituto di credito mangiandoselo coi panni e tutto. Dopodiché ritirò tutti i suoi risparmi, aprì un nuovo conto corrente in una banca e al direttore esterrefatto che le balbettava "Ma le conviene?" rispose ferma e impassibile: "Mi conviene sempre levarmi dai coglioni gente come voi!"

Ah, la mi’ nonna Angiolina!!!