La gita a Tinder

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tinder

La mia corrispondente in Siberia (sì, lo so cosa vistate chiedendo, come si faccia ad avere una corrispondente proprio nei ghiacci della Siberia, e di conseguenza fatevi un po’ di più i cazzi vostri) ieri mi ha chiesto se uso Tinder.

Pensavo che Tinder fosse una barretta di cioccolato, il Tinder Buendo, il Tinder Cereali e il Tinder con più latte e meno cacao, ma so da pochi giorni che Tinder è una applicazione dedicata principalmente all’acchiappo-hard in rete. La si scarica sull’Android, immagino che ci si iscriva lasciando i propri dati (se no non si vede perché la diano gratis) e quelli della persona che si vorrebbe incontare (che abbia almeno la nostra età e che abiti più o meno vicina a noi), si fa l’upload di una nostra foto e quello la manda ad un tot di persone (credo privilegiando il dato geografico). Se la controparte clicca sulla richiesta di contatto (viceversa può cestinarci con una X) e noi le rispondiamo ecco che abbiamo avviato una chat e che possiamo andare direttamente a patteggiare minimo una trombatina compensatoria, e senza nemmeno parlare troppo, perché tanto si sa che entrambe le persone sono lì per quello, poi, caso mai, si vedrà.

Ecco, il punto non è che mi dia fastidio Tinder come accessorio per trovare facilmente il ragazzo o la ragazza, l’amante, l’amica o l’amico particolare, no, da quel punto di visto magari ce ne fossero di questi accrocchi (anche per trovare persone da contattare se magari vivi in un luogo nuovo e sconosciuto e hai bisogno di amicizie nuove) perché poter dire a una persona che è interessante per te è e continua ad essere una delle cose più difficili della vita. No, ecco, quello che mi urta è la mancanza di colloquio. Ora, capisco che per trombare non sia una conditio sine qua non, per cui, come diceva Brancaleone, prendimi/dammiti cuccurucù, e chi se ne frega se io faccio il meccanico e tu stai per laurearti in filosofia teoretica. Però magari qualcosa oltre al “mi passi la sigaretta?” (il “per favore” è un optional) bisogna pur dirla. Come si fa a riempire quei momenti di vuoto e di corpi sudaticci che si asciugano sotto le lenzuola sgualcite se non si parla un po’??

E, soprattutto, cosa le è venuto in mente alla mia corrispondente siberiana di chiedermi se uso Tinder??

La telefonate su WhatsApp: io le ho! (E voi no!!!)

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Screenshot from 2015-04-02 16:30:32

Qualche giorno fa avevoi letto alcuni articoli sul web, di quelli che i quotidiani si duplicano l’uno con l’altro, che parlavano dell’implementazione in WhatsApp per iPhone delle chiamate vocali.

Non che me ne interessasse granché, visto che io non compro i prodotti di Stigiò. Quello che invece sì, mi interessava, era il fatto che secondo gli articoli questa funzione fosse già implementata sulla versione di WhatsApp per gli Android.

Però io non riuscivo a vedere nessun pippolo da “tappare” (orrenda espressione per “fare tap”, ovvero picchiettare sul touchscreen, che è una brutta parola anche quella, ma se si va avanti di questo passo non si finisce più) per fare le telefonate.

Ponza che ti riponza, prova e riprova, dopo diecimila “macché” è arrivata la mia amica Ivana P. e ha sciolto il mistero: per attivare le chiamate su WhatsApp, oltre ad avere una versione recente del suddetto, occorre ricevere una telefonata da un utente di WhatsApp che, naturalmente, abbia implementato a sua volta la funzione, sennò si fa ride’ le telline. E’ una funzione “virale”. Qualcuno telefona a te e ti attiva, poi tu telefoni a qualcun altro e lo attivi a tua volta.

A quel punto si trattava di trovare qualcuno che avesse WhatsApp e mi facesse una telefonata (non potevo continuare a rimediare stercofigure con Ivana P.!) e mia moglie, che è un genio, mi fa candidamente vedere il suo smartphone e mi accorgo che lei quella funzione l’ha sempre avuta. Son quelle scoperte che ti fanno montare dentro un nervoso abissale (“come sarebbe a di’, io mi arrampico sugli specchi e te te ne vieni candida candida dicendomi “Eccola qui?” Eh, no…) ma ho dovuto chinarmi alla quintessenza muliebre e dopo una chiamata di quattro secondi ho avuto la tanto agognata funzionalità: finalmente anch’io posso chiamare a voce da WhatsApp.

Ora la domanda successiva è “cosa me ne faccio?”. Già, lo so, l’ho tanto voluta ma la voce di chi parla ritorna in eco e non è proprio il massimo.
Poi bisogna calcolare che quando si è al telefono non si hanno le giuste dimensioni e proporzioni del traffico dati scambiato e questo, ameno di non avere una connessione wi-fi, potrebbe essere un problema considerata la limitatezza del traffico dati mensile dei vari gestori (quelli più generosi ti danno appena 2 Gb. mentre quelli stitici pensano che tu ce la faccia con 1 Gb. e basta). In breve, rischiate di sforare le soglie poi col cavolo che potrete andare in giro a fare i gagaroni e a dire che voi ci avete le telefonate gràtisse.

Insomma, state attentini, sì?

Il Fatto Quotidiano on line abbandona la licenza Creative Commons

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C’è sempre qualcosa di gratificante nel mettere una licenza Creative Commons a un sito.

Ci si sente ganzetti, si ha la consapevolezza di far parte di un movimento culturale, ci se la tira da profeti del copyright quando va bene o, quando va peggio, da guru dell’open-source.

Pensiamo sempre di averci guadagnato qualcosa a permettere agli altri di poter fare qualcosa con i nostri contenuti (siano essi testo, musiche, foto o video). Finché poi la gente lo fa. Perché, voglio dire, glielo abbiamo permesso noi.

Dal 2005 la versione on line de “Il Fatto Quotidiano” aveva sposato anche lei una licenza Creative Commons. Poi, d’improvviso, senza dir niente a nessuno (trovatemi una sola notizia che riporti quanto vi sto raccontando) è cambiato tutto.

Ora alla pagina “Termini e condizioni d’utilizzo” (http://www.ilfattoquotidiano.it/termini-e-condizioni-dutilizzo/) si leggono frasi come:

Tutti i materiali pubblicati nel sito (inclusi, a titolo esemplificativo, articoli di informazione, fotografie, immagini, illustrazioni, registrazioni audio e/o video, qui di seguito indicati anche come i “contenuti”) sono protetti dalle leggi sul diritto d’autore e sono di proprietà dell’editore o di chi legittimamente disponga dei diritti relativi.

Inquietante, e non esattamente compatibile con la licenza Creative Commons usata fino a pochi giorni fa. Ma andiamo avanti:

Il lettore, solo per uso personale, è autorizzato a scaricare o copiare i contenuti e ogni altro materiale scaricabile reperibile attraverso i servizi del sito a condizione che riporti fedelmente tutte le indicazioni di copyright e le altre indicazioni riportate nel sito. La riproduzione e la raccolta di qualsiasi contenuto per motivi diversi dall’uso personale è espressamente vietata in assenza di preventiva autorizzazione espressa rilasciata in forma scritta dall’editore o dal titolare del diritto d’autore come indicato nel sito.

Insomma, nessuno può (più) in nessun modo, riprodurre in un suo sito personale, contenuti pubblicati da “Il Fatto Quotidiano”, come era possibile fare prima, quando era sufficiente citare l’autore, la fonte e la licenza a cui era sottoposta l’opera.

Con ogni probabilità, leggendo quanto riportato, l’applicazione che ho scaricato gratis e mediante la quale leggo il giornale sull’Android sfruttando il feed RSS del sito web, è illegale. E illegali sono (o, meglio, “diventano”) i bannerini pubblicitari che i programmatori che lo hanno realizzato hanno posizionato in fondo alla schermata per tirar su due lire. Per tirarle su, si badi bene, sull’applicazione, non sui contenuti. Potrei essere diventato un delinquente solo per questo?

Wikipedia non ha ancora registrato la variazione. Lasciamogliela ancora per qualche tempo giusto per ricordarci di quando eravamo più liberi. E di quando lo erano anche Padellaro & C.

Download (PDF, 430KB)

Enrico Letta da Fazio e l’IVA al 22% sugli e-book

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Il detentore del copyright di questo file, Presidenza della Repubblica, permette a chiunque di utilizzarlo per qualsiasi scopo, a condizione che il detentore del copyright venga riconosciuto come tale. Sono consentiti la redistribuzione, le opere derivate, la modifica, l'uso commerciale ed ogni altro uso.

Mentre era a piangere da Fazio, ieri sera Enrico Letta ha trovato il tempo di rammaricarsi del fatto che i libri di carta hanno l’aliquota iva al 4% mentre gli e-book al 22%. E ha aggiunto che questa è un’ingiustizia.

Mi occupo di distribuire e-book gratis da circa undici anni. Francamente trovo perfino ridicolo che uno un e-book se lo compri, ma questa è deformazione professionale, ognuno faccia quel che crede.

Però un libro di carta

a) lo posso prestare a un amico;
b) posso leggerlo anche tra molto tempo (in casa ho libri del ‘700, si leggono ancora benissimo. La Bibbia di Gutenberg è ancora perfettamente leggibile e ha più di 500 anni);
c) posso usarlo per riparare temporaneamente la zampa del tavolino;
d) se ho freddo posso gettarlo nel fuoco e scaldarmi;
e) se non mi piace lo posso regalare alla biblioteca del paese perché possa essere prestato ad altri.

Mentre un e-book

a) se lo copio e lo passo a un amico commetto reato;
b) tra 500 anni nessuno potrà leggerlo più. Ma neanche tra 10, se è per quello, e verosimilmente morirà assieme all’accrocchio che uso per leggerlo. E con lui moriranno i soldi che ho speso per comprarlo;
c) non fa spessore, e il Kindle sotto la zampa traballante non risolve il problema;
d) non brucia e io muoio di freddo;
e) non potendolo trasferire non posso darlo alla biblioteca che non può prestarlo, a sua volta, ad altri.

Il libro di carta svolge delle funzioni primarie di necessità. L’e-book è un bene di lusso. Chi lo vuole se lo paga, anche se si tratta di qualcosa di immateriale, e caro.

Se, poi, ci sono persone che per necessità personali hanno bisogno di una versione in e-book di un titolo (per esempio i dislessici nei confronti dei testi scolastici) devono averla gratis. Punto e basta.
Ma se una casalinga vuole leggersi “Cinquanta sfumature di grigio” sotto l’ombrellone e non vuole farlo sapere al marito o non vuole far vedere la copertina ai vicini, perché poi nel loro giudizio oltre che casalinga diventa anche un po’ zoccola, allora è bene che se lo compri, e chi se ne frega se col 22% di IVA.

E’ come la gente che si compra un iPhone di ultima generazione, lo paga un bòtto ma poi si lamenta che WhatsApp le chiede 0,89 euro all’anno per continuare a funzionare.

Gente col Kindle, col tablet, con l’Android… tutti lì a pagare 0,99 euro per una coscienza di Zeno o per un fu Mattia Pascal, quando va bene. Ma se si tratta dell’ultimo libro dello scrittore di grido si arriva a pagare più o meno lo stesso prezzo dell’edizione cartacea. Solo che il libro te lo tieni, mentre l’e-book lo prendi e lo butti via.

Ma non inquina. Almeno quello.