(questa mi è piaciuta tanto, ma peccato non sia mia. L’ho letta sull’account di Rosa A. Polacco -che fuma cose improponibili e usa i prodotti di Stigiò e io non smetterò mai di rimproverarglielo-)
E lui che t’ha portato via la donna che amavi d’un solo colpo. Un incidente, dicevano.
E lui che è ancora lì, in giro per il paese, dopo sette mesi. Sette mesi in cui hai covato una rabbia antica, un rancore infinito e la voglia di stenderlo una volta per tutte. Sette mesi in cui hai pensato e ripensato. Ne hai studiato le abitudini, i movimenti, i vizi. Lo hai pedinato e lo hai guardato in faccia, lui, l’assassino. Una, cinque, dieci, venti volte, non importa quante, serviva per imprimerti bene nella mente la faccia dell’imperdonabile.
E lui esce dal bar. E la pistola è lì, nel giubbotto. Puoi sentirla, fredda e quasi impersonale. Ma sai che non sbaglierà. Qualche parola, niente di più. E poi spari. E spari, spari e ancora spari.
E lui cade a terra. Chissà se ha avuto il tempo di pensare a qualcosa o a qualcuno. Prima c’era, adesso non c’è più.
E lui, che nessuna giustizia umana adesso potrà più condannare, è stato condannato dalla tua vendetta.
Non è sufficiente il bene per assorbire il dolore. La gente muore e il dolore resta, caparbio, a darci contezza di sé.
No, non basta la vergogna.
La vergogna ci fa rendere conto della nostra miserabile essenza, ma dura il tempo di un rossore di gòte e di una lacrima, poi passa e noi ricominciamo, dapprima incerti, poi sempre più gonfi di sicumera, a vivere nell’ipocrita condizione di chi si dà pace, mentre gli altri giacciono, morti.
No, non basta la solidarietà.
La solidarietà si dà ai vivi, a chi c’è ancora. A chi può sentire ancora il profumo di lacca del parrucchiere dato poche ore prima di un volo di Stato, mentre si bacia il nulla dicendo “Condoglianze, caro/a!” in un incrociarsi di visi.
No, non basta la preghiera.
La preghiera è valida per chi crede, ma lo Stato è fatto anche di chi non crede, e nell’emergenza non ci si può permettere il lusso di tenere fuori qualcuno.